LINEE GUIDA PER
IL PROGRAMMA DEI VERDI IN REGIONE CAMPANIA
Queste pagine vogliono essere un contributo
dei Verdi della Campania scritto con l’aiuto e le sollecitazioni di
Amministratori, Consiglieri, Associazioni, Professionisti, Cittadini e tanti
altri che hanno voluto partecipare a questa sfida che noi Verdi affrontiamo con
la consapevolezza di chi ha a cuore i veri problemi della comunità.
Consideriamolo
quindi, un programma ancora aperto a idee e a proposte nuove.
“UNA REGIONE FORTE, CERNIERA TRA EUROPA E
MEDITERRANEO”
1. Democrazia e
partecipazione
2. Piena
attuazione del decentramento amministrativo
3.
Dal
controllo ambientale allo sviluppo sostenibile
4.
L’emergenza
rifiuti
5.
La questione
energetica
6. La sicurezza
sociale ed una più equa redistribuzione della ricchezza
7. La
manutenzione del territorio
8.
Aree
naturali protette
9.
Una nuova
agricoltura sempre più “fattore” di sviluppo
10.
L’identità
culturale e sociale
11.
La sicurezza
stradale
12.
Contro la
camorra
13.
Progetto
giovani
Si dice, ed è vero, che le fondamenta della democrazia
sono due: la partecipazione e la trasparenza.
Partecipazione, perché per rendere la democrazia effettivamente
operante è necessario che i cittadini trovino al di là del voto i canali giusti
per influenzare la formazione delle decisioni ed incidere sull’esercizio del
potere. Trasparenza, perché chi governa è obbligato a rendere conto a chi è
governato di ciò che intende fare e di quel che fa.
Ambedue
questi pilastri sono fortemente compromessi.
Durante gran parte del 900, furono i partiti, in particolare
quelli di massa, ad offrire modalità e strumenti efficaci per la partecipazione
dei cittadini alla politica, svolgendo un ruolo essenziale nell’avvicinare le
popolazioni alle istituzioni. La crisi delle ideologie ha però trascinato con
sé anche gli ideali ed i valori intorno ai quali i cittadini si erano organizzati per l’affermazione dello loro idee e la
difesa dei propri interessi, nobilitandoli. I partiti hanno di conseguenza
progressivamente perso il ruolo di strumenti della partecipazione e di qualche
controllo sugli eletti. E’ esplosa così la crisi della rappresentanza: la
distanza tra politica, istituzioni e cittadini è di nuovo aumentata.
Anche la trasparenza è in sofferenza. Non solo per
l’aumentata distanza della politica e delle istituzioni dai cittadini, ma anche
per l’insorgere del leaderismo, fenomeno del tutto omogeneo
alle molteplici sfaccettature della società dell’immagine, nella quale
l’apparire conta assai più dell’essere e la notizia crea la realtà e non
viceversa. Il cittadino non solo non dispone più dei mezzi per influenzare
attraverso i canali della politica i processi decisionali del potere, ma non
conosce più nemmeno la reale portata delle decisioni che vengono prese.
Ciò è particolarmente grave nel contesto di una società
sempre più complessa nella quale è aumentato, e minaccia di aumentare ancora,
il numero delle relazioni tra le diverse componenti
della organizzazione sociale e dell’ordinamento statuale e quindi il numero
delle decisioni da prendere. Per fronteggiare la complessità si è pensato bene
di concentrare i processi decisionali, di restringere cioè il numero delle sedi
dove “si conta”, dove si prendono le decisioni importanti.
La democrazia insomma si è ridotta a mera modalità,
esposta ad ogni sorta di manipolazione, di selezione delle “rappresentanze” che
in non pochi casi vanno somigliando sempre più a gruppi oligarchici. I
cittadini, come quelli che un tempo non a caso si chiamavano sudditi, sono
tornati ad essere destinatari forzatamente passivi di decisioni adottate da un
potere lontano.
Si continua a
chiamare democrazia, ma questa per sua natura non sopporta deleghe totali ed in
bianco. Una possibile risposta alla crisi della democrazia si può forse
intravedere negli esperimenti di democrazia partecipativa che si stanno
dispiegando alla scala urbana.
