Relazione di Luigi Covatta

Bagni di Masino, 6 luglio 2007

Il tema scelto per questo incontro non è così ovvio. Non manca, infatti, fra i promotori del partito democratico, chi pensa che fondare un nuovo partito significhi costituire poco più che un comitato elettorale su un programma di legislatura. Né manca chi pensa al "partito personale", enfatizzando e drammatizzando così la scelta del leader. O infine chi rinvia ad un Pantheon più o meno attendibile i riferimenti ideali di cui pure ritiene che un partito non possa fare a meno. E' il caso, perciò, di ragionare innanzitutto sulla forma partito, per evitare che la critica di quella che Scoppola ha definito La Repubblica dei partiti (non solo della partitocrazia, peraltro, ma anche della forte ideologizzazione dei partiti che l'hanno formata) dia luogo a reazioni eccessive, fino a negare che sia ancora attuale una forma partito fondata su una comune cultura politica, e a sostenere che per giustificare la nascita di un partito riformista sia inutile il confronto col passato recente e remoto del riformismo italiano.

Genesi di una partitocrazia

La partitocrazia, in Italia, non è calata dal cielo. Né si è conformata, come ritiene una discutibile vulgata, principalmente agli orientamenti delle potenze vincitrici della seconda guerra mondiale. Lucio Caracciolo, che pure definisce l'Italia postbellica "un semiprotettorato", tiene a precisare che "un semiprotettorato non è una colonia né un palatinato", per cui, benché "condizionata, consociata, la prima Repubblica è restata comunque e prima di tutto una democrazia", in cui "i governi italiani sono stati scelti dagli italiani, non dagli americani" e sono stati i comunisti italiani che "hanno preferito la difesa della propria identità/diversità all'opportunità di accedere al governo". Ed Ennio Di Nolfo documenta la non irresistibile influenza degli alleati perfino sulla piccola Corte di Salerno.

In realtà è un altro il motivo principale per cui la formazione del sistema politico repubblicano non ha coinciso nè con una rivoluzione liberale, né con una restaurazione liberale, ed è stata invece condizionata da una forte path dependence , grazie alla quale, come dice Salvati, nella sua definizione iniziale "i conflitti ideologici della prima metà del Novecento" sono penetrati "in profondità". Questa marcata ideologizzazione, che comunque dominava lo scenario postbellico in tutta Europa, secondo Salvatore Lupo "trovò terreno fertile anche nello specifico italiano, forse più che altrove, perché qui era stato inventato il fascismo".

Non a caso, del resto, la divergenza sull'interpretazione del fascismo (che per Croce è una parentesi, per Parri la conseguenza della scarsa legittimazione democratica dello Stato liberale) divise innanzitutto l'antifascismo liberaldemocratico, e costituì il pretesto per la crisi del governo Parri e l'avvento di De Gasperi e del dominio dei partiti di massa.

Luciano Cafagna, che sottolinea "i mutamenti intervenuti, con il fascismo, nella ‘forma partito', come istituzione della società di massa", sostiene che il partito di massa su base ideologica è un lascito fascista che viene raccolto dalla DC e dal PCI. La prima eredita "le attese di assistenza in senso stretto, e inoltre la funzione di mediazione generale verso lo Stato (una funzione formatasi, o comunque dilatatasi col fascismo) presso il notabilato economico e sociale, nonché i mezzi e la tecnica per la strumentalizzazione del diffuso parastato di fascistica origine"; il secondo risponde alla "attesa sociologica di una successione totalitaria al fascismo", alla "funzione di manipolazione ideologica della incertezza sul futuro prodotta dal mutamento", alla "disponibilità di massa agli appelli di piazza e ad ampi inquadramenti, a una partecipazione mobilitata, a uno statalismo che però -ed è la tradizione socialista, che anche il fascismo, comunque, aveva parzialmente interinato- si auspica più sociale, più generale, possibilmente non favoritistico". E Zunino, che pure sottovaluta drasticamente il ruolo dei socialisti nella formazione del sistema politico e deplora, d'altra parte, il velleitarismo della proposta azionista, documenta impietosamente quanto il partito-Stato fosse penetrato nella società italiana prebellica, e come la società italiana postbellica fosse transitata al nuovo regime senza sostanziali soluzioni di continuità.

Il passato remoto del riformismo italiano: il riformismo implicito

Questa premessa è utile anche per riflettere sul passato remoto del riformismo italiano, sul quale ci sono due "scuole di pensiero". Una è quella di Vacca, per la quale è esistito un riformismo implicito della DC e del PCI che non ha potuto dispiegarsi pienamente solo a causa dei condizionamenti internazionali, ma ha avuto, dopo l'età dell'oro della Costituente e dei governi di unità nazionale, una nuova sperimentazione col compromesso storico, per essere finalmente libero di manifestarsi solo dopo il 1989. E' una tesi sostenuta anche da autori estranei alla tradizione del PCI, come per esempio Rosati e Mastropaolo, i cui presupposti storiografici, peraltro, sono controversi, e vengono ora contraddetti anche da Piero Craveri, che demistifica la versione oleografica della concordia costituente e documenta quanto freddo sia stato il calcolo politico di De Gasperi nel rapporto col PCI. L'altra è quella di Cafagna, che ho cercato di riassumere nel mio Menscevichi, e per la quale la storia del riformismo italiano è storia di minoranze che vengono enucleate nella genesi del sistema politico, sconfitte col primo esperimento di centro-sinistra e non diventano necessariamente maggioranza dopo la cesura del 1989. E' una tesi sostenuta anche da Sabbatucci, che parla di "riformismo impossibile" e praticabile solo "dall'alto", da Salvadori, che fa risalire, come del resto Sabbatucci, la debolezza della sinistra moderata addirittura ai vizi di legittimazione popolare del Risorgimento, da Lanaro e da Crainz, che individuano nel fallimento del primo centro-sinistra la sconfitta storica del riformismo italiano.

Il passato remoto del riformismo italiano: i menscevichi

Ovviamente posso esporre solo la tesi che condivido, e che individua nel ruolo minoritario del PSI l'origine della iniziale debolezza del riformismo nella storia repubblicana. Secondo Cafagna nel dopoguerra questo partito avrebbe potuto sfuggire alla morsa della partitocrazia duale solo perseguendo un'alternativa populista, peraltro plausibile considerando la figura di Nenni. Infatti dopo la vittoria repubblicana di cui era stato il principale protagonista egli avrebbe potuto essere "il leader populista, o popolar-democratico, della nuova democrazia italiana", tenendo anche conto che fra le "eredità formali (e sociologiche) del fascismo", oltre a "quella della partitocrazia pervasiva" c'era anche "quella della leadership populista".

Nenni rifiutò di essere "il romagnolo di turno", e cercò, un po' maldestramente, di trovare il suo spazio in seno alla "partitocrazia pervasiva", inizialmente attraverso un rapporto di simbiosi mimetica col PCI. Fin dal 1948, però, si fa strada un'altra idea del possibile ruolo sistemico del PSI. Lombardi, dopo la sconfitta del Fronte, vince il congresso di Genova sostenendo che "la sconfitta del PSI come forza politica efficiente ed autonoma sarebbe la sconfitta delle istanze democratiche e liberali prima ancora che di quelle socialiste", e su questa base imposta un programma riformista che poi confluirà nel "Piano del lavoro", fatto proprio dalla CGIL l'anno successivo, ma sostanzialmente sabotato dai vertici politici di PCI e PSI, ormai totalmente subordinati allo stalinismo.

Cattolici, socialisti e "socialdemocrazia realizzata"

Il PSI, comunque, specialmente dopo il 1953, comincia ad essere uno dei due poli di riferimento delle forze impegnate nella modernizzazione del paese, quelle in gran parte raggruppate nel cenacolo degli "Amici del Mondo". L'altro polo è rappresentato dalla sinistra cattolica, sopravvissuta al ritiro di Dossetti ed anzi in grado, dopo la morte di De Gasperi, di assumere la guida della DC con Fanfani. E' in quegli anni, a cavallo fra i '50 e i '60, e per impulso della sinistra democristiana, che in Italia si realizza qualcosa di assai simile al modello socialdemocratico europeo, con lo sviluppo dell'economia mista e delle tutele sociali del lavoro dipendente. Ed è per cercare una sponda politica adeguata a questa strategia che nella sinistra democristiana si comincia ad auspicare la "apertura a sinistra".

Il PSI, soprattutto dopo il 1956 e la confluenza degli ex comunisti di Giolitti che si affiancano agli ex azionisti di Lombardi e Codignola, corrisponde a questo disegno, e si configura sempre più come il "partito dei moderni": il luogo, cioè, in cui le minoranze modernizzanti dei partiti di sinistra trovano non solo la loro naturale collocazione, ma anche una straordinaria valorizzazione.

