Principi e Prassi

Relazione di Luigi Covatta al convegno di Orvieto dell'associazione Libertà Eguale

Innanzitutto un breve commento alla ricerca di Mannheimer, i cui risultati testimoniano di un disorientamento dell’opinione pubblica davvero preoccupante. Cala la fiducia nella magistratura e cresce il numero di quanti considerano urgente la riforma del sistema giudiziario. Ma cala anche il livello di civiltà giuridica, se il 66% degli intervistati preferisce un innocente in galera a un colpevole in libertà, e il 31% è favorevole alla pena di morte. Tanto da autorizzare il sospetto che la stessa sfiducia nella magistratura nasca dall’eccesso di aspettative di cui essa è stata investita negli ultimi anni, anche in relazione alla caduta di aspettative rispetto al sistema politico.

Del resto dieci anni fa Alessandro Pizzorno aveva descritto con disincantato realismo, e senza nessuna acrimonia nei confronti della magistratura, il nesso che esiste fra crisi della democrazia rappresentativa ed espansione del potere giudiziario, e non aveva nascosto la deriva verso la crisi dello Stato di diritto che ne consegue. Se infatti all’arena elettorale si sostituisce un insieme impalpabile in cui ad ogni testa non corrisponde un voto (quella che Habermas definisce la “sfera pubblica”, e cioè “una cerchia più o meno ristretta, dove agiscono, si esprimono e intrecciano i loro rapporti sia i membri della classe politica in senso proprio, sia intellettuali e leader di opinione, giornalisti e altri, imprenditori di movimenti e associazioni, attivisti, esperti delle istituzioni”),  sarà inevitabile che questa stessa “sfera pubblica” si sostituisca alle aule dei tribunali e che la magistratura assuma come criterio di verifica del proprio operato quello del “riconoscimento politico”: col risultato di trasformare il controllo di legalità in quello che Pizzorno definisce il “controllo della virtù”.[1]

Altri studiosi hanno descritto lo stesso fenomeno con approcci diversi, giungendo peraltro a conclusioni simili. Maria Stella Righettini, analizzando la politicizzazione dei poteri neutri,  ha messo in luce la mutazione genetica che l’evoluzione dell’ambiente mediatico ha determinato nella forma della politicizzazione della magistratura, per cui ai “partiti giudiziari” (le tradizionali correnti dell’ANM collaterali al sistema politico) si è sostituito il “partito dei giudici”, il cui rapporto col sistema politico “tende a risolversi in un conflitto, piuttosto che in un’alleanza tra èlites”, perché “non si svolge nell’arena elettorale ma all’esterno e fa leva sul rapporto diretto tra poteri neutrali ed opinione pubblica”.[2]

Mauro Calise ha messo a fuoco lo stesso fenomeno sul versante dell’universo mediatico, a sua volta orientato a svincolarsi dal collateralismo verso il sistema politico: con la differenza, però, che mentre il “partito dei giudici” esercita un potere effettivo, il “partito dei media” esercita un potere effimero, per cui ha un ruolo solo facendosi megafono di altri poteri (nel caso italiano fino al 1994 sia del movimento referendario che del “partito dei giudici”, e poi specialmente di quest’ultimo dopo l’eterogenesi dei fini referendari verificatasi con la vittoria di Berlusconi).[3]

Da ultimo Roberto Racinaro ha osservato che “i poteri neutri si politicizzano” perchè “la politica si neutralizza”, in quanto “non attiene più –almeno in apparenza- al campo della decisione”, ma “provvede a portare a compimento ciò che non si può fare a meno di fare”, dal momento che “così vuole la legge, così vogliono i trattati, così suggerisce la scienza, o la globalizzazione, o lo sviluppo economico”. E se la politica dimentica di essere “l’arte del possibile, non del necessario”, inevitabilmente lascia il passo alla giurisdizione, che invece si muove a suo agio proprio nel valutare “comportamenti che scorrono entro i binari della necessità”.  Senza dire che “quando i valori comuni diventano introvabili, quando le leggi sono vaghe e pletoriche e la colpa non ha più un contenuto ben identificabile, paradossalmente è l’accusa a costituire la colpa e non più il contrario” e “la criminalizzazione offre un valido sostituto di quelle immagini e di quei simboli comunitari che sono scomparsi”.[4]

