(dal mensile "Socialismo" di aprile 2008)

Su Prodi disaccordo con Galli della Loggia

di Luigi Covatta

Sul Corriere del 9 marzo Ernesto Galli della Loggia, nel rimproverare ai postcomunisti di avere rimosso la figura di Prodi come i comunisti avevano via via rimosso quelle di Bordiga, Cucchi, Magnani, fino ad Occhetto, colloca il Professore in «quella peculiare corrente del cattolicesimo politico» che ha sempre guardato con interesse al Pci e «all’incontro reciproco scritto in un certo senso nelle cose». La corrente cui allude Galli della Loggia è evidentemente quella dossettiana. Ma il dossettismo della vulgata è diverso dal dossettismo reale, di cui è difficile dire quale sarebbe stato il ruolo politico dopo il ritiro di Dossetti dalla vita politica nel 1951. Allora, fra i vari commenti, egli preferì quello di Umberto Segre, che aveva osservato come si fossero ristrette «le possibilità d’azione di un orientamento di laburismo cattolico» coerente con «una vocazione che non si stenterebbe a chiamare socialista se questo epiteto non subisse, in campo cattolico, tutte le riserve dei giudizi pontifici». E quando poi nel 1956, su invito di Lercaro, scese in campo contro Dozza, il suo programma non fu quello della Curia, ma piuttosto quello elaborato in quel cenacolo del Mulino che avevano fondato Nicola Matteucci, Federico Mancini e Luigi Pedrazzi. Senza dire che anche l’altro possibile inveramento del dossettismo, quello del Fanfani del primo centro-sinistra, si nutriva della stessa cultura e condivideva la stessa intenzione agonistica verso il Pci. Anche l’appartenenza di Prodi al dossettismo, peraltro, fa parte della vulgata. Non perché egli sia estraneo a quell’ambiente culturale, ma perché del tutto diverso da quello di Dossetti è stato il ruolo che è stato chiamato ad interpretare da quando a metà degli anni ‘90 i postcomunisti scommisero sulla sua leadership. Quella scommessa infatti individuava in Prodi non l’uomo dello schermo (o l’utile idiota, per usare il linguaggio dell’anticomunismo anni ‘50), ma l’espressione di un mondo senza il quale alla Seconda Repubblica sarebbe mancata la legittimazione su cui si fondò la prima. Per cui non è improprio, e tanto meno caricaturale, confrontare il ruolo di Prodi con quello svolto cinquant’anni fa da De Gasperi. Ed è innegabile che almeno sul versante dell’europeismo fra il 1996 e il 1998 il Professore abbia retto il confronto. Diversa, invece, è stata la forma in cui i due leader hanno cercato di valorizzare la risorsa costituita dal mondo cattolico. De Gasperi fin dal 1943 perseguì con ostinazione l’unità politica dei cattolici, vincendo sia la resistenza del «partito romano» che la sua stessa inclinazione personale. Questa ostinazione non poggiava certo su una valutazione encomiastica del ruolo politico del Vaticano, ma era anzi strumentale al suo contenimento: nell’immediato per sventare velleità salazariste come quelle manifestate da Gedda subito dopo il 25 luglio; in prospettiva per evitare al nuovo partito la sorte toccata al partito di Sturzo, ma soprattutto per ricomporre l’unità culturale della nazione, lacerata prima ancora che dal fascismo da quel non expedit che aveva escluso la classe dirigente cattolica dalla formazione dello Stato Universitario. Anche Prodi ha valutato con realistico disincanto le potenzialità della risorsa cattolica e, mutatis mutandis, si è preoccupato di garantirne l’unità nelle forme possibili dopo la dissoluzione della Dc. Perciò si è tenuto prudentemente lontano dalle formazioni postdemocristiane ed ha perseguito una sorta di “unità apolitica dei cattolici”. Ma ha sopravvalutato la tenuta della rete associazionistica e sottovalutato l’indole politicista della gerarchia, che la Dc aveva solo contenuto, e che dopo si è manifestata senza freni. Neanche a De Gasperi peraltro l’unità politica dei cattolici sarebbe bastata a tenere a freno l’invadenza clericale senza quella accortissima politica delle alleanze che perseguì senza lasciare vuoti fra la fase costituente e quella centrista. Ed è su questo terreno che Prodi non ha retto il confronto. Francesco Forte, nel rendergli l’onore delle armi, gli ha contestato sul Foglio un solo errore, quello di non aver promosso un governo di grande coalizione dopo il risicatissimo successo elettorale di due anni fa. Un errore solo, ma non veniale. Determinante per la cattiva performance dell’ultimo governo da lui guidato, ma ancor più per il fallimento della missione, forse impossibile, che gli era stata affidata, e che era appunto quella cli rinnovare il miracolo degasperiano nella legittimazione della seconda Repubblica. Obiettivo fallito non solo nel 2006, ma anche dieci anni prima, col sabotaggio del tentativo “costituente” di D’Alema. Allora, probabilmente, l’abbaglio fu quello di ritenere possibile la mobilitazione del mondo cattolico contro Berlusconi in nome di una incompatibilità valoriale di cui la gerarchia si sarebbe rapidamente infischiata. Ora, più modestamente, l’abbaglio è stato quello, già sperimentato da altri negli ultimi anni della prima Repubblica, dì sopravvalutare il proprio potere d’interdizione. Ma è un fatto che con Prodi, e con buona pace di Casini e di Marini, esce di scena anche la funzione del cattolicesimo politico nella nostra vita repubblicana. Di quel cattolicesimo politico, cioè, che grazie a De Gasperi seppe trasformare un problema (la “questione cattolica”) in una soluzione, e che oggi, nella migliore delle ipotesi, torna ad essere soltanto un problema, e neanche tanto facile da risolvere.