Il disegno di Fanfani e Lombardi, però, non si realizza. Non tanto in seguito al prevedibile sabotaggio messo in opera dal PCI, ma per il sabotaggio interno alla DC, che si manifesta con la rivolta dorotea contro Fanfani. Come scrive Cafagna si determina così "uno stravolgimento dell'idea originaria del centro-sinistra", che "trovava il suo senso nell'apporto di una spalla politicamente adeguata al manifestarsi dell'anima riformatrice della DC", mentre "senza Fanfani tutto l'onere del riformismo veniva spostato sulle spalle del partner di minoranza della coalizione", finendo per non "essere più una politica di governo, ma al massimo una pressione interna al governo", determinando un circolo vizioso in cui "la DC chiamava dentro i socialisti non offrendo una politica riformatrice contro un sostegno, bensì, più prosaicamente, vendendo posti di governo contro un sostegno". Il risultato fu che, "mentre in uno scambio politico del primo tipo (politica riformatrice contro sostegno) i socialisti avrebbero potuto ottenere una merce rivendibile all'elettorato di sinistra (e tentare così di rafforzarsi, anche a spese dei comunisti), nello scambio svilito del secondo tipo (meri posti di governo contro sostegno) non ottenevano una merce investibile elettoralmente, ma una merce solo consumabile, per così dire, in casa dal ceto politico socialista in quanto tale".

Mi sono diffuso sul fallimento del primo centro-sinistra perché lo considero un tornante decisivo per le sorti del riformismo italiano, su cui vale la pena di riflettere anche oggi. Innanzitutto da parte degli epigoni della sinistra cattolica. Recentemente Ernesto Galli della Loggia, in uno dei suoi brevi corsivi sul Corriere, ha rinfacciato a questa componente di pretendere l'intera eredità democristiana, da De Gasperi a Dossetti, da Sturzo a Fanfani. La contestazione è ben fondata, se si pensa che De Gasperi costrinse Dossetti a ritirarsi dalla vita politica e Sturzo considerava Fanfani poco meno che un pericolo per la libertà. Ed è politicamente attuale, perchè una ricostruzione più selettiva della propria genealogia potrebbe indurre questa componente a riconoscersi nei fondatori di quella che è stata la "socialdemocrazia realizzata" in Italia, ed a porsi, conseguentemente, come problema anche proprio, e non solo di altri, la prospettiva di andare "oltre la socialdemocrazia".

Ma la riflessione sarebbe utile anche agli epigoni del PSI e del PCI. I primi potrebbero trovare motivi per smorzare i propri furori identitari, rivalutando il ruolo sistemico dell'autonomia socialista, promossa allora da un ex azionista e da un ex comunista come trent'anni prima era stata difesa dal repubblicano Pietro Nenni. E per ricordare quanto fecondo fu allora l'incontro con la cultura cattolica, anche per laicizzare e deideologizzare il sistema politico italiano. Tanto che uno dei pochi riformisti di autoctona ascendenza socialista, Fernando Santi, scelse il convegno aclista di Vallombrosa del 1968 per auspicare che "forze che si muovono in tutti i campi, in quello cattolico, in quello socialista, in quello comunista" dessero vita, nell'ambito della sinistra, ad "una forza politica non egemonizzata da parte di chiunque, garante e fedele ai principi della democrazia e della libertà, nel rispetto della coscienza di ciascuno e di tutti, capace di offrire un'alternativa alla guida ed alla gestione moderata del potere"

Il partito unico dei lavoratori e il compromesso storico

Quanto agli epigoni del PCI, è bene non dimenticare la fine che fece la coraggiosa proposta di Amendola sul partito unico dei lavoratori, e quali conseguenze ebbe la sua bocciatura nella selezione del gruppo dirigente comunista dopo la morte di Togliatti. Fu allora, infatti, che nella gerarchia interna Napolitano venne scavalcato da Berlinguer, per il quale invece del partito unico dei lavoratori bisognava perseguire "una più stretta unità delle forze autenticamente socialiste (e cioè delle forze che respingono l'ideologia e la politica socialdemocratica, mantenendo ferma la loro fedeltà ai principi del socialismo e sono decise a battersi per la trasformazione socialista dell'Italia)", dal momento che "tutta l'esperienza delle socialdemocrazie europee e l'esperienza italiana dimostrano che ogni rinuncia sul terreno della prospettiva del socialismo e ogni distacco dall'internazionalismo conducono sempre a rinunce anche sul terreno della lotta per uno sviluppo democratico conseguente".

La ripulsa di ogni ipotesi di "alternativa socialdemocratica", del resto, fu la premessa della politica del compromesso storico, concepita da Berlinguer tenendo ben presente la lezione di Franco Rodano, a sua volta attento a tenere la barra al centro fra "i due indirizzi contrapposti - ‘di destra' e ‘di sinistra'- che discendono da una valutazione minimalistica della forza, delle possibilità e del potere odierni della classe operaia e del PCI". Rodano e Berlinguer, invece, ragionavano a partire da una valutazione opposta, fino a considerare la compattezza "centrista" del PCI un bene in sé, e ad assegnarle un ruolo decisivo non solo per la stabilizzazione politica interna, ma anche per quella internazionale. Per Biagio de Giovanni "il quadro internazionale non fu letto in evoluzione, ma nella sua staticità", tanto che "DC e PCI pensavano, ideologicamente, a una stabilizzazione del bipolarismo e a una democratizzazione dell'URSS", per cui "il tentativo di stabilizzazione del compromesso storico pretendeva di rafforzare e rimotivare il vecchio equilibrio, quando intorno tutto cambiava".

E' ben vero che nella sua breve sperimentazione politica, favorita dal risultato elettorale del 1976, e finita col risultato elettorale del 1979, il compromesso storico consentì al PCI anche di mettere alla prova la propria cultura di governo, e per questo venne apprezzato dalla "destra" interna. Ma sul piano della finanza pubblica il risultato di quell'esperimento è stato severamente valutato da molti, fra cui Salvati. Mentre sul piano politico vale l'invettiva di Claudio Petruccioli contro il gruppo dirigente di allora: "Si trovarono a disposizione una grandissima forza e circostanze favorevoli. Si impegnarono nel compromesso storico e nella solidarietà nazionale. Ma ne vissero l'esperienza come l'applicazione di uno schema definito trent'anni prima, piuttosto che come occasione di profondo rinnovamento. Gli italiani ebbero la sensazione che più il PCI diveniva forte, più l'alternativa si allontanava".

Il craxismo

Per questo, ed anche per l'opportunismo con cui l'esperimento venne gestito dalla DC, il compromesso storico determinò, più che una stabilizzazione, un definitivo blocco del sistema politico. Ed è in questo contesto che nasce il craxismo, che è la continuazione con altri mezzi dell'esercizio del ruolo sistemico del PSI. Secondo Gianfranco Pasquino il rovesciamento operato da Craxi della tendenza seguita "un po' impoliticamente" da Nenni e Lombardi, i quali avevano "sempre anteposto le preoccupazioni per il funzionamento e l'evoluzione del sistema politico a quelle relative ai vantaggi del partito", nasce dalla consapevolezza che "senza ambizioni partigiane il PSI condanna se stesso a un ruolo subalterno che è altresì nocivo per tutto il sistema". Craxi, del resto, proprio nel 1982, al culmine del processo di rinnovamento del suo partito, lancerà un ultimo appello al sistema politico perché sia possibile formare "o un vero centro-sinistra o una vera alternativa". Ma l'appello cade nel vuoto, per cui non resta che l'iniziativa partigiana, che si articola su tre fronti: quello della rivendicazione identitaria, quello della riforma del sistema politico e quello del franco esercizio della leadership.

L'identità del PSI non può essere, sic et simpliciter, quella della socialdemocrazia europea. Lo impedisce il ruolo minoritario effettivamente svolto. E lo sconsiglia l'opportunità di valorizzare il felice meticciato che nel PSI si è realizzato, e che si estende ormai anche alla cultura cattolico-sociale di Labor e di Carniti. Perciò il PSI approda prima di altri partiti socialisti al socialismo liberale, che si esprime pienamente con il discorso di Martelli alla conferenza di Rimini del 1982, con il quale il PSI si pone oltre "la pietrificata sociologia delle classi ereditata dal marxismo", scarta "il compito di produrre una rivoluzione che non c'è" invece "di rappresentare politicamente e di governare con l'efficienza della politica democratica la rivoluzione che è in atto", e propone l'alleanza fra "le donne e gli uomini di merito, di talento, di capacità" e "le donne e gli uomini immersi nel bisogno": i primi "sono persone utili a sé e agli altri", che "progrediscono e fanno progredire l'intera società con il loro lavoro, con la loro immaginazione, con la loro creatività, con il produrre più conoscenze", e sono quindi "coloro che possono agire"; mentre i secondi "sono le persone che non sono poste in grado di essere utili a sé e agli altri, coloro che sono emarginati o dal lavoro, o dalla conoscenza o dagli affetti o dalla salute", e quindi "devono agire".