Nei grandi, medi e piccoli Comuni, la società civile
si organizza in forme diverse e varie per interloquire con l’istituzione a sé
più vicina, per analizzare e discutere i problemi avvertiti come rilevanti per
la vita di ciascuno, formula indirizzi di soluzione, influenza il processo
decisionale e ne segue da vicino lo svolgimento. La società tenta di uscire
dall’anonimia e dalla supinità e ridiventare comunità che riannoda i fili della
propria identità.
Quanto esperienze del
genere, se diffuse, possano essere decisive per rivitalizzare le società
meridionali è semplicemente evidente. Del pari evidente è che esse possano
essere decisive per il miglioramento della qualità dei sistemi sociali del
Mezzogiorno.
Negli anni recenti l’agenda dei problemi che i governi
delle città meridionali sono chiamati ad affrontare si è molto allungata. Ciò è
dovuto a processi articolati e complessi che riguardano la forma stessa delle
città, i mutamenti avvenuti di carattere sociale ed economico, i mutamenti di
carattere politico. Nuove domande coinvolgono l’azione delle amministrazioni locali: il sostegno allo sviluppo
economico locale; la definizione di nuovi assetti economici e territoriali in
risposta alla crisi della grande industria e dei settori economici
tradizionali; la definizione di interventi idonei a valorizzare le risorse
endogene e a reggere la competizione dei sistemi territoriali.
Nel campo dei processi di trasformazione territoriale
nascono nuove domande: di riqualificazione di aree degradate (periferie urbane,
aree periurbane) o di riutilizzazione di parti di città che hanno perso la loro
funzione (aree industriali, aree ferroviarie, grandi e piccoli contenitori
urbani); di miglioramento della qualità ambientale e più in generale di
innalzamento della qualità dell’abitare; legate al consumo culturale e al tempo
libero (non a costi proibitivi che escludono ulteriormente le fasce deboli
della società). Le aree dimesse dovranno essere riutilizzate per aumentare la dotazione
di verde pubblico e di spazi sociali.
Ogni capoluogo di
provincia dovrà dotarsi di un parco pubblico.
E’ importante ricordare che tutte queste nuove domande
si sommano a quelle più tradizionali, di manutenzione urbana, di erogazione dei
servizi, di risposta ai pressanti fenomeni di povertà ed esclusione sociale.
La costruzione di politiche che puntano a rispondere
efficacemente alle nuove domande sopra accennate non può avvenire senza la
mobilitazione di attori locali (imprenditori, tecnici, intellettuali, terzo
settore) ed il coinvolgimento degli abitanti come protagonisti dei processi di
riqualificazione, perché non esistono soluzioni tecnocratiche a questi
problemi. La partecipazione svolge un ruolo centrale per rispondere
all’esigenza di orientare una pluralità di soggetti diversi verso obiettivi
comuni, creando una importante infrastruttura immateriale per lo sviluppo.
Esperienze recenti ma significative in questo campo sono ad esempio i percorsi
di Agenda 21 Locale, i nuovi municipi e i bilanci partecipati. Attraverso
percorsi di partecipazione della comunità locale è, infatti, possibile
programmare e calibrare interventi realmente efficaci, vicini alle esigenze dei
cittadini, degli operatori economici e sociali; interventi che, nei vari campi,
mettono a valore le caratteristiche identitarie delle città, le risorse
territoriali endogene e innescano meccanismi
virtuosi di innalzamento della qualità della vita della comunità nel suo
insieme, dei singoli quartieri. Ciò si è dimostrato vero in varie realtà
meridionali, ad esempio, nel campo dei servizi e delle politiche sociali (piani
di zona legge 328) rendendo possibile, con la partecipazione della comunità e
del terzo settore, la creazione di servizi ed attrezzature innovative che
rispondono alle nuove esigenze delle famiglie e a particolari bisogni sociali
ancora inevasi.
Altri esempi significativi riguardano, ad esempio, i
programmi di riqualificazione di ambiti urbani degradati realizzati con il
diretto coinvolgimento degli abitanti e degli operatori economici e sociali lì
insediati. E’ il caso di alcuni programmi di tipo integrato (Urban e in parte i
Contratti di Quartiere) realizzati in alcune città meridionali che, con un
paziente lavoro di ricucitura e di integrazione, dovrebbero mettere insieme
politiche per lo sviluppo locale, riqualificazione di spazi pubblici, recupero
ambientale, con risultati positivi proprio
perché appropriati al contesto e duraturi. Un lavoro, questo, che difficilmente
potrebbe essere svolto dall’alto. Tali programmi hanno dato risultati positivi
solo nelle città dove hanno funzionato i meccanismi di partecipazione dei
cittadini e delle associazioni.