Come se Berlusconi non ci fosse  

Basterebbero queste citazioni per giustificare il titolo di questa sessione, che vuole trattare della questione giustizia “come se Berlusconi non ci fosse”; e soprattutto per smentire la tesi secondo cui quella della giustizia non sarebbe una questione prioritaria se non per Berlusconi. La crisi della democrazia rappresentativa e l’esondazione del potere giudiziario che ne deriva, infatti, non sono fenomeni contingenti. Sono fenomeni cruciali con cui le forze politiche democratiche non possono fare a meno di misurarsi, perchè ne va della loro stessa legittimazione. E se proprio si vuole enfatizzare anche questa volta la peculiarità del caso italiano sarebbe il caso innanzitutto di riconoscere che Berlusconi probabilmente non ci sarebbe se non avesse vinto la sua partita prima che nell’arena elettorale proprio in quella “sfera pubblica” gioiosamente attraversata nei primi anni ’90 dal “partito dei giudici” e dal “partito dei media”. E’ facile osservare, infatti, che chi nella “sfera pubblica” ferisce nella “sfera pubblica” può anche perire. E che nella “sfera pubblica” in cui le opinioni fanno premio sui principi e possono miscelarsi nel modo più imprevedibile può anche accadere che il 66% degli intervistati in un sondaggio preferisca l’innocente in galera al colpevole in libertà mentre il 66% degli intervistati in altri sondaggi esprima gradimento per un capo del governo che non nasconde le sue opinioni sull’amministrazione della giustizia. Non serve, a questo proposito, eccepire che quello di Berlusconi è un garantismo peloso. Serve invece allarmarsi per la miscela esplosiva che si produce nel mercato delle opinioni quando in esso la moneta cattiva scaccia quella buona, come è accaduto in Italia da molti anni a questa parte. Se non altro per questo sarebbe bene che chi si oppone a una maggioranza in cui convivono umori forcaioli ed urgenze garantiste evitasse di voltarsi dall’altra parte quando si parla di giustizia e scavasse invece nella contraddizione che attraversa la cultura delle forze di governo, possibilmente non per lisciare il pelo ai forcaioli. 

La tesi “benaltrista” incautamente sostenuta finora dal PD, comunque, appare ancora più fallace se applicata alla congiuntura politica in cui ci troviamo. E’ infatti innegabile che sono segnate dall’iniziativa del potere giudiziario l’alfa e l’omega della vicenda della seconda Repubblica, cominciata con  il pronunciamento del pool di Milano contro il decreto Conso e finita, dopo essere stata azzoppata dalla bocciatura extraparlamentare della “bozza Boato”, con le ordinanze della Procura di Santa Maria Capua Vetere. Ed è altrettanto evidente che senza una posizione in materia la “vocazione maggioritaria” del PD non regge né nell’immediatezza dello scontro politico –che non a caso si svolge fra Berlusconi e Di Pietro- né in una prospettiva di maggiore respiro, perché elude il confronto con una crisi di sistema che mette in gioco sia la qualità della democrazia, sia la credibilità dei controlli di legalità, come ha ben spiegato Sergio Romano, paventando che senza una radicale riforma si giunga al “paradossale risultato di screditare contemporaneamente, anche se in campi opposti della società, sia il partito della legalità sia quello della legittimità democratica”.[5]

La costituzione materiale del sistema giudiziario italiano

Lo scenario fin qui descritto mette nella giusta luce innanzitutto le cause esogene dell’espansione del potere giudiziario, che come si è detto Pizzorno individua nell’indebolimento del potere rappresentativo. Da questo punto di vista non sarebbe inutile una riflessione sull’efficacia delle innovazioni istituzionali introdotte in Italia negli ultimi quindici anni al di fuori di un compiuto e consapevole disegno di revisione costituzionale. Magari per chiedersi se la tendenza alla verticalizzazione dei poteri esecutivi non abbia troppo compromesso il ruolo di controllo delle assemblee, e se d’altra parte la giusta esigenza di semplificazione del sistema dei partiti non abbia dato un ulteriore colpo alla capacità inclusiva della democrazia rappresentativa. Ma la riflessione sulle cause esogene dell’esondazione del sistema giudiziario non esclude una parallela e autonoma riflessione sulle cause endogene dello stesso fenomeno, che è appunto quello che ci accingiamo a fare qui.