Come avrebbe scritto anni dopo Benzoni, insomma, "se proprio di ‘rivoluzione' si doveva continuare a parlare questa non era la modifica radicale, il superamento dell'ordine esistente attraverso l'azione cosciente della politica, quanto piuttosto l'evoluzione spontanea e multiforme della società che si trattava di capire e sostenere. In altre parole il ‘reale' non era un disordine potenzialmente catastrofico da trasformare con l'azione di una superiore razionalità di pochi. Ma un processo per definizione razionale che si doveva in primo luogo capire e poi favorire e, se del caso, orientare".

Quanto agli altri due fronti, essi, a ben vedere, erano schierati entrambi contro il doroteismo. Quello della riforma del sistema politico era stato aperto da Amato fin dal 1977 in polemica con il "modello spartitorio" con cui egli aveva identificato la prassi dorotea nel governo dell'economia. Quello dell'esercizio della leadership, che ebbe la sua massima enfasi, ovviamente, fra il 1983 e il 1987, si contrapponeva alla prassi del "governo ai margini" che secondo Scoppola la DC aveva inaugurato dopo la sconfitta elettorale del 1953, e che a partire dal 1959 era stato il fondamento dell'egemonia dorotea sul partito di maggioranza.

In questa chiave, del resto, vanno letti anche gli effetti collaterali che questa strategia determinava nella sinistra, e che erano tanto più devastanti quanto più il PCI si era a sua volta collocato in seno al sistema ad egemonia dorotea, in parlamento con l'assemblearismo e nella politica di governo col consociativismo e l'esercizio del diritto di veto nei conflitti sociali.

 Il passato recente del riformismo italiano: la crisi di sistema

Il passato recente, secondo la datazione in uso, coincide con la "rivoluzione" del 1992 e con l'estinzione della DC e del PSI. Ma più correttamente il termine a quo va fissato nel 1987. E' allora, infatti, che si manifesta una crisi di governabilità che ha già tutti i segni della crisi di sistema. Lo dimostrano anche le forme: le dimissioni del governo Craxi che non sanzionano una cattiva performance governativa ma il rispetto del patto partitocratrico della "staffetta"; la costituzione del governo Fanfani che ha il solo compito di impedire a Craxi di gestire le elezioni (cioè di sottoporre i risultati del suo governo al giudizio degli elettori), e che peraltro in Parlamento si vede paradossalmente negare la fiducia dalla DC. E lo dimostrano anche i sondaggi di allora, che, come ha documentato Gianni Statera, registrano contestualmente la grande popolarità di Craxi e la scarsissima popolarità del pentapartito.

All'incombente entropia della partitocrazia, del resto, fanno riscontro in quel quinquennio altri fenomeni che pure indicano la crisi della costituzione materiale. Nello scenario interno insorge innanzitutto una "questione settentrionale", che si manifesta in termini di protesta fiscale specialmente dopo l'approvazione della riforma Visentini; Sylos Labini avverte che già nel 1983 il ceto medio urbano ha superato in quantità la classe operaia, ed il PCI se ne accorge in diretta col referendum sulla scala mobile; la revisione del Concordato modifica i termini del rapporto fra Stato e Chiesa, favorendo l'autonomo protagonismo della CEI a prescindere sia dalla Santa Sede che dalla DC. Ma non bisogna neanche sottovalutare gli effetti della trasformazione del sistema dei media, che per Alberto Abruzzese determina"la distruzione del legame razionale e preordinato, contrattato e legittimato, tra macchina del potere costituito e apparati dell'informazione"; né quelli che ne conseguono rispetto alla politicizzazione dei poteri neutri, e innanzitutto della magistratura, che secondo Stella Righettini "tende a risolversi in un conflitto, piuttosto che in un'alleanza tra èlites", come invece era prima. Se a questo si aggiunge che "mentre i poteri ‘neutri' si politicizzano" secondo Roberto Racinaro "la politica si neutralizza", in quanto "non attiene più -almeno in apparenza- al campo della decisione", ma "provvede a portare a compimento ciò che non si può fare a meno di fare", si capisce perchè l'esposizione della politica alla giurisdizione diventa massima.

Quanto allo scenario internazionale, se la fine dell'URSS libera il sistema politico da alcuni vincoli (soprattutto il "fattore K"), il trattato di Maastricht nel 1991 gliene impone di nuovi e micidiali, se si pensa al peso dell'industria pubblica e all'entità del debito, che proprio nel 1990 aveva superato quella del PIL. Le conseguenze verranno tutte al pettine nel 1992, quando i vincoli più recenti determineranno la crisi monetaria e l'avvio di una serie di privatizzazioni piuttosto caotica, mentre il dissolversi dei vincoli più antichi non darà luogo a una migliore governabilità.

Il PCI e la riforma del sistema politico

Ma già dal 1987 i tre partiti maggiori non governano la crisi. La DC non recupera il proprio potere di coalizione, ed alterna quattro governi in cinque anni. Il PSI pensa di poter curare il cancro con l'aspirina del CAF. Quanto al PCI, Occhetto chiude la pagina del comunismo senza aprirne nessun'altra. Salvo scoprire, fin dal 1987, le virtù mimetiche della riforma elettorale. E' allora, infatti, che secondo Andrea Romano si convince che, "mescolando il nuovo della riforma elettorale con il vecchio dell'identità comunista" si può evitare "a tutto il partito di ripensare la propria ragion d'essere" ed eludere il problema di "cosa fare dell'Italia, o meglio cosa fare del PCI nel governo dell'Italia", limitandosi invece a "rimodellare le regole e le istituzioni del paese per permettere al PCI di entrare con la sua integrità identitaria nel vero gioco elettorale". Un'integrità identitaria, c'è da aggiungere, che finchè è possibile verrà orgogliosamente tutelata anche nel nome, cambiato un po' precipitosamente solo dopo la caduta del Muro nel 1989, con una "svolta" che è piuttosto un'inversione ad U rispetto alla tradizione del movimento operaio, ma che non per questo aiuta a decifrare i limiti di questa tradizione ed a valorizzarne le residue potenzialità.

Il messaggio di Cossiga

Solo Cossiga, col messaggio alle Camere del 1991, intuisce lo spessore costituzionale della crisi, ma viene isolato dalla DC, aggredito dal PDS, ignorato dal PSI. Eppure si tratta di un messaggio di alto profilo, che riletto oggi rivela una profonda consapevolezza dei rischi della situazione. Cossiga osservava che "a differenza di quanto accade nelle altre democrazie industriali, il sistema dei partiti operante in Italia ha manifestato la tendenza a trasformarsi da strumento di intermediazione tra società politica e società civile, così come prevede l'articolo 49 della nostra Costituzione, in un complesso e chiuso apparato di raccolta e ‘difesa' del consenso, come titolo per una articolata e spesso assai impropria gestione del potere ad ogni livello", tanto da determinare una "avversione verso uno ‘Stato dei partiti', inteso come Stato in cui i partiti sono non organizzazioni di consenso per la vita delle istituzioni, ma piuttosto di dominio sulla vita della società". Denunciava quindi il rischio che, "insieme ad una crescente disaffezione dal nostro sistema di governo" si concretizzi "il grave pericolo che questo malessere si esprima, presto o tardi, in un comune sentimento di non accettazione dei principi di ‘legittimità' che prima ancora di quelli di ‘legalità' sono il fondamento reale dell'osservanza della legge e dell'autorità dello Stato".

Per Cossiga la crisi istituzionale, da attribuire "all'instabilità ed all'inefficienza del sistema, ad una carenza decisionale, in una parola, ad una sorta di paralisi o di asfissia che sembra minacciare l'intero apparato istituzionale", si intrecciava con la crisi politica, perchè "molte delle disfunzioni del nostro sistema politico, e la stessa causa principale del non elevato livello della morale pubblica e di quella privata dei governanti, sono attribuite al fatto che la nostra è stata, per quasi quarant'anni, una democrazia bloccata, e cioè una democrazia senza alternative di fondo fra Governo e opposizione". Perciò il messaggio avrebbe dovuto contenere altre undici righe, con le quali si auspicava un governo di grande coalizione che vanificasse la conventio ad excludendum nei confronti del PDS, e che vennero cassate per ottenere la controfirma, se non del presidente Andreotti, almeno del guardasigilli Martelli. E proponeva un più diretto intervento del popolo nella riforma istituzionale, dubitando della capacità del "potere costituito" di farsi "potere costituente", come pretendevano -e continuano a pretendere- i più rigidi interpreti dell'articolo 138 della Costituzione.

