Principi e Prassi
Relazione di Luigi Covatta al convegno di Orvieto dell'associazione Libertà Eguale
Innanzitutto un breve commento alla ricerca
di Mannheimer, i cui risultati testimoniano di un disorientamento dell’opinione
pubblica davvero preoccupante. Cala la fiducia nella magistratura e cresce il
numero di quanti considerano urgente la riforma del sistema giudiziario. Ma
cala anche il livello di civiltà giuridica, se il 66% degli intervistati
preferisce un innocente in galera a un colpevole in libertà, e il 31% è
favorevole alla pena di morte. Tanto da autorizzare il sospetto che la stessa
sfiducia nella magistratura nasca dall’eccesso di aspettative di cui essa è
stata investita negli ultimi anni, anche in relazione alla caduta di
aspettative rispetto al sistema politico.
Altri
studiosi hanno descritto lo stesso fenomeno con approcci diversi, giungendo
peraltro a conclusioni simili. Maria Stella Righettini, analizzando la
politicizzazione dei poteri neutri, ha
messo in luce la mutazione genetica che l’evoluzione dell’ambiente mediatico ha
determinato nella forma della politicizzazione della magistratura, per cui ai
“partiti giudiziari” (le tradizionali correnti dell’ANM collaterali al sistema
politico) si è sostituito il “partito dei giudici”, il cui rapporto col sistema
politico “tende a risolversi in un conflitto, piuttosto che in un’alleanza tra èlites”,
perché “non si svolge nell’arena elettorale ma all’esterno e fa leva sul
rapporto diretto tra poteri neutrali ed opinione pubblica”.[2]
Mauro
Calise ha messo a fuoco lo stesso fenomeno sul versante dell’universo
mediatico, a sua volta orientato a svincolarsi dal collateralismo verso il
sistema politico: con la differenza, però, che mentre il “partito dei giudici”
esercita un potere effettivo, il “partito dei media” esercita un potere
effimero, per cui ha un ruolo solo facendosi megafono di altri poteri (nel caso
italiano fino al 1994 sia del movimento referendario che del “partito dei
giudici”, e poi specialmente di quest’ultimo dopo l’eterogenesi dei fini referendari
verificatasi con la vittoria di Berlusconi).[3]
Da
ultimo Roberto Racinaro ha osservato che “i poteri neutri si politicizzano”
perchè “la politica si neutralizza”, in quanto “non attiene più –almeno in
apparenza- al campo della decisione”, ma “provvede a portare a compimento ciò
che non si può fare a meno di fare”, dal momento che “così vuole la legge, così
vogliono i trattati, così suggerisce la scienza, o la globalizzazione, o lo
sviluppo economico”. E se la politica dimentica di essere “l’arte del possibile,
non del necessario”, inevitabilmente lascia il passo alla giurisdizione, che
invece si muove a suo agio proprio nel valutare “comportamenti che scorrono
entro i binari della necessità”. Senza
dire che “quando i valori comuni diventano introvabili, quando le leggi sono
vaghe e pletoriche e la colpa non ha più un contenuto ben identificabile,
paradossalmente è l’accusa a costituire la colpa e non più il contrario” e “la
criminalizzazione offre un valido sostituto di quelle immagini e di quei simboli
comunitari che sono scomparsi”.[4]
Basterebbero
queste citazioni per giustificare il titolo di questa sessione, che vuole
trattare della questione giustizia “come se Berlusconi non ci fosse”; e
soprattutto per smentire la tesi secondo cui quella della giustizia non sarebbe
una questione prioritaria se non per Berlusconi. La crisi della democrazia
rappresentativa e l’esondazione del potere giudiziario che ne deriva, infatti,
non sono fenomeni contingenti. Sono fenomeni cruciali con cui le forze
politiche democratiche non possono fare a meno di misurarsi, perchè ne va della
loro stessa legittimazione. E se proprio si vuole enfatizzare anche questa
volta la peculiarità del caso italiano sarebbe il caso innanzitutto di riconoscere
che Berlusconi probabilmente non ci sarebbe se non avesse vinto la sua partita
prima che nell’arena elettorale proprio in quella “sfera pubblica” gioiosamente
attraversata nei primi anni ’90 dal “partito dei giudici” e dal “partito dei
media”. E’ facile osservare, infatti, che chi nella “sfera pubblica” ferisce
nella “sfera pubblica” può anche perire. E che nella “sfera pubblica” in cui le
opinioni fanno premio sui principi e possono miscelarsi nel modo più
imprevedibile può anche accadere che il 66% degli intervistati in un sondaggio
preferisca l’innocente in galera al colpevole in libertà mentre il 66% degli
intervistati in altri sondaggi esprima gradimento per un capo del governo che
non nasconde le sue opinioni sull’amministrazione della giustizia. Non serve, a
questo proposito, eccepire che quello di Berlusconi è un garantismo peloso.