A questo proposito è bene innanzitutto sgombrare il campo dai falsi alibi. Il principale lo ha smontato Augusto Barbera quando ha negato che per riformare il sistema giudiziario servano radicali revisioni costituzionali.[6] Perfino la separazione delle carriere non contraddice lo spirito e la lettera della Costituzione del ’48, se è vero che essa (art. 107) distingue fra le garanzie riconosciute ai magistrati giudicanti, elencate nel primo comma, e le prerogative del Pubblico ministero, rinviate nell’ultimo comma alle norme sull’ordinamento giudiziario, solo “provvisoriamente” quelle del 1941 in virtù della VII disposizione transitoria. E l’obbligatorietà dell’azione penale comunque non preclude leggi applicative meno irragionevoli di quelle in vigore, come ha argomentato di recente Tullio Padovani.[7]

Da rivedere radicalmente, invece, è la costituzione materiale del sistema giudiziario, risultato del combinato disposto di legge elettorale per il CSM e legge Breganze, deresponsabilizzazione dei capi degli uffici e novelle al Codice Vassalli, procedure di reclutamento e cattiva allocazione delle risorse, e via dicendo.

E’ probabilmente grazie a questa costituzione materiale che ora la Costituzione formale “fatica nel compito di creare concordia” fra principio di legittimità e principio di legalità, come ha osservato Gustavo Zagrebelsky, che ha rilevato che si stanno divaricando “le strade della legittimità e della legalità (la prima, adeguatezza ad aspettative concrete; la seconda, conformità a norme astratte)”, ed ha ammonito che senza una riforma che vada “alla radice, per colmarlo, dello scarto tra legalità e legittimità, ci possiamo attendere uno svolgimento tragico del conflitto tra una legalità illegittima e una legittimità illegale”, dal momento che “di legalità si vive, quando corrisponde alla legittimità, ma altrimenti si può anche morire”.[8]

Non per scherzo, ma per non morire, è quindi urgente procedere alla riforma radicale (in latino si dice ab imis) della costituzione materiale del nostro sistema giudiziario. E dal momento che la riforma di una costituzione materiale è per sua natura incrementale, è auspicabile che a monte dei vari interventi di cui essa si integrerà ci sia da parte delle forze politiche di maggioranza e di opposizione una comune consapevolezza circa la posta in gioco. E che ci sia anche consapevolezza dei nuovi termini della questione, senza che alcuni si attardino ad inveire contro le “toghe rosse” invece di misurarsi col partito unico delle toghe ed altri si affannino a cercare il preventivo consenso dei riformandi invece di perseguire le possibili convergenze in seno al sistema politico. La riforma di una costituzione materiale, infatti, anche se non esige leggi di revisione costituzionale, esige che si legiferi in via ordinaria con spirito costituente.

Quanto al merito delle riforme, non spetta a me dettare ricette, specialmente davanti a una così qualificata platea di relatori. Mi limiterò quindi a porre alcune questioni, al solo scopo di sollecitare un dibattito che se vuole essere davvero costituente, come insegna Rawls, deve coprire con un velo d’ignoranza le proposte sul tappeto.

Il Consiglio superiore della magistratura

Cominciamo col Consiglio superiore della magistratura. Le norme che ne regolano la composizione sono ancora quelle pensate all’epoca dei “partiti giudiziari”, e risultano quindi obsolete nell’epoca del “partito dei giudici” e del radicale mutamento del sistema politico con cui i “partiti giudiziari” scambiavano risorse. E’ quindi forte il rischio dell’autoreferenzialità, con tutte le conseguenze che ne derivano. Inoltre è curioso che una magistratura professionale che giustamente mette in guardia contro il rischio di introdurre nel nostro ordinamento magistrati elettivi pretenda poi per sé una magistratura elettiva in sede disciplinare. Infine la  titolarità della presidenza attribuita al Capo dello Stato, che a mio avviso va mantenuta, mal si concilia con alcune pretese, come quella di vagliare preventivamente finanche la costituzionalità dei disegni di legge, che interferisce innanzitutto con le prerogative dello stesso Capo dello Stato rispetto al procedimento legislativo.