La legge di Tocqueville

Su proposta di Bassanini la discussione di merito su quel messaggio venne rinviata alla legislatura successiva, che avrebbe dovuto essere appunto una legislatura "costituente". Ma non venne raccolto neanche il suggerimento politico del Capo dello Stato, perché, come poi dirà lui stesso, "in pieno travaglio postcomunista, il PCI si spaventò", mentre "Craxi, impaniato nel CAF, vede più rischi per il PSI che vantaggi da un PCI liberato dal fattore K".

In realtà nel 1992 il sistema politico è già morto. Fatica ad eleggere un presidente della Repubblica. Fallisce, con De Mita, l'obiettivo di salvare capra e cavoli combattendo su due fronti, quello costituzionale aperto da Cossiga e quello elettorale aperto da Segni. E fallisce, con Amato, l'obiettivo di governare la transizione.

Amato, secondo Benzoni, mentre affrontava la crisi finanziaria con una manovra "tutta nel segno del nuovo", perseguiva una gestione della crisi politica "a sostegno non tanto del vecchio, quanto di una transizione, nella misura del possibile, non traumatica". Egli quindi perseguiva "un programma di risanamento economico e di revisione istituzionale concordato, in qualche modo, tra le varie forze politiche", "un'ipotesi di riforma istituzionale non limitata alla legge elettorale (per il Parlamento e gli enti locali) ma estesa anche ad una prima ridefinizione" della forma di governo, e "una soluzione politica tale da consentire una rapida e soddisfacente celebrazione dei processi di Tangentopoli". L'ultimo obiettivo lo avrebbe mancato in proprio. Il secondo lo aveva già mancato De Mita. Il primo, però, avrebbe potuto essere ancora perseguito, e per questo, in fondo, egli aveva favorito la successione di Ciampi, che da un lato avrebbe tenuto dritta la barra del risanamento, e dall'altro poteva godere di un consenso politico-parlamentare più ampio. Ma il definitivo disimpegno del PDS rendeva irrealistico qualsiasi tentativo di governare la transizione, e fece sì che la legislatura rotolasse verso la sua fine, approvando frettolosamente la nuova legge elettorale, e negando al governo Ciampi prima tre ministri, poi perfino l'occasione di un dibattito parlamentare sulle sue dimissioni, che sarebbero state formalizzate il 13 gennaio 1994.

Quanto a De Mita, il suo ultimo colpo di coda è il veto all'introduzione del sistema elettorale francese (benché su di esso si profilasse una convergenza fra PDS e PSI), e l'invenzione del sistema "misto e italiano" della legge Mattarella, concepita innanzitutto per tutelare la sopravvivenza della DC nell'Italia del Sud in uno schema immaginario in cui la Lega avrebbe dominato l'Italia del Nord e il PDS quella centrale. Occhetto, d'altra parte, la subisce perchè ha fretta di incassare un successo elettorale che realizzi in Italia "un'unione della sinistra su basi inversamente simmetriche a quelle che l'hanno portata al potere in Francia", come gli consiglia Maurice Duverger sul Corriere della sera del 4 gennaio 1993.

Duverger gli consiglia anche di abbandonare il disegno della riforma costituzionale, considerata nient'altro che un espediente dilatorio del "vecchio" contro il "nuovo". E di fatto il consiglio del politologo francese viene seguito puntigliosamente sia dal "vecchio" in articulo mortis che dal "nuovo" che avanza, e che si cimenta con l'esperimento inedito di formare un sistema politico prescindendo dalle coordinate costituzionali, fino a dar vita a partiti che non a caso nel 1996 si sarebbero dimostrati incapaci di riaprire un processo costituente.

Mauro Calise indica la strada che di solito imbocca "un processo costituente sfuggito di mano ai partiti", che è quella "delle costituzioni oligarchiche". Ed ammonisce che, anche se "quando si parla di una costituzione senza partiti" si mitizza "un'età dell'oro in cui le istituzioni -il governo, il parlamento, la magistratura- erano libere da interferenze di parte, scevre da occupazioni partitiche", ci si dimentica che esse agivano non "in quanto grandi istituzioni universalistiche, bensì in quanto corpi particolari", che "molto prima di riconoscersi nella grande missione universalistica prevalsa nell'età democratica, erano cresciuti puntando in primo luogo alla propria riproduzione particolaristica".

E' in questo scenario che entra in vigore la "legge di Tocqueville", rievocata da Luciano Cafagna nel 1994: "Per un cattivo governo il momento più pericoloso è sempre quello in cui esso comincia a riformarsi. Il male sopportato pazientemente come inevitabile diviene intollerabile non appena si concepisca l'idea di liberarsene". Nell'inconcludenza della politica, infatti, "politologi ed editorialisti iniziarono una lunga esercitazione all'aperto, nel corso della quale si venne formando una squadra agguerrita di teste di cuoio dell'ingegneria istituzionale. L'esercitazione si svolgeva al cospetto di un'opinione pubblica che seguiva con occhi sbarrati, per lo più senza raccapezzarsi, ma cominciava a capire una cosa, e una cosa sola: che la prima Repubblica doveva essere mandata nei secchi della nettezza urbana".

Elogio del Mattarellum

Da parte sua Calise ricorda l'esibizione di "una straordinaria varietà di modelli, di più o meno sofisticata ingegneria istituzionale, sempre fondati su qualche demiurgica legge elettorale", per cui "il futuro del paese è stato presentato come diretta conseguenza di una clausola di sbarramento, di un doppio turno a ballottaggio flessibile, di un mono turno con scheda doppia", insomma di "un modellino formale capace di consegnare a un paese il suo futuro, con tanto di corredo bibliografico e citazioni d'importazione", fino a legittimare "l'idea che una svolta importante, addirittura una rivoluzione politica, possa essere ottenuta solo cambiando le regole del gioco", e il principio per cui "nessuno dei giocatori, dei milioni di cittadini che ogni giorno giocano con la democrazia, sia chiamato a pagare un prezzo", consentendo così "a milioni di italiani di liberarsi del proprio passato depositando nell'urna, a costo zero, una scheda sacrificale".

Augusto Barbera, che si era astenuto sul compromesso De Mita-Occhetto da cui era nato il Mattarellum , anni dopo, pur riconoscendo che la legge "ha dimostrato di funzionare" perché con essa "si è faticosamente determinata una bipolarizzazione del sistema politico" e "si sono avviati processi di alternanza", non si nasconde i limiti del processo allora avviato, individuati nella "accesa competizione infracoalizionale a destra come a sinistra", nel fatto che "la scelta dei governi, pur affidata agli elettori, ha dovuto subire i contraccolpi delle manovre assembleari", nei difetti nella "selezione del ceto politico, troppo spesso paracadutato nei collegi", ed infine nel "clima politico di reciproca delegittimazione". Oggi si può aggiungere, meno diplomaticamente, che il bipolarismo coatto indotto dalla nuova legge elettorale non ha funzionato nè per assicurare una democrazia competitiva, né una democrazia governante, se è vero come è vero che la prima legislatura bipolare ha dato luogo ad un ribaltone e ad un governo istituzionale, nella seconda si è registrato un tasso di trasformismo che avrebbe fatto sognare Depretis, mentre nella terza si è verificata l'impotenza delle maggioranze bulgare. Per cui se nella quarta sunt lacrimae rerum la responsabilità non può essere attribuita solo alla pessima legge Calderoli. L'unica cosa che ha funzionato, del Mattarellum, è stata effettivamente l'alternanza. Ma si è trattato di un'alternanza a somma zero, salvo che per lo spoil system ai piani bassi e le velleità di riforme costituzionali partisan ai piani alti.

Nascita di una Repubblica

La seconda Repubblica nasce così, col deposito di una scheda sacrificale a costo zero e senza neanche l'onore di un epicedio parlamentare della prima. Del resto il tema era stato eluso anche l'anno precedente, quando Amato, motivando alla Camera le sue dimissioni, aveva preso atto di "un autentico cambiamento di regime , che fa morire dopo settant'anni quel modello di partito-Stato introdotto in Italia dal fascismo e che la Repubblica aveva finito per ereditare limitandosi a trasformare il singolare in plurale". Perfino Bobbio, allora, aveva perso lucidità, fino a deplorare di aver "dovuto ascoltare dalla bocca del presidente del Consiglio il giudizio storico più antirepubblicano che possa mai essere pronunciato, quasi che la nostra Repubblica fosse la continuazione del fascismo". E la sua nobile retorica repubblicana consentì a tutti di evitare una riflessione adeguata sulla fine della partitocrazia.