Serve invece allarmarsi per la miscela esplosiva che si produce nel mercato
delle opinioni quando in esso la moneta cattiva scaccia quella buona, come è
accaduto in Italia da molti anni a questa parte. Se non altro per questo
sarebbe bene che chi si oppone a una maggioranza in cui convivono umori
forcaioli ed urgenze garantiste evitasse di voltarsi dall’altra parte quando si
parla di giustizia e scavasse invece nella contraddizione che attraversa la
cultura delle forze di governo, possibilmente non per lisciare il pelo ai
forcaioli.
La
tesi “benaltrista” incautamente sostenuta finora dal PD, comunque, appare
ancora più fallace se applicata alla congiuntura politica in cui ci troviamo.
E’ infatti innegabile che sono segnate dall’iniziativa del potere giudiziario
l’alfa e l’omega della vicenda della seconda Repubblica, cominciata con il pronunciamento del pool di Milano contro
il decreto Conso e finita, dopo essere stata azzoppata dalla bocciatura
extraparlamentare della “bozza Boato”, con le ordinanze della Procura di Santa
Maria Capua Vetere. Ed è altrettanto evidente che senza una posizione in
materia la “vocazione maggioritaria” del PD non regge né nell’immediatezza dello
scontro politico –che non a caso si svolge fra Berlusconi e Di Pietro- né in
una prospettiva di maggiore respiro, perché elude il confronto con una crisi di
sistema che mette in gioco sia la qualità della democrazia, sia la credibilità
dei controlli di legalità, come ha ben spiegato Sergio Romano, paventando che
senza una radicale riforma si giunga al “paradossale risultato di screditare
contemporaneamente, anche se in campi opposti della società, sia il partito
della legalità sia quello della legittimità democratica”.[5]
Lo
scenario fin qui descritto mette nella giusta luce innanzitutto le cause
esogene dell’espansione del potere giudiziario, che come si è detto Pizzorno
individua nell’indebolimento del potere rappresentativo. Da questo punto di
vista non sarebbe inutile una riflessione sull’efficacia delle innovazioni
istituzionali introdotte in Italia negli ultimi quindici anni al di fuori di un
compiuto e consapevole disegno di revisione costituzionale. Magari per
chiedersi se la tendenza alla verticalizzazione dei poteri esecutivi non abbia
troppo compromesso il ruolo di controllo delle assemblee, e se d’altra parte la
giusta esigenza di semplificazione del sistema dei partiti non abbia dato un
ulteriore colpo alla capacità inclusiva della democrazia rappresentativa. Ma la
riflessione sulle cause esogene dell’esondazione del sistema giudiziario non
esclude una parallela e autonoma riflessione sulle cause endogene dello stesso
fenomeno, che è appunto quello che ci accingiamo a fare qui.
A
questo proposito è bene innanzitutto sgombrare il campo dai falsi alibi. Il
principale lo ha smontato Augusto Barbera quando ha negato che per riformare il
sistema giudiziario servano radicali revisioni costituzionali.[6]
Perfino la separazione delle carriere non contraddice lo spirito e la lettera
della Costituzione del ’48, se è vero che essa (art. 107) distingue fra le
garanzie riconosciute ai magistrati giudicanti, elencate nel primo comma, e le
prerogative del Pubblico ministero, rinviate nell’ultimo comma alle norme
sull’ordinamento giudiziario, solo “provvisoriamente” quelle del 1941 in virtù
della VII disposizione transitoria. E l’obbligatorietà dell’azione penale
comunque non preclude leggi applicative meno irragionevoli di quelle in vigore,
come ha argomentato di recente Tullio Padovani.[7]
Da
rivedere radicalmente, invece, è la costituzione materiale del sistema
giudiziario, risultato del combinato disposto di legge elettorale per il CSM e
legge Breganze, deresponsabilizzazione dei capi degli uffici e novelle al
Codice Vassalli, procedure di reclutamento e cattiva allocazione delle risorse,
e via dicendo.