La separazione delle carriere

Quanto poi alla separazione delle carriere, è appena il caso di osservare che l’introduzione del rito accusatorio ed il nuovo art. 111 della Costituzione presumono logicamente la radicale distinzione fra funzioni giudicanti e funzioni requirenti. L’argomento con cui fin dal 1993 questa ipotesi è stata respinta dai magistrati del pubblico ministero (che rivendicano per sé una “cultura della giurisdizione” analoga a quella dei giudicanti a tutela degli stessi imputati) è evidentemente pretestuoso, e denuncia una nostalgia per il vecchio rito inquisitorio. Senza dire che alcune prassi investigative seguite dagli inquirenti fanno dubitare della saldezza della loro “cultura della giurisdizione”. E che nella prassi l’applicazione del nuovo codice ha leso la “cultura della giurisdizione” anche presso le prime istanze giudicanti, GIP e GUP. A questo punto, comunque, sarebbe meglio discutere del “come”, piuttosto che del “se”. Anche per scoraggiare pericolose derive verso modelli elettivi del Pubblico ministero, e cercare invece soluzioni più equilibrate, anche per quanto riguarda il rapporto con le forze di polizia.

L’obbligatorietà dell’azione penale

Veniamo all’obbligatorietà dell’azione penale. Della possibile eterogenesi dei fini si è già detto. Essa però diventa praticamente certa stante l’attuale organizzazione degli uffici giudiziari. Recentemente il procuratore aggiunto presso il Triibunale di Torino, Bruno Tinti, ha descritto efficacemente il caos che si determinerà nei Tribunali in seguito all’ex “bloccaprocessi”.[9] Ma implicitamente ha riconosciuto che lo stesso caos domina l’organizzazione giudiziaria anche senza le nuove norme. Del resto ci sarebbe da stupirsi del contrario, visto che non esiste organizzazione al mondo che possa funzionare senza un minimo di ordinamento gerarchico. La questione riguarda innanzitutto l’ufficio del Pubblico ministero, che è quello che determina l’agenda dei processi e che non è più ordinato gerarchicamente. Una Procura che funziona, invece, è quella antimafia (la cui istituzione fu caldeggiata da Falcone ed osteggiata da Magistratura democratica), in cui è stata ripristinata una certa gerarchia.

L’organizzazione degli uffici e l’allocazione delle risorse

Un altro alibi da smontare, a questo proposito, è quello relativo alle risorse. Ci si lamenta che siano scarse, ma stando ai dati del Consiglio d’Europa solo la Svezia e la Spagna, fra i grandi paesi, hanno una spesa pro capite superiore alla nostra per quanto riguarda l’amministrazione della giustizia, e solo l’Olanda per quanto riguarda gli uffici della pubblica accusa (diversa è la collocazione del nostro paese per il sostegno in giudizio ai non abbienti, che è la minore di tutti gli altri dell’Occidente, Danimarca esclusa). Per cui è legittimo chiedersi se la pessima allocazione delle risorse non sia anche una conseguenza dell’abbandono di ogni gerarchia nell’organizzazione degli uffici giudiziari. Mentre già un’organizzazione più razionale, come a legislazione vigente viene adottata in alcuni tribunali, assicura una certa riduzione dei tempi del processo, che comunque non è tale da insidiare il primato assoluto in materia di cui l’Italia gode fra i paesi del Consiglio d’Europa.[10]  

La giustizia civile

Finora mi sono concentrato sui problemi della giustizia penale, perché dal suo dissesto nasce la tragedia politica e civile di cui parlava Zagrebelsky. Ma dal dissesto della giustizia civile nasce un’altrettanto grave tragedia sociale ed economica. Ad essa si può porre riparo innanzitutto con misure organizzative come quelle adottate dal Tribunale di Torino che Corrado e Leonardi illustrano nel saggio già citato. Fra queste è prevista anche l’attribuzione di piccoli incentivi alla diligenza dei magistrati, che nessuno impedirebbe di rendere meno piccoli e più certi se si introducessero forme di valutazione esterna, magari impegnando i Consigli giudiziari. Accanto agli incentivi, però, è bene applicare disincentivi, a cominciare da quelli relativi al tariffario forense, spesso fonte di eccessiva litigiosità e di altrettanto eccessive strategie dilatorie.     

La giustizia amministrativa

Della costituzione materiale del nostro sistema giudiziario fa parte anche un monstrum: un organo giurisdizionale che è anche organo di consulenza di una parte. Mi riferisco al Consiglio di Stato, che giudica le inadempienze della stessa Pubblica amministrazione di cui è appunto consulente. Inevitabile, quindi, che con questo vertice abbia finito per diventare mostruosa anche la base della piramide, costituita da Tribunali che non giudicano sulla base di diritti, ma di “interessi legittimi”, e che non riconoscono la parità delle parti, dal momento che fondano la loro stessa esistenza sulla preminenza degli interessi di una parte (lo Stato) su quelli dell’altro (il cittadino).