Il nuovo sistema politico, quindi, è nato piuttosto dalla conseguenza un po' casuale della nuova legge elettorale che non da un approfondimento critico dei motivi della crisi di sistema. "Noi ci troveremo di fronte ad un Parlamento in cui avremo moltiplicato il sistema per scissione: avremo tronconi rispetto ai vecchi partiti, ma sicurissimamente ognuno portando in sé tutte le caratteristiche dei partiti quali li abbiamo conosciuti", aveva profetizzato Marco Pannella nel novembre del 1993, in un dibattito fuori tempo massimo in seno alla Bicamerale Iotti. Con l'intuito politico confermava quello che aveva subito osservato Sartori con la sua competenza scientifica, e cioè che il turno unico avrebbe incentivato il potere di ricatto delle forze minori, e conseguentemente favorito la frammentazione.

Nessuno, invece, aveva previsto la principale novità cui avrebbe dato luogo la nuova legge elettorale. Ernesto Galli della Loggia, per la verità, già nel maggio di quello stesso anno aveva osservato che con la legge Mattarella, ancorchè per eterogenesi dei fini, sarebbe finito "un sistema affatto sbilenco, senza destra o centrodestra, senza cioè una rappresentanza propria e diretta della parte moderata e conservatrice del paese", in cui, "grazie al ricatto dell'anticomunismo l'elettorato di tale orientamento (milioni di voti) è stato convogliato forzatamente al centro". Ma neanche lui aveva previsto che la DC avrebbe rinunciato a farsene interprete, e avrebbe lasciato campo libero al protopopulismo di un imprenditore di successo.

Marco Follini osserverà poi che "il nuovo schema offriva alla DC la possibilità di riconvertirsi nel polo moderato", mentre invece "la nuova identità del cattolicesimo politico italiano spingeva in direzione opposta, verso un popolarismo con connotazioni sociali più marcate". In realtà, "un po' per convinzione, un po' per abitudine il bipolarismo era diventato, per i democristiani, un destino astratto" negli anni in cui Segni promuoveva il referendum "davanti a una gigantografia di Sturzo e in mezzo a deputati, amministratori e militanti del suo partito". Era perciò immaginabile che i democristiani, che "avevano sperimentato il bipolarismo virtuale", avrebbero realizzato "il bipolarismo reale, quando fosse stato possibile, anche a costo di modificare alcune componenti della propria alchimia", invece di finire impaniati nel "conflitto fra l'identità e il ruolo". Un conflitto, si può aggiungere ora, che per essere risolto con la formazione del partito democratico dovrebbe essere elaborato con maggiore approfondimento da parte di chi ne è stato protagonista.

L'epifania di Forza Italia

Del resto la "divina sorpresa" rappresentata dalla vittoria elettorale di Berlusconi a sua volta non fu oggetto di riflessione da parte delle forze soccombenti, di centro o di sinistra che fossero. Venne frettolosamente catalogato come un episodio di plutocrazia (dai più rètro) o di telecrazia (dai più aggiornati). In particolare si eluse il problema posto dai milioni di elettori democristiani e socialisti che avevano cambiato di campo, e che presumibilmente non erano tutti clienti, percettori di tangenti o, nella migliore delle ipotesi, militanti risentiti. Si presero invece per buone le non irresistibili motivazioni di qualche colonnello all'inseguimento delle proprie truppe (lasciando senza replica, per esempio, gli scritti paradossali di Fabrizio Cicchitto impegnato a stabilire una continuità "da Turati a Craxi, a Berlusconi").

Quanto alla plutocrazia e alla telecrazia, ovviamente un ruolo lo giocarono. Ma non nei termini semplicistici di cui si parlò allora. Calise, per esempio, non sottovaluta il peso del "partito-azienda", e cioè della "solidità del retroterra aziendale e manageriale che ha consentito al partito di Berlusconi una straordinaria penetrazione territoriale in tempi brevissimi". Ma non si nasconde dietro questo dito. E non si nasconde neanche dietro il dito del ruolo mediatico di Fininvest. Rileva invece che nello scenario semplificato dalla sfida referendaria c'è ampio spazio per la formazione di un vasto e compatto "partito dei media", la cui "ideologia", che ovviamente non può prescindere dagli "imperativi della comunicazione politica", accentua il carattere binario della scelta proposta agli elettori, che "deve produrre un vincitore e un vinto", e "promette la soluzione della crisi sulla base di una semplice combinazione: una legge elettorale maggioritaria e un uomo forte fuori dai partiti". Ma mentre "nelle intenzioni della gran parte degli opinion makers" questo "era l'identikit di Mario Segni", invece "la solita eterogenesi dei fini -o ironia della storia- ha voluto che l'identikit si adattasse anche a Silvio Berlusconi".

E' appena il caso di sottolineare che il "partito dei media" non è il braccio armato della telecrazia, e subisce anzi la leadership della carta stampata. Tanto che, per esempio, perfino Federico Orlando, sul Giornale diretto ancora da Montanelli, il 26 febbraio 1993 aveva invitato il demiurgo di cui auspicava l'avvento a "cercarsi i ministri nelle università, nelle imprese, nelle professioni, non come ‘tecnici', ma come portatori di una cultura e di una moralità del lavoro diversa da quella dei senza-mestiere che hanno formato la classe politica della prima repubblica". E tutto si poteva dire di Berlusconi, tranne che fosse un "senza-mestiere". Così come è il caso di osservare che chi a sua volta godeva di una macchina organizzativa capace di "una straordinaria penetrazione territoriale" aveva scelto, nel frattempo, di sostituirla con la carovana, e si era prestato ad interpretare il ruolo del vinto nel copione allestito dai media.

Prove tecniche di partito democratico

Dopo l'insuccesso del 1994, quindi, la resistenza dei soccombenti non poteva più raccogliersi sotto l'insegna del Nuovo, saldamente impugnata da Berlusconi. Dovette rivalutare in qualche modo il Vecchio, rivalutandone, se non la simbologia, almeno la metodologia. Frutto della vecchia metodologia fu innanzitutto l'approdo del PDS dalla gioiosa confusione della carovana al geometrico rigore del centro-sinistra, portato alla vittoria nel 1996 sotto la guida non casuale (e non partenogenetica) di Romano Prodi.

D'Alema fece del proprio meglio per fingere che accanto alla Quercia svettassero altre piante d'alto fusto, e non soltanto cespugli tanto esili quanto numerosi, come nel frattempo segnalava Galli della Loggia. Ma i cespugli, per quanto esili, avevano trovato un ottimo habitat nel sistema bipolare, e se non crescevano resistevano però alla grande. Erano i "tronconi" di cui aveva parlato Pannella, i partiti ricattatori di cui aveva parlato Sartori. E la path dependence, al centro e a sinistra, non solo non si interrompeva, ma assumeva addirittura carattere regressivo. Non a caso ora l'estrema sinistra, che negli anni '70 si era nutrita di buone letture sulla crisi fiscale dello Stato, si attesta a difendere il Welfare socialdemocratico come l'Armata rossa aveva difeso Stalingrado. Né per caso i titolari della ditta socialista, eredi di uno statista esecrato per quasi tutto, ma non per la stipula del nuovo Concordato, ora ricominciano ad indossare cravatte alla Lavallière e riscoprono la cultura politica di Podrecca (anche se finora hanno evitato di sfidare Dio a dimostrare la propria esistenza, come fece un antico direttore dell'Avanti!). E perfino nel mondo cattolico, benché attraverso percorsi meno banali, rispunta l'intransigentismo.

Ma di path dependence hanno sofferto anche le iniziative politiche che potremmo definire "prove tecniche di partito democratico". A cominciare da quella che, benchè avviata per contraddire la prospettiva del partito democratico, si è poi paradossalmente risolta nella formazione di una specie di partito democratico male assortito. Mi riferisco al processo attraverso cui si è passati dal PDS ai DS, e che invece avrebbe dovuto portare, nelle intenzioni del promotore, alla creazione di un partito socialdemocratico a vocazione maggioritaria.