L’azione dell’amministrazione
locale, dunque, diviene efficace soprattutto quando assume il ruolo di
facilitatore della mobilitazione delle risorse già esistenti, in una concezione
del progetto urbano come progetto multi-dimensionale e partecipato.
La Regione Campania
non può non assumere questo percorso come elemento fondante della propria
politica, facilitandone il divenire e strutturando, in particolare sulle
politiche ambientali, sociali e di governo del territorio, una prassi che possa
diventare nel tempo organica e costitutiva di un nuovo modello di “governance”.
e del passaggio delle competenze dalla Regione alle
Province e ai Comuni
Un passaggio decisivo per migliorare l’efficienza e
l’efficacia dell’azione amministrativa, dove, naturalmente i tempi decisionali
diventano essenziali e sostanziali, sarà quello di accelerare il processo di
decentramento amministrativo che, attesa la volontà del legislatore che ha già
determinato le competenze e la strada da seguire anche attraverso le modifiche
del titolo V della Costituzione e del D. Lgvo 112, deve presupporre
l’esclusiva competenza alla Regione della programmazione e dell’azione
legislativa, con l’attribuzione alle Province
ed ai Comuni della gestione amministrativa. La Regione Campania fa ancora
troppa gestione e questo non solo è improprio ma determina ritardi notevoli
nella soluzione di problemi. Viceversa la vetustà del quadro normativo
regionale (al di là di una serie di nuove leggi approvate nella legislatura che
si sta completando – anche se resta grave la non approvazione dello Statuto e
della legge elettorale) non dà certezze allo sviluppo di una corretta e
tempestiva azione amministrativa.
Questa è una delle questioni centrali da risolvere,
prima la si attua e prima il sistema nel suo complesso recupera efficienza ed
efficacia.
Dovrà essere sempre
più preponderante l’attivazione degli strumenti propri dell’Agenda 21 locale
per lo sviluppo sostenibile regionale che mutua, sul piano locale, i principi sviluppati
al Vertice di Rio de Janeiro del 1992 prima e di Johannesburg del 2002 poi, che
punta, anche e soprattutto sul piano locale a non consumare oltremodo le poche
risorse della terra e a conservarne per le future generazioni. La metodologia
dell’Agenda 21 locale presuppone una forte e spinta partecipazione dei
cittadini e dei gruppi d’interesse, degli attori sociali a definire un vero e
proprio Piano di Azione Ambientale che sarà la linea maestra per le politiche
ambientali e sociali della Regione Campania.
I principi dello sviluppo sostenibile dovranno essere
il cuore pulsante dell’Ente in tutte le sue articolazioni e soprattutto
dovranno determinare un nuovo modello di sviluppo che dovrà contaminare tutto e
tutti. Sarà elaborato un vero e proprio vademecum di “buone pratiche”
ambientali e sociali cui tutte le componenti sociali dovranno attenersi, in
modo volontario per certi aspetti, ma anche in modo autoritativo per altri
(acquisti ambientali, certificazioni EMAS e/o ISO 14000, indirizzi per elaborazioni
di capitolati d’appalto che presuppongano l’utilizzazione di materiali poveri
derivanti dalle raccolte differenziate, codici etici, regolamenti edilizi con
le regole derivanti dai principi dello sviluppo sostenibile, riduzione del
consumo idrico, energie alternative ecc…).
Emblematica
sarà la realizzazione, tra gli altri interventi sui quali la Regione Campania
sta investendo da tempo nel campo della mobilità sostenibile, di una vera e
propria politica sull’uso della bici e sulla realizzazione di piste ciclabili
sulle aree ferroviarie dismesse, a partire da quella della Circumvesuviana da
Scisciano a Napoli.
Sarà istituito un
Ufficio Ag 21 intersettoriale (la conferenza dei dirigenti coordinatori
dell’Ente) per l’analisi della rispondenza degli atti da far assumere alla GR
e/o al CR ai principi dello sviluppo sostenibile.