E’
probabilmente grazie a questa costituzione materiale che ora la Costituzione
formale “fatica nel compito di creare concordia” fra principio di legittimità e
principio di legalità, come ha osservato Gustavo Zagrebelsky, che ha rilevato
che si stanno divaricando “le strade della legittimità e della legalità (la
prima, adeguatezza ad aspettative concrete; la seconda, conformità a norme
astratte)”, ed ha ammonito che senza una riforma che vada “alla radice, per
colmarlo, dello scarto tra legalità e legittimità, ci possiamo attendere uno
svolgimento tragico del conflitto tra una legalità illegittima e una legittimità
illegale”, dal momento che “di legalità si vive, quando corrisponde alla
legittimità, ma altrimenti si può anche morire”.[8]
Non
per scherzo, ma per non morire, è quindi urgente procedere alla riforma
radicale (in latino si dice ab imis) della costituzione materiale del
nostro sistema giudiziario. E dal momento che la riforma di una costituzione
materiale è per sua natura incrementale, è auspicabile che a monte dei vari
interventi di cui essa si integrerà ci sia da parte delle forze politiche di maggioranza
e di opposizione una comune consapevolezza circa la posta in gioco. E che ci
sia anche consapevolezza dei nuovi termini della questione, senza che alcuni si
attardino ad inveire contro le “toghe rosse” invece di misurarsi col partito
unico delle toghe ed altri si affannino a cercare il preventivo consenso dei
riformandi invece di perseguire le possibili convergenze in seno al sistema
politico. La riforma di una costituzione materiale, infatti, anche se non esige
leggi di revisione costituzionale, esige che si legiferi in via ordinaria con
spirito costituente.
Quanto
al merito delle riforme, non spetta a me dettare ricette, specialmente davanti
a una così qualificata platea di relatori. Mi limiterò quindi a porre alcune
questioni, al solo scopo di sollecitare un dibattito che se vuole essere
davvero costituente, come insegna Rawls, deve coprire con un velo d’ignoranza
le proposte sul tappeto.
Cominciamo
col Consiglio superiore della magistratura. Le norme che ne regolano la
composizione sono ancora quelle pensate all’epoca dei “partiti giudiziari”, e
risultano quindi obsolete nell’epoca del “partito dei giudici” e del radicale
mutamento del sistema politico con cui i “partiti giudiziari” scambiavano
risorse. E’ quindi forte il rischio dell’autoreferenzialità, con tutte le
conseguenze che ne derivano. Inoltre è curioso che una magistratura
professionale che giustamente mette in guardia contro il rischio di introdurre
nel nostro ordinamento magistrati elettivi pretenda poi per sé una magistratura
elettiva in sede disciplinare. Infine la
titolarità della presidenza attribuita al Capo dello Stato, che a mio
avviso va mantenuta, mal si concilia con alcune pretese, come quella di
vagliare preventivamente finanche la costituzionalità dei disegni di legge, che
interferisce innanzitutto con le prerogative dello stesso Capo dello Stato
rispetto al procedimento legislativo.
Quanto
poi alla separazione delle carriere, è appena il caso di osservare che
l’introduzione del rito accusatorio ed il nuovo art. 111 della Costituzione
presumono logicamente la radicale distinzione fra funzioni giudicanti e
funzioni requirenti. L’argomento con cui fin dal 1993 questa ipotesi è stata
respinta dai magistrati del pubblico ministero (che rivendicano per sé una
“cultura della giurisdizione” analoga a quella dei giudicanti a tutela degli
stessi imputati) è evidentemente pretestuoso, e denuncia una nostalgia per il
vecchio rito inquisitorio. Senza dire che alcune prassi investigative seguite
dagli inquirenti fanno dubitare della saldezza della loro “cultura della
giurisdizione”. E che nella prassi l’applicazione del nuovo codice ha leso la
“cultura della giurisdizione” anche presso le prime istanze giudicanti, GIP e
GUP. A questo punto, comunque, sarebbe meglio discutere del “come”, piuttosto
che del “se”. Anche per scoraggiare pericolose derive verso modelli elettivi
del Pubblico ministero, e cercare invece soluzioni più equilibrate, anche per
quanto riguarda il rapporto con le forze di polizia.