In questo caso, per la verità, la dipendenza è più modesta, ed è quella che si crea fra "compagni di scuola", come direbbe Andrea Romano. E come disse allora Emanuele Macaluso, per il quale "una delle ragioni per cui il processo di aggregazione di un'area più vasta della sinistra italiana con il PDS trova serie difficoltà (a sinistra e a destra)" era "da ricercare proprio nel fatto che le diversità politico-culturali presenti in quel partito non hanno una visibilità tale da attrarre forze affini che sono oltre i confini del PDS", perché questo mantiene "un corpo di dirigenti al centro e in periferia con un modo di pensare e di agire che segnala una continuità non nella politica, ma nella concezione del partito".

Diversa per genesi, ma simile per risultato, è stata la "prova tecnica" messa in opera dalla Margherita. L'epidemia di Alzheimer che ormai imperversa nella cultura politica italiana ha rimosso le tappe del processo formativo di questo partito. Sommariamente si può provare a ripercorrerle: nel 1995 la secessione di Buttiglione dal PPI in seguito all'agnizione di Prodi come leader di un centro-sinistra non ancora costituito e contrattato; nel 1996 l'invenzione dell'Ulivo come simbolo unitario nei collegi uninominali e la cespuglizzazione del PPI nel proporzionale; nel 1998 la sortita degli "straccioni di Valmy" messi insieme da Cossiga e l'adesione di Forza Italia al PPE; nel 1999 la fondazione dei Democratici, la cui sfida (competition is competition) non viene apprezzata dagli elettori; nel 2000 la designazione di Rutelli alla leadership del centrosinistra e successivamente la creazione della Margherita "federale"; infine, la costituzione del partito vero e proprio nel 2002.

Non è esattamente una serie di successi. Ma non è neanche l'itinerario attraverso cui, generalmente, si formano una cultura politica e un gruppo dirigente. Si può anzi sostenere che, se la "prova tecnica" del PDS è fallita per ipertrofia dell'ego, quella della Margherita è fallita per il motivo opposto. Anche per questo, probabilmente, le impennate identitarie di questo partito sono state più efficaci per fissare paletti nel dibattito interno all'area dei promotori del partito democratico che non nel confronto con l'opinione pubblica e col sistema politico. Non a caso la principale, quella relativa alla ripulsa dell'adesione al PSE, viene declinata soltanto in negativo, talvolta con argomenti presi a prestito in casa Cupiello, e comunque elude, come già accennato, la questione centrale, che è quella di come superare il modello sociale europeo del Novecento, che pure in Italia è stato realizzato più dai democristiani che dai socialisti e dai comunisti. Per cui, fra l'altro, la Margherita risparmia non solo a se stessa, ma anche ai DS, di confrontarsi con la prospettiva del socialismo liberale, quella di Blair e di Zapatero, e riduce il dibattito sulla collocazione del partito democratico in seno al sistema politico europeo alla dimensione burocratica degli Schultz e dei Rasmussen.

Altrettanto si può dire per la questione cattolica, brandita inizialmente contro gli alleati all'epoca della legge sulla fecondazione assistita, e poi diventata addirittura, con la formazione della corrente teodem, occasione di confronto interno. Oggi si può verificare quanto questo approccio abbia creato più problemi che soluzioni, come peraltro avevano probabilmente intuito i sessanta "cattolici democratici" che hanno colto la questione della legge sulle unioni di fatto per segnalare la loro esistenza. Essi però avrebbero offerto un contributo ancora più rilevante se avessero sviluppato una franca riflessione sulla fine del cattolicesimo politico e sui nuovi termini del confronto fra sistema politico e presenza pubblica della Chiesa, anche per evitare una fatica inutile a un caro amico come Savino Pezzotta: non quella, si intende, di tentare di dar vita a un movimento, ma quella di dover preventivamente prendere le distanze dal partito democratico per annunciarlo.

L'illuminazione di Salvati

Con questi precedenti non stupisce che nel 2002 Michele Salvati, nel prospettare l'esigenza di dar vita al partito democratico, abbia innanzitutto proposto di resettare accuratamente il pregresso. E' difficile, infatti, che da due prove tecniche fallite nasca una macchina efficiente. Tanto più se i meccanici sono gli stessi. Ma la provocazione di Salvati merita di essere raccolta anche per un altro motivo. In pieno girotondo antiberlusconiano, infatti, egli ha avuto il coraggio di proporre la creazione di "un soggetto politico di grande forza ideologica e culturale" che sia "il ‘dirimpettaio' di Forza Italia", attraverso "una sintesi coerente delle grandi tradizioni riformistiche italiane".
Sono parole ripetute tante volte da essere purtroppo diventate un mantra che scivola come l'acqua, e che finisce in gloria col catalogo delle culture riformiste: "quelle aventi come matrice il socialismo e il movimento operaio"; "quelle cattolico-popolari (assolutamente essenziali nella miscela)"; "quelle laico-repubblicane"; "forse" (e sottolineo il forse) "quelle ambientalistiche". Ho troppa stima di Salvati per pensare che egli abbia dato più importanza agli ingredienti che alla ricetta. Ed ho troppa stima della buona cucina per pensare che mescolando gli ingredienti alla rinfusa venga fuori qualcosa di commestibile. Perciò mi permetto di porre l'enfasi, piuttosto che sul gloria finale, sull'antifona che lo precede. E di sottolineare che in essa si parla di una sintesi coerente e di un soggetto politico, auspicabilmente dotato di autonoma forza ideologica e culturale. Se ho capito l'antifona, fra l'altro, può darsi che la mia relazione non risulti fuori bersaglio, neanche nel denunciare che in questi cinque anni la cultura politica di DS e Margherita non ha raggiunto quel grado di coerenza capace di dare soggettività politica al partito democratico.
Salvati parla anche del nuovo partito come "dirimpettaio" di Forza Italia. E' un'espressione che può essere interpretata in due modi: quello, statico, del fronteggiarsi; e quello, dinamico, dello sfidarsi. Finora, per la verità, non ci si è neanche fronteggiati, dal momento che non c'è match fra la leadership esercitata da Forza Italia sulla Casa delle libertà e quella esercitata dal partito democratico sull'Unione. Ma ammesso che prima o poi sia possibile, è poi utile fronteggiarsi ? Ci si può chiedere se invece non sia più utile, innanzitutto per il paese, sfidarsi a tutto campo, proponendosi non solo di interpretare al meglio il mainstream, come forse ha fatto Berlusconi,
ma di rispondere alla domanda di identità e di sicurezza che nasce dalle paure e dalle speranze degli italiani, per parafrasare il titolo del saggio di Di Nolfo sul dopoguerra.
In questo caso, però, per essere il "dirimpettaio" di Forza Italia bisognerebbe non rinunciare pregiudizialmente ad essere un "partito pigliatutto", tenendo conto, peraltro, che oggi, a differenza del passato, questo non significa essere un partito doroteo, ma al contrario un partito con una cultura politica forte, come hanno dimostrato ora Sarkozy, ieri Blair, l'altro ieri la Thatcher. E che, se su questo, in fondo, Berlusconi ha fallito, su questo vale la pena di batterlo.

 Il dio bipolare

Mi rendo conto che parlando di "partito pigliatutto" ho sfiorato il politically uncorrect. Ma sono convinto, come ho cercato di dimostrare finora, che quella sintesi coerente che Salvati auspicava ispirasse il messaggio del partito democratico si possa meglio realizzare se la coerenza si misurerà non solo con le identità dei mittenti, ma anche e soprattutto con i bisogni del destinatario, cioè del paese. Proprio per questo, però, azzardo un altro passo sulla strada del politically uncorrect. Mi permetto, cioè, di mettere in discussione quello che Marco Follini, sul Riformista del 14 giugno, ha definito "il dio bipolare che pretende il sacrificio di tante differenze", e ad auspicare anch'io che il partito democratico non resti "aggrappato al centro-sinistra che c'è", pur considerando la navigazione in mare aperto "un'avventura rischiosa", ancorchè "sempre meno rischiosa che lasciare le cose come sono".

Lo esigono ragioni di grammatica e ragioni di sintassi. La grammatica elementare, infatti, fatica a comprendere perchè chi si propone di fondare un nuovo partito, e quindi è evidentemente insoddisfatto dell'assetto attuale del sistema politico, non osi immaginare di oltrepassarne le colonne d'Ercole. Ma ormai rende evidente anche quello che aveva già intuito nel 1994 Ralph Dahrendorf, il quale, in un articolo pubblicato in Italia dal Corriere della sera il 3 settembre aveva osservato che in Europa "la democrazia dell'alternanza in pratica sembra non funzionare più come una volta".