Se lo sviluppo sostenibile è la prospettiva nella
costruzione di un modello di sviluppo alternativo a quello attuale, più
corretto sul piano ambientale e più equilibrato sul piano sociale che, però, ci
porta ad una prospettiva di medio-lungo periodo, “la questione ambientale” e
quello del controllo delle fonti di inquinamento impongono una più decisa
azione di monitoraggio e di intervento nella eliminazione dei punti critici più
evidenti.
Insieme all’ARPAC e ai tanti soggetti competenti, ivi
compresi le Province e i Comuni, partendo dal fondamentale documento, che è “il
rapporto sullo stato dell’ambiente”, bisognerà intervenire subito su alcune
criticità:
·
inquinamento
dell’aria (in particolare traffico e emissioni industriali),
·
inquinamento dei
suoli (uso dei pesticidi, cimiteri autoveicoli, abbandono di rifiuti, ecc..),
·
inquinamento
delle acque (reti idriche, falde, inquinamento marino ecc..),
·
inquinamento
elettromagnetico (centrali termoelettriche, antenne telefonia, elettrodotti).
Insieme a questi interventi sarà utile conseguire un
altro dato che potrà essere elaborato con l’aiuto delle ASL e di istituti
sanitari specializzati: uno studio epidemiologico che metta in relazione nelle
diverse aree territoriali, in termini di casualità/effetto, le fonti di
inquinamento con le malattie (tumori, leucemie ecc…).
Sarà utile, a questo proposito, lavorare
ad una maggiore connessione tra sanità e ambiente:
- promuovendo l'impegno dei medici per la salvaguardia
dell'ambiente;
-
privilegiando le politiche di prevenzione ambientale;
-
sostenendo i medici e i pediatri di base nel ruolo di tutela del proprio
assistito per le cause ambientali;
-
attivando, nell'ambito di un efficace sistema di monitoraggio ambientale, una
rilevazione epidemiologica delle patologie organiche tumorali e non,
correlabili alle problematiche territoriali recenti e passate (in particolare
per lo smaltimento illegale di rifiuti tossici e radioattivi avvenuto
nell'ultimo decennio);
-
avviando, nello specifico, un registro dei tumori, al momento inesistente,
avvalendosi della cooperazione attiva dell'Isde nazionale (International
Society of Doctors for the Environment) e delle rappresentanze regionali e
provinciali dell’associazione “Medici per l’ambiente”, con cui stabilire
protocolli di intesa.
Sui rifiuti è necessario preliminarmente trovare una
soluzione all’enorme quantità di immondizia (cosiddetto
CDR stoccato, pari a ca. 2.800.000 mc) che c’è già, che provoca lo stato
di emergenza e che viene continuamente sballottata da un sito all’altro, con
grande lucro per chi preleva e trasporta, grandi costi per la comunità e nessun
vantaggio ambientale. Bisogna affrontare con coraggio questa questione, in parte
inviando il CDR negli impianti del Nord e della Germania o conferendo i rifiuti
a grandi discariche ad alta tecnologia per il recupero del gas o determinando
una riconversione delle centrali elettriche e delle cementerie che attualmente
utilizzano olio combustibile o peggio ancora carbone.
Ma il problema non lo si risolve a valle, ma a monte:
l’immondizia per il 50% circa è
costituita da imballi (buste, bottiglie, confezioni). Qualsiasi cosa è
confezionata con il sistema usa e getta, quasi tutto in plastica o in cartone. Si tratta di cambiare questa modalità
di commercializzazione dei prodotti, agendo, se possibile anche con la leva
fiscale: dove si sono introdotte pesanti tassazioni sulle confezioni usa e
getta non biodegradabili i rifiuti si sono ridotti di un terzo già nei primi
mesi e si è in breve tempo ripristinato il sistema del “vuoto a rendere” che
del resto ha funzionato benissimo fino a poco più di un decennio fa, mentre i
produttori di imballi usa e getta o hanno implementato prodotti biodegradabili
o hanno cambiato settore. Questa riduzione dei rifiuti a monte ed il
contestuale flusso finanziario proveniente da chi non vuole rinunciare all’usa
e getta e sceglie di pagare molto pur di continuare ad inquinare, può
permettere un rafforzamento delle capacità operative per la raccolta
differenziata, che in alcuni casi può arrivare per l’effetto congiunto della
tassazione degli imballi, della conseguente riduzione a monte e delle maggiori
risorse finanziarie, ad una riduzione dei volumi a valle (molto forte) di
oltre il 70%. Così tutto il sistema tornerebbe in equilibrio. Un buon piano
territoriale, che salvaguardi le vocazioni agricole e i centri urbani, in una
logica di confronto positivo con le comunità locali, potrebbe definire le localizzazioni
dei siti per la chiusura del ciclo dei rifiuti.
