da "Le Ragioni del Socialismo", 5 maggio 2008

Elezioni:  18 Aprile 1948 – 13 e 14 Aprile 2008

di Luigi Covatta

Nella Celebrazione di un trentennio Enzo Forcella mise in rilievo la “reazione di sorpresa e di incredulità” con cui il 18 aprile del 1948 la “maggior parte degli italiani colti dell’epoca” vide affermarsi una classe dirigente composta da uomini di cui non sapeva “assolutamente nulla”, anche se “sarebbe stato sufficiente avere un’immagine del nostro paese un po’ più articolata di quella che ci aveva offerto la Storia d’Italia di Benedetto Croce” per vederli emergere “dalle parrocchie e dai salottini della piccola borghesia di provincia, dai circoli ricreativi e dai consigli d’amministrazione delle casse rurali”.

Sessant’anni dopo la differenza (non trascurabile) è che al posto di Croce a formare il senso comune della “maggior parte degli italiani colti” ci sono Floris, Vespa e Santoro. Ma il risultato non cambia. Basta infatti scorrere l’agenda delle questioni che hanno animato il dibattito pubblico nei talk show degli ultimi dieci anni per rendersi conto di quanto esse siano state ininfluenti nel determinare l’orientamento degli elettori. Le diatribe sullo “scalone” e sulla legge Biagi non hanno impedito a Maroni di fare il pieno dei voti operai. Le auto blu della casta leghista non hanno turbato  gli elettori del Varesotto. Le chiacchiere sui partiti leggeri non hanno distolto i militanti della Lega né dal volantinaggio nè dalle pratiche liturgiche di Pontida. Le iniziative delle toghe d’assalto, buone ad urne chiuse per azzoppare D’Alema e coventrizzare Mastella, ad urne aperte non hanno scalfito il consenso raccolto da Berlusconi e Dell’Utri, che del resto ha resistito anche alle denunce del conflitto d’interessi e della manipolazione videocratica  Perfino la questione cattolica, benché somministrata sotto le due specie (quella “politica” e quella “etica”), non ha fatto la differenza, se è vero che con tutto l’endorsement della Cei Casini non è andato oltre il 5% e la lista di Ferrara non ha tolto voti ai listoni imparzialmente bacchettati da Famiglia cristiana.

Così, mentre nella realtà virtuale c’è stato spazio perfino per quello scudo crociato che sessant’anni fa alla “maggior parte degli italiani colti” era sembrata “insegna piuttosto buffa”, nella vita reale tocca innanzitutto occuparsi dell’insegna altrettanto buffa di Alberto da Giussano. La quale, per la verità, ha ottenuto più o meno gli stessi voti che aveva ottenuto nel 1992, quasi a chiudere con la forza simbolica dei numeri l’inutile parentesi della seconda Repubblica. Una parentesi che, sia pure in altri termini, viene chiusa, oltre che dalla sconfitta romana del corifeo della “stagione dei sindaci” del 1993, anche dalla contestualità del successo di Di Pietro e della disfatta di una  sinistra che nel giustizialismo aveva trovato una comoda scorciatoia di rilegittimazione.

Si dirà che la stessa sorte è toccata ai socialisti, che di Di Pietro furono vittime e non complici. Ma questo è un caso di suicidio. Perfino la polemica con Veltroni sul mancato apparentamento non è andata oltre gli argomenti di Enzo Jannacci, per non dire della rinuncia a contestare ai due partiti maggiori l’appropriazione indebita sia del  socialismo liberale che degli animal spirits del craxismo.

Gli stessi due partiti maggiori, del resto, sono testimonianza di quindici anni buttati ad aspettare che il rospo missino diventasse principe, i postcomunisti fondassero la socialdemocrazia, il partito di plastica si desse una cultura politica e le margherite fiorissero rigogliose. Ora sembra che abbiano voltato pagina, ma sono ancora al primum vivere. Per filosofare Berlusconi deve riflettere sul calo di voti al Nord e Veltroni sul calo di voti al Sud, a tre anni dall’insediamento di giunte regionali di centrosinistra in tutto il Mezzogiorno continentale. Ma soprattutto entrambi debbono affrontare una crisi di sistema che si ripropone tale e quale dopo quindici anni.

 E’ auspicabile che questa volta lascino a riposo gli ingegneri elettorali e si dedichino invece al lavoro costituente. Magari senza farsi influenzare dalla sirena del “federalismo fiscale” (e men che meno dall’idea di realizzare il federalismo in un solo partito), ma cominciando anzi col chiedersi se Bossi e Di Pietro siano il medico o la malattia. 

05 maggio 2008

Luigi Covatta