Per Dahrendorf la constatazione era innanzitutto un corollario delle sue tesi sulla fine del "secolo socialdemocratico": nel senso che era innanzitutto il bipolarismo sociale a non funzionare più come cleavage fondamentale del conflitto politico, fino a costringere i partiti socialdemocratici a cercare consensi oltre il recinto tradizionale del lavoro dipendente. Ma negli anni successivi si sarebbe manifestato con maggiore evidenza anche il fall out dell'impatto della globalizzazione sugli Stati nazionali, costretti a ridefinire la propria identità e la propria legittimazione.

Se poi dall'Europa torniamo all'Italia dobbiamo misurarci anche con un disastro sintattico. In Italia, infatti, il bipolarismo che non aveva funzionato era quello "imperfetto" fondato sul bipolarismo internazionale, per cui dopo il 1989 a molti sembrò logico recuperare finalmente il bipolarismo sociale per animare una competizione politica che nei primi cinquant'anni di vita repubblicana era stata fin troppo costretta nelle maglie di un sistema centripeto. La ricetta, come è noto, non funzionò, ed anche per questo siamo qui a discutere. Ma se si vuole scemare la pena, ormai conviene riconoscere di esser compagni al duol. Conviene, cioè, sprovincializzare il dibattito sul sistema politico e sul sistema elettorale e guardare al resto d'Europa, questa volta non per importare frettolosamente qualche altro modello ma per riflettere su una deriva che non sembra immediatamente reversibile.

Veltroni ha commentato la travolgente vittoria di Sarkozy come un modello di bipolarismo. Se questo è il bipolarismo, si può essere d'accordo, e si può anche sperare che il partito democratico abbia trovato una leadership non fondata sull'equilibrismo, come invece ha paventato di recente Angelo Panebianco sul Corriere . Ma è inutile nascondersi che la facilità con cui il nuovo presidente ha potuto realizzare il suo spoil system trasversale non solo la dice lunga sulla fragilità dei suoi avversari, ma soprattutto dimostra che Sarkozy ha spiazzato le culture politiche concorrenti, a destra come a sinistra, scommettendo su una proposta politica forte, e non lisciando il pelo all'elettorato. La sua, insomma, è stata la vittoria della politica sull'antipolitica, di un modello politico universalista, cioè, sui modelli particolaristici indotti da una lettura debole della crisi europea. Qualcosa di simile, del resto, era riuscito a Blair nel 1997. Ed anche Zapatero, per quanto fortuito sia stato il suo successo elettorale, si è guardato bene dal confondere l'asfaltare col governare.

Può darsi, insomma, che nella crisi europea il cleavage fondamentale sia ora quello che discrimina l'universalismo della politica forte dal particolarismo della politica debole, la quale peraltro si presenta come l'alternativa più attendibile agli "universalisti", come ha appreso Blair nella "sua" Scozia, e come rischia di apprendere Zapatero nel paese basco. Non si tratta, ovviamente, di un fenomeno fisiologico, ma soltanto di uno dei sintomi della più generale e complessa patologia che ha investito il modello sociale europeo. Riguarda anche la destra, a cominciare da Cameron, dagli epigoni di Aznar e dall'ultimo Chirac. Ma riguarda soprattutto la sinistra, che nel "secolo socialdemocratico" ha prosperato non solo quando è stata al governo, ma anche quando si è trovata all'opposizione, perché nel contesto del bipolarismo sociale ha potuto contare su una constituency formata da sindacati, cooperative, banche popolari e tutto quanto aveva accumulato il movimento operaio, dalla socialdemocrazia guglielmina in poi.

Nel secolo postsocialdemocratico, invece, Schroeder ha inaugurato la Neue Mitte, e a quella linea è rimasto fedele anche rinunciando a una vittoria elettorale numerica per salvaguardare l'autonomia politica del suo partito. E per quanto paradossale possa sembrare si deve alla sua scelta se in Germania oggi la Grosse Koalition vede collaborare due distinti partiti, ciascuno con un'identità ben profilata, che domani potranno fisiologicamente ricominciare a competere.

In Italia, invece, la piccola coalizione (piccola per consensi, s'intende, non per numero dei partecipanti) sembra un elemento della costituzione materiale più rigido di quella che fu la conventio ad excludendum per la DC. Ha fatto eccezione Franco Marini al congresso della Margherita. Ma è curioso che riflessioni simili non abbiano trovato spazio nel congresso dei DS, che pure stavano subendo nella carne viva la replica della separazione fra Schroeder e Lafontaine.

E' probabile che la reverenza per il "dio bipolare" serva, oltre che a ripararsi del primitivismo delle polemiche sugli "inciuci", a tutelare l'unico mito fondante della seconda Repubblica, che anche per questo si rivela frutto del parto di una gatta frettolosa. Neanche per partorire la terza, peraltro, c'è molto tempo. E soprattutto non si vedono le levatrici, se si eccettuano gli ingegneri elettorali, esperti soprattutto di fecondazione in vitro, ma sempre pronti a qualche risolutivo taglio cesareo. In questo caso, invece, è bene seguire le regole naturali, e non solo per non indispettire ulteriormente i teodem. Tornare, cioè, a ragionare di politica senza paraocchi, per dare risposte adeguate alle stesse questioni che erano sul tavolo quindici anni fa. Quali fossero non è difficile dirlo, perché sono ancora lì, identiche a prima: l'inefficienza dell'apparato decisionale e l'inefficacia del sistema dei controlli. Lo schema bipolare non le ha risolte finora in Italia e non riesce più a risolverle nel resto d'Europa. La democrazia competitiva, quindi, che resta l'obiettivo, deve trovare altre strade per affermarsi.

Un'ipotesi ragionevole per l'Italia sarebbe quella di privilegiare il criterio della decisione per quanto riguarda l'esecutivo e quello della rappresentanza per quanto riguarda il legislativo: per usare il gergo degli ingegneri istituzionali, privilegiare il "maggioritario di funzionamento" rispetto al "maggioritario di composizione". In assenza di convenzioni ad excludendum, unico risultato positivo dell'ultimo quindicennio, la dialettica fra governo e parlamento è anch'essa un modo per realizzare una democrazia competitiva, come dimostra l'esperienza di un piccolo paese al di là dell'Atlantico. E la tendenza in atto nei piccoli paesi al di là delle Alpi (in cui, come si è detto, si vince al centro non perché si liscia il pelo agli elettori moderati, ma perché si offre una risposta universalistica alle paure e alle speranze di un popolo intero) consiglia di non disprezzare il ruolo inclusivo delle assemblee parlamentari rispetto alle pulsioni particolaristiche che emergono nella crisi europea.

Anche in questo caso, comunque, conviene seguire le regole naturali, che prevedono che ogni parto sia preceduto da un accoppiamento. E solo da un corposo accoppiamento, del resto, possono essere concepite le riforme costituzionali necessarie per legittimare un potere decisionale che altrimenti o viene esercitato di fatto o, più spesso, non viene esercitato affatto. Ed anche, magari, per ridurre i "costi della politica" senza cominciare dalle "auto blu" e cominciando, invece, da un'incisiva revisione del federalismo modello matrioska che le quattro legislature "bipolari" ci hanno lasciato in eredità, quello in cui ciascuna regione, dal Molise al Veneto, contiene provincie, comuni, consorzi intercomunali, finanziarie e società di servizi nella stessa misura e con le stesse dimensioni.

Non è facile prevedere se oggi in Italia un accoppiamento del genere sia possibile. E' facile prevedere, invece, che ci sarà comunque qualche imbecille capace di confondere un coito con un inciucio. Ovviamente avrà diritto anche lui a sedere in parlamento. Magari superando una soglia di sbarramento che può anche essere implicita, nel caso che si decidesse di ridurre il numero dei parlamentari e di lasciare ancora una volta in pace le povere "auto blu". Ma rinunciando all'opportunità costituzionalmente garantita di tenere in ostaggio una maggioranza e un governo.

Problematiche conclusioni

Molti, anche e soprattutto qui, pensano che questi nodi possono essere tagliati solo con la scimitarra del referendum. Personalmente temo di vedere un film già visto, e per giunta senza happy end. La mia opinione personale, comunque, non è un gran problema. Un gran problema, invece, sarebbe la pretesa di fondare un nuovo partito senza nemmeno l'ambizione di una posizione chiara e condivisa su temi di questo genere. Nessuna cultura politica, infatti, può prescindere da un pensiero costituente, men che meno una cultura politica che si proponga di guardare al futuro più che al passato. Credo quindi che possiamo concordare tutti, referendari e no, sull'esigenza di impegnare il partito democratico innanzitutto ad evitare il referendum, ovviamente percorrendo la strada maestra della riforma costituzionale e della riforma elettorale e non le scorciatoie che pure sono state ipotizzate. E che questo debba essere l'obiettivo prioritario, rispetto al quale, secondo la mia opinione, diventa secondaria anche la tenuta del governo.