Finora
mi sono concentrato sui problemi della giustizia penale, perché dal suo
dissesto nasce la tragedia politica e civile di cui parlava Zagrebelsky. Ma dal
dissesto della giustizia civile nasce un’altrettanto grave tragedia sociale ed
economica. Ad essa si può porre riparo innanzitutto con misure organizzative
come quelle adottate dal Tribunale di Torino che Corrado e Leonardi illustrano
nel saggio già citato. Fra queste è prevista anche l’attribuzione di piccoli
incentivi alla diligenza dei magistrati, che nessuno impedirebbe di rendere
meno piccoli e più certi se si introducessero forme di valutazione esterna,
magari impegnando i Consigli giudiziari. Accanto agli incentivi, però, è bene
applicare disincentivi, a cominciare da quelli relativi al tariffario forense,
spesso fonte di eccessiva litigiosità e di altrettanto eccessive strategie
dilatorie.
Della
costituzione materiale del nostro sistema giudiziario fa parte anche un monstrum:
un organo giurisdizionale che è anche organo di consulenza di una parte. Mi
riferisco al Consiglio di Stato, che giudica le inadempienze della stessa
Pubblica amministrazione di cui è appunto consulente. Inevitabile, quindi, che
con questo vertice abbia finito per diventare mostruosa anche la base della
piramide, costituita da Tribunali che non giudicano sulla base di diritti, ma
di “interessi legittimi”, e che non riconoscono la parità delle parti, dal
momento che fondano la loro stessa esistenza sulla preminenza degli interessi
di una parte (lo Stato) su quelli dell’altro (il cittadino).
Due
parole, infine, sulla riservatezza delle indagini. Come disse nel 1977 Amendola
con intenzioni non encomiastiche, “l’Italia è il paese più libero del mondo”.
In tutti i paesi civili, infatti, la riservatezza delle indagini, e la stessa
limitazione della pubblicità dei processi, in un modo o nell’altro vengono
garantite. Anche con misure simboliche, come il divieto di accesso ai fotografi
nelle aule giudiziarie o le parrucche indossate dai giudici di Sua Maestà
britannica. Non occorre quindi fare grandi sforzi di fantasia per risolvere il
problema. Basta da un lato copiare le norme tedesche o quelle inglesi. Dall’altro,
leggere qualche testo di semiologia elementare che spieghi la differenza che
c’è fra uno schizzo a matita e uno schermo televisivo. In Italia, invece, la
libertà di stampa è permanentemente in pericolo. Anche quando abbandona ogni
vocazione alla informazione autonoma e rivendica il diritto di pubblicare
intercettazioni telefoniche (che sono veline in re ipsa) con lo stesso
vigore con cui dopo la strage di piazza Fontana si rifiutò di prendere per
buone le veline dell’epoca.
Quanto
alle misure preannunciate dal governo, aspettiamo di vederle prima di
giudicarle. Per ora quello che conta è il punto di vista generale, che non può
identificarsi né col vittimismo degli uni né col benaltrismo degli altri, ma
deve, come ho già detto, essere orientato da uno spirito costituente. Con questo spirito si potranno meglio
valutare anche le riforme già varate, alcune delle quali, per la verità,
sembrano pezze a colore. Ma per contestare credibilmente il “lodo Alfano”
bisogna avere il coraggio di rivisitare l’immunità parlamentare abrogata dopo
l’assalto al Raphael; per contestare il decreto sulle intercettazioni bisogna
negare il principio per cui tutto è pubblicabile; e per smascherare la finzione
dell’obbligatorietà dell’azione penale bisogna riorganizzare l’ufficio del
Pubblico ministero, ridimensionando le ambizioni di tanti sostituti.
Soprattutto bisogna che la politica smetta di “neutralizzarsi” e rivendichi
l’autorità di promulgare leggi alle quali soltanto (e almeno) è sottoposta la
magistratura.
[1] A. PIZZORNO, Il potere dei giudici, Laterza, 1998.
[2] Rivista italiana di scienza politica, agosto 1995.
[3] M. CALISE, La Costituzione silenziosa, Laterza, 1998, pp. 61-63 e p. 124.
[4] Da un secolo all’altro, Rubbettino, 2004, pp. 236-240.
[5] Il Corriere della sera del 19 luglio 2008.
[6] Il Riformista del 3 settembre 2008.
[7] Il Riformista del 25 luglio 2008;
[8] La Repubblica del 22 luglio 2008.
[9] La Stampa del 19 luglio 2008.
[10] Si veda a questo proposito Così l’efficienza entra in tribunale, di D. Corrado e M. Leonardi, su Lavoce.info del 19 febbraio 2007; L’andamento lento della giustizia civile, di M. Leonardi e M. R. Rancan, su Lavoce.info del 2 settembre 2008.
[11] Il Riformista del 13 settembre 2008.