Contenuto irrinunciabile del piano, ma
soprattutto della sua procedura di costruzione, approvazione ed implementazione
–secondo il principio cardine che un buon piano non è un fatto tecnico ma
socio-politico e tecnico, per cui un buon piano è un buon processo di piano-
dovrà essere la corretta e condivisa percezione che ogni ciclo tecnologico
utilizzabile per la gestione dei rifiuti ha i suoi vantaggi e svantaggi sia dal
punto di vista ambientale che economico, e comporta conseguenze a monte sulle
modalità di raccolta del rifiuto (con conseguenti ulteriori conseguenze
economiche, organizzative e sociali), e che tutti i materiali componenti i
rifiuti (frazione umida, 27 %; vetro, 20 %; plastica, 13 %, metalli, 5%; carta
e cartone, 24 %; legno, 10 %; pericolosi, 1 %) sono indirizzabili a
destinazioni alternative (se non altro alla discarica), ciò che si pone è la
scelta di modelli di raccolta-selezione-impiantistica adeguati.
Sotto questo profilo in linea generale il
problema è di individuare un modello (con le sue variazioni locali) che unisca
nel modo migliore:
-
la
compatibilità ambientale,
-
l’idoneità
tecnica,
-
la
condivisione sociale,
-
la
sostenibilità economica.
Senza il pieno rispetto di tutte e quattro
le dimensioni ogni soluzione non sarà tale, nel senso che –ad esempio- una
soluzione che non affronti l’intero problema posto dalle masse di rifiuti da
trattare ogni giorno si rende disponibile a soluzioni tampone di emergenza che
spesso sono fonte di problemi maggiori; del resto una soluzione che non sia
socialmente condivisa non sarà implementata per i prevedibili e giustificati
movimenti di protesta che provocherà; ancora, se non è economicamente
sostenibile andrà a gravare i cittadini che pagano le tasse per il servizio o
le finanze pubbliche distogliendo risorse preziose per lo sviluppo o per le
politiche pubbliche ed il welfare; infine, se non è ambientalmente pienamente
compatibile scaricherà sulle attuali e future generazioni danni non
accettabili.
Sotto questo profilo ciò che bisogna
comprendere è che il problema va letto nell’ambito del modello di sviluppo
(produzione-distribuzione-consumo) che lo genera, nel senso che occorre
valutare le conseguenze di ogni soluzione sia in funzione degli impatti
ambientali diretti sia di quelli indiretti.
Ad esempio:
-
il
recupero della plastica come materia comporta consumi energetici, di materiali,
economici mentre consente il vantaggio di una minore produzione di polimeri
vergini –a livello globale- con conseguente minore consumo di materie prime non
rinnovabili;
-
viceversa,
il suo recupero come energia comporta diversi impatti sul sistema di raccolta e
comporta, di nuovo, minore consumo di materie prime non rinnovabili ma questa
volta sotto forma di combustibili fossili altrimenti bruciati per produrre
l’energia o il calore. Del resto però la seconda modalità immette residui di
combustione in atmosfera, incrementando l’effetto serra e le altre
trasformazioni del clima, per cui bisogna inserire questa dimensione,
bilanciando per correttezza anche le immissioni in atmosfera sia della plastica
sia del metano altrimenti bruciato per Kw prodotto;
-
le
due alternative d’uso hanno anche significativi e diversi impatti sui sistemi
di raccolta messi in essere (il recupero energetico è ovviamente meno esigente
in termini di selezione dei materiali e quindi impiega a tal fine meno lavoro);
e sulla dimensione economica (la raccolta in modo differenziato, impegnando più
lavoro e mezzi –anche per la necessaria selezione a valle- ha costi maggiori
cui fanno fronte gli utili derivanti dal recupero dei materiali; la
valorizzazione energetica ha minori costi di raccolta ma solo l’utile della
vendita di energia a fronte, pèrò, di ingenti investimenti economici per gli
impianti; l’invio in discarica è probabilmente la forma più economica –non a
caso la più usata- ma quella che spreca più materia);
-
infine
bisogna tenere conto degli impatti socio-politici generati.