Ma se proprio vogliamo trovare un happy end al remake che sta per andare sugli schermi, sarà bene non replicare gli errori del passato recente, e non pretendere, quindi, che una riforma istituzionale forte possa essere gestita ed implementata da soggetti politici deboli, o addirittura di risulta. Da questo punto di vista, non si può dire che l'opposizione condotta dal centrosinistra nel corso della passata legislatura abbia dato un gran contributo. Il centrosinistra, infatti, è stato sì il "dirimpettaio di Forza Italia" e di Berlusconi, ma nel senso in cui un plotone d'esecuzione è il dirimpettaio del condannato: posizione che può essere anch'essa efficace a condizione che i fucili non siano caricati a salve.

Anche per questo, credo, e non per rivangare inutilmente vecchie storie, ora siamo costretti a cercare un po' faticosamente nel passato i riferimenti culturali che possono collocare, come è doveroso, il nuovo partito nella storia dell'Italia repubblicana: né nei cinque anni di governo, né nei cinque anni d'opposizione, infatti, il passato è stato metabolizzato adeguatamente.

Fra le vecchie storie va collocata, come ho cercato di dimostrare, anche quella che invece curiosamente ha a lungo tenuto il campo, e che ha finito per essere un abusivo criterio selettivo delle forze che hanno avviato il processo costituente del partito democratico. Mi riferisco al giudizio sulla socialdemocrazia europea, che può essere tranquillamente archiviato: a condizione, però, di chiarire che in questo caso le dispute sul marxismo non c'entrano, perché la socialdemocrazia europea del secondo dopoguerra è nata dall'incontro fecondo fra il vecchio ceppo socialista e correnti liberali, democratiche e cristiano-sociali dell'Occidente, come ha ricordato Gino Giugni qualche anno fa, e come dimenticano sia molti neosocialisti immaginari, sia quei cattolici e quei liberali che quando proclamano di non voler "morire socialisti" fanno un po' la figura del borghese immaginario che non sapeva di parlare in prosa.

Invece di attardarsi su questioni già passate in giudicato, invece, sarebbe utile affrontare le questioni ancora vive. Innanzitutto quella del nuovo riformismo, nei termini, per esempio, in cui la affrontò Norberto Bobbio nel 1985, prendendo atto che nell'epoca in cui viviamo non vale più nè l'equazione fra riformismo e progresso, né quella fra riformismo e cambiamento. Bobbio sostenne allora che "dove tutti sono riformisti, nessuno è riformista", a meno che non abbia qualche ulteriore riferimento ideale, che egli identificava nel socialismo liberale.

Del resto è il socialismo liberale che può ispirare il socialismo nel secolo che segue il "secolo socialdemocratico", in cui sono cambiati i rapporti di produzione, è cambiata la composizione della società, si è dilatata l'interdipendenza fra le nazioni, si è realizzata la rivoluzione tecnologica, ed in cui quindi compito del socialismo riformista non è più né quello di perseguire, attraverso l'espansione della democrazia, il graduale superamento del capitalismo, né quello di stabilire un compromesso fra lavoro e capitale, ma è piuttosto quello di rappresentare la rivoluzione tecnologica in atto, indirizzandola verso obiettivi di equità e di solidarietà.

Il Manifesto del partito democratico elude di proposito questa problematica, come altre ugualmente controverse, nell'illusione che il minimalismo sui riferimenti politico-culturali possa meglio consentire un nuovo inizio. Ma le questioni che così restano aperte sono più di quelle che si crede di aver risolto. E' il caso anche dei diritti di cittadinanza, rispetto ai quali a riproporre una visione organicistica della società sono proprio quanti con maggiore determinazione si propongono di andare "oltre il socialismo", che pure da qualche vizio organicistico non è esente nei suoi principi originari. Costoro sembrano non rendersi conto che il motivo più fondato per andare "oltre" il socialismo del XX secolo, in tutte le sue versioni, è proprio la riscoperta dell'individuo e dei suoi diritti, piuttosto che la riesumazione delle comunità "naturali". Anche l'enfasi posta sulla tutela costituzionale della famiglia, in questo senso, va maneggiata con cura, se si vuole evitare di inquinare la stessa attualità del principio di sussidiarietà, che è invece essenziale per delimitare il ruolo dello Stato rispetto alla libertà degli individui nella società civile. Non a caso, del resto, i cattolici nutrirono non poche perplessità sull'opportunità di introdurre l'articolo 29 nella Costituzione, nel timore che esso ledesse l'autonomia della sfera religiosa, nel cui ambito si colloca il sacramento del matrimonio e la famiglia che ne trae origine. Per cui per definire fondamentali principi di etica pubblica tutt'altro che incompatibili con la laicità dello Stato, piuttosto che riferirsi a quel singolo articolo, è meglio fare riferimento a tutta la prima parte della Costituzione del 1948, frutto di un compromesso "alto" realizzato in un clima di scontro ideologico ben più aspro di quello odierno, e che oggi deve essere richiamato con forza per evitare il rischio che un bipolarismo politico malfermo come quello che si è finora realizzato degradi altrimenti in bipolarismo etico.

E' un peccato, quindi, che il minimalismo che caratterizza la cultura politica del Manifesto sia stato imposto proprio da quanti non vogliono a nessun costo "morire socialisti", e che a questa pura e semplice negazione hanno ridotto il loro contributo ideale. Sarebbe toccato infatti ai cattolici democratici e ai laici liberali, oltre che ad eredi del socialismo italiano degni di questo nome, indurre i neofiti della socialdemocrazia a percorrere l'ultimo chilometro delle loro revisione. Ma si tratta del peccato originale, che secondo alcune correnti teologiche è un peccato che non si può non commettere, perché costitutivo della finitezza dell'uomo. Nell'Eden la Margherita avrebbe potuto gradualmente aggiungere petalo a petalo, e il PDS avrebbe potuto gradualmente far crescere la Rosa piantata frettolosamente sotto la Quercia. Ma non siamo nell'Eden, per cui si deve continuare a discutere.

Meglio però discutere apertamente ed approfonditamente, e non nascondere i dissensi sotto il tappeto. Anche perché, se si discute nel merito, si può scoprire che nel vivo della lotta politica le antiche appartenenze si sono già sciolte, senza però dar luogo con sufficiente visibilità a qualcosa di simile a quella "sintesi" auspicata da Salvati per dare al nuovo partito una "forza ideologica e culturale" che gli consenta di essere una formazione politica autonoma capace di interpretare "la rivoluzione che c'è", per usare un'espressione della conferenza di Rimini, e non soltanto "la destra della sinistra", come erano i riformisti marxisti dell'epoca del rinnegato Kautsky, impegnati ad esorcizzare una rivoluzione che non c'era, o se c'era generava mostri.

Nel suo discorso di Torino è stato Walter Veltroni a dimostrare che è possibile offrire una sintesi convincente della forza ideologica e culturale su cui si può fondare un nuovo partito.

E fortunatamente la sua non è una vox clamantis in deserto, perchè il catalogo delle posizioni trasversali in attesa di adeguata classificazione politico-culturale è vasto. Si può cominciare dalle liberalizzazioni, che sono il simbolo del superamento di una dimensione corporativa non estranea al socialismo riformista di un tempo. Si può proseguire con le politiche per il Sud, oggetto di una controversia tutta interna alla sinistra come quella che si è sviluppata fra Nicola Rossi e Fabrizio Barca. E di seguito: la questione del funzionamento della giustizia, senza subire i veti olfattivi di chi sente "odore di Bicamerale" ogni volta che si evoca la terzietà della magistratura giudicante; la questione dell'autonomia scolastica, destinata a soppiantare la polemica ottocentesca sul pubblico e il privato nella scuola, come avevano intuito Luigi Berlinguer agli esordi della seconda Repubblica ed altri negli anni maturi della prima; la liberalizzazione del mercato del lavoro, promossa in sequenza coerente da Tiziano Treu, Marco Biagi e Pietro Ichino.

E' un catalogo, questo, che è difficile non classificare sotto la voce "socialismo liberale", e che altrimenti, del resto, rischia di restare senza padre e senza madre nel dibattito culturale e nello scontro politico che comunque attorno ai suoi titoli si determina. E attorno ai quali, invece, si possono aggregare forze nuove e disarticolare forze che cercano identità nelle più decrepite appartenenze. C'è da sperare, quindi, che superata la fase in cui, anche comprensibilmente, le dispute semantiche sono state strumentali alla determinazione degli assetti interni al nuovo partito il dibattito politico-culturale si sviluppi con maggiore libertà. Altrimenti l'impresa non varrà la spesa.

 

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