La riforma del Codice penale

La riforma della giustizia, peraltro, non può riguardare solo le procedure e l’ordinamento giudiziario, ma deve investire anche e soprattutto le norme sostanziali che la magistratura è chiamata a far rispettare. La riforma del Codice penale  dovrebbe essere ormai matura. Sarebbe auspicabile che essa prevedesse ampie depenalizzazioni, onde concentrare l’azione penale sui reati di maggiore gravità. E sarebbe auspicabile che di questo nel frattempo tenesse conto anche il legislatore, evitando di ricorrere a sanzioni penali nel legiferare su nuove ipotesi di reato. Così però non è, come ha denunciato di recente Antonio Polito nel commentare le gride governative contro la prostituzione, l’immigrazione clandestina, la guida in stato d’ebbrezza e quant’altro integra l’onnicapiente “pacchetto sicurezza”.[11] Senza dire del simmetrico riflesso condizionato della sinistra, sempre pronta a penalizzare, invece, il politically uncorrect.

La stampa e la riservatezza delle indagini

Due parole, infine, sulla riservatezza delle indagini. Come disse nel 1977 Amendola con intenzioni non encomiastiche, “l’Italia è il paese più libero del mondo”. In tutti i paesi civili, infatti, la riservatezza delle indagini, e la stessa limitazione della pubblicità dei processi, in un modo o nell’altro vengono garantite. Anche con misure simboliche, come il divieto di accesso ai fotografi nelle aule giudiziarie o le parrucche indossate dai giudici di Sua Maestà britannica. Non occorre quindi fare grandi sforzi di fantasia per risolvere il problema. Basta da un lato copiare le norme tedesche o quelle inglesi. Dall’altro, leggere qualche testo di semiologia elementare che spieghi la differenza che c’è fra uno schizzo a matita e uno schermo televisivo. In Italia, invece, la libertà di stampa è permanentemente in pericolo. Anche quando abbandona ogni vocazione alla informazione autonoma e rivendica il diritto di pubblicare intercettazioni telefoniche (che sono veline in re ipsa) con lo stesso vigore con cui dopo la strage di piazza Fontana si rifiutò di prendere per buone le veline dell’epoca.

Ritrovare lo spirito costituente

Quanto alle misure preannunciate dal governo, aspettiamo di vederle prima di giudicarle. Per ora quello che conta è il punto di vista generale, che non può identificarsi né col vittimismo degli uni né col benaltrismo degli altri, ma deve, come ho già detto, essere orientato da uno spirito costituente.  Con questo spirito si potranno meglio valutare anche le riforme già varate, alcune delle quali, per la verità, sembrano pezze a colore. Ma per contestare credibilmente il “lodo Alfano” bisogna avere il coraggio di rivisitare l’immunità parlamentare abrogata dopo l’assalto al Raphael; per contestare il decreto sulle intercettazioni bisogna negare il principio per cui tutto è pubblicabile; e per smascherare la finzione dell’obbligatorietà dell’azione penale bisogna riorganizzare l’ufficio del Pubblico ministero, ridimensionando le ambizioni di tanti sostituti. Soprattutto bisogna che la politica smetta di “neutralizzarsi” e rivendichi l’autorità di promulgare leggi alle quali soltanto (e almeno) è sottoposta la magistratura.

 


[1] A. PIZZORNO, Il potere dei giudici, Laterza, 1998.

[2] Rivista italiana di scienza politica, agosto 1995.

[3] M. CALISE, La Costituzione silenziosa, Laterza, 1998, pp. 61-63 e p. 124.

[4] Da un secolo all’altro, Rubbettino, 2004, pp. 236-240.

[5] Il Corriere della sera  del 19 luglio 2008.

[6] Il Riformista del 3 settembre 2008.

[7] Il Riformista del 25 luglio 2008;

[8] La Repubblica del 22 luglio 2008.

[9] La Stampa del 19 luglio 2008.

[10] Si veda a questo proposito Così l’efficienza entra in tribunale, di D. Corrado e M. Leonardi, su Lavoce.info del 19 febbraio 2007; L’andamento lento della giustizia civile, di M. Leonardi e M. R. Rancan, su Lavoce.info del 2 settembre 2008.

[11] Il Riformista del 13 settembre 2008.