In conseguenza di ciò ogni modello si
intenda perseguire deve essere posto rigorosamente sotto il controllo della
sfera pubblica e delle istituzioni civili. Anche in relazione alla nota
compromissione del sistema in essere di gestione dei rifiuti con ambiti
criminali nei confronti dei quali la vigilanza è, e deve essere sempre,
altissima. È fondamentale, in altre parole, che il/i processi di pianificazione
e programmazione siano rigorosamente condivisi e partecipati ai diversi
livelli, in essi dovranno essere incardinate le più rigorose procedure di
valutazione integrata (ambientale ed economica) disponibili. Tali procedure di
valutazione non dovranno essere un momento isolato ma avere carattere continuo
(essere attive nella fase di scelta, implementazione e revisione) ed essere
supportate da idonei strumenti informatici e comunicativi.
È in questo senso che una politica
integrata per i rifiuti deve partire da uno sforzo irrinunciabile,
straordinario e prioritario per porre le scelte, le motivazioni di queste, le
informazioni dalle quali partono, il percorso operativo seguito per la loro
formazione, sotto l’attenzione della sfera pubblica. Deve anche essere
supportata da un monitoraggio costante dei flussi, condotta il più possibile
con dispositivi automatici (ad es. controllo satellitare dei vettori e
strumentale dei siti), anch’esso reso disponibile a tutti in tempo reale.
Bisogna, infine, investire sui controlli da parte degli organi preposti.
Ma è anche necessario che la gestione torni alle
competenze dei poteri ordinari. Anche sotto questo
profilo ed a causa di ciò, bisogna attivare senza indugio un processo di
ri-programmazione che tenga anche conto dell’esistente e di alcune scelte non
reversibili (come i sette impianti già costruiti ed operativi) ma ne superi i
limiti attraverso uno sforzo straordinario di uscita dall’emergenza. Appare
anche necessario sciogliere i consorzi, inefficienti e costosi, e istituire un
Ente Unico Provinciale articolato per ambiti territoriali di ottimizzazione, entro cui definire i siti, con il
principio che ogni ambito, ogni comunità deve prendersi un pezzo del ciclo: un
pò per ciascuno, insomma, tenendo conto delle necessità di efficienza ed
efficacia dei sistemi di smaltimento.
Al di là, poi, del merito della realizzazione dei
termovalorizzatori, materia sottratta appunto ai poteri ordinari, per i quali
rimane un giudizio fortemente critico nell’impostazione data dal bando Rastrelli, sia per la tecnologia utilizzata, sia
per la localizzazione definita in aperto contrasto con le comunità locali,
la Regione Campania
dovrà rielaborare e far approvare, nei primi 6 mesi, una legge regionale sul
ciclo integrato dei rifiuti che faccia ritornare ai poteri ordinari la gestione
dei rifiuti con la creazione di un organismo che veda coinvolti le 5 province e
i rispettivi 5 capoluoghi nel pianificare ed individuare tutti i siti necessari
per un giusta gestione dei rifiuti.
La Regione Campania dovrà inoltre sostenere, anche economicamente, l’azione dei Comuni:
-
nell’effettuare
la raccolta differenziata innanzitutto della frazione organica a partire dalle
grandi utenze (mercati, fruttivendoli, ristoranti ecc..).;
-
nell’inserire
criteri di premialità o penalità per i Comuni che dovranno in modo capillare
attivare la raccolta differenziata con particolare
riguardo alla materia effettivamente recuperata;
-
nella
realizzazione di piccoli impianti per il compostaggio della frazione dei
rifiuti umidi (biodegradabili) da 6 o 12 t/g massimo;
-
nella
realizzazione di Isole ecologiche in ciascun comune con la possibilità, per chi
conferisce rifiuti differenziati, di avere dei bonus sul risparmio della
tassa/tariffa;
-
nel creare una
task force per i controlli sulla raccolta differenziata, anche attraverso
l’introduzione della figura della “guardia ecologica”;
-
nell’effettuare
la raccolta differenziata specifica delle plastiche utilizzate in agricoltura,
come le pellicole usate per le serre, per evitare il rischio che vengano
bruciate in quanto producono ingenti quantità di diossina che compromettono la
qualità dei prodotti agricoli.
-
nel rivedere
le abitudini di consumo, a partire dalle pubbliche amministrazioni,
orientandole (anche attraverso la leva fiscale) verso un minore uso di materia
ed energia ed una minore produzione di rifiuti;
-
nello
spendere la massima energia nel fornire corrette informazioni ai cittadini ed
alle amministrazioni (spiegando modalità, vantaggi e conseguenze di ogni scelta
ed alternativa);
-
nel
creare effettivi luoghi di espressione della società civile e delle
amministrazioni locali, avviando meccanismi di cooperazione istituzionale;
-
nel
superare l’attuale frammentazione che vede sistemi di raccolta diversi da
comune a comune (crea confusione e rende più onerosa la successiva selezione e
riciclo) avviando un coordinamento a scala provinciale;
-
nel
reimpostare quindi la logica di funzionamento delle filiere della
selezione-riciclaggio curando l’effettiva qualità del materiale raccolto e
selezionato e controllandone con attenzione i flussi;
-
nel
concentrare una particolare attenzione sui rifiuti urbani pericolosi;
-
nell’avviare
un programma di monitoraggio puntuale dei flussi di rifiuti industriali ed in
particolare delle aree di stoccaggio temporaneo.
Per quanto attiene all’immediato è
necessario un deciso cambio di politica e azioni immediate e conseguenti.
-
pretendere garanzie forti sulla qualità
del CDR già stoccato (cioè del rifiuto tal quale) e di quello nuovo:
-
la
totale esclusione dell’alluminio e del vetro;
-
la
rigorosa manutenzione dei filtri e degli impianti esistenti di CDR;
-
la
modifica dei trattamenti di stabilizzazione della FOS negli impianti di CDR,
per adeguare i tempi di trattamento ai flussi effettivamente ricevuti;
-
la
minimizzazione dell’invio della FOS in discarica, anche attraverso successivi
stadi di trattamento se necessari;
-
soprattutto
il più rigoroso controllo diretto, pubblico e strumentale del ciclo produttivo
del CDR e dei relativi flussi (esiste un sistema pubblico in avviamento di
monitoraggio dei ciclo RSU-CDR che può essere esteso anche al controllo interno
degli impianti e inspiegabilmente non viene attivato da anni);
-
trovare soluzioni diverse
dall’incenerimento per il CDR sino ad oggi stoccato che anche la Commissione
VIA del Ministero dell’Ambiente oggi finalmente riconosce come non adeguato;
-
recuperare
la materia in esso contenuta quando possibile;
-
applicare
tecniche di inertizzazione realmente efficaci e conferirlo in siti controllati
in regione o altrove;
-
solo
in estrema ratio valorizzarlo energeticamente ma solo in impianti già esistenti
e comunque attivi con altri combustibili e sotto le più esigenti garanzie;
-
attivare subito il monitoraggio
strumentale integrato aria-suolo-acqua del territorio di Acerra e degli
impianti di CDR esistenti.
Solo dopo aver dato seguito ai punti sopra descritti si potranno definire
i luoghi e tempi per l’eventuale creazione di termovalorizzatori di piccola
dimensione ed a tecnologia avanzata.
È impossibile risolvere il deficit
energetico costruendo nuove centrali termoelettriche di grande taglia alimentate
a gas metano di importazione. Che la Campania importa la maggior parte
dell’energia elettrica che consuma è un dato incontrovertibile. Ma è
altrettanto fuor di dubbio che, con la costruzione di grandi centrali
termoelettriche, la Campania importerà gas metano al posto dell’energia
elettrica. Dunque, le cose non cambiano sotto il profilo della dipendenza
energetica. Il gas metano è una fonte energetica fossile che l’Italia importa
prevalentemente dalle ex Repubbliche dell’Unione Sovietica e dall’Algeria.
Sotto il profilo meramente quantitativo il
deficit attuale di energia elettrica della Regione ammonta
a 13.200 GWh annui, cui contribuiscono, in
modo molto eterogeneo, le cinque province campane:
·
per
il 49,5% vi concorre la Provincia di Napoli,
·
per il
19,8% la provincia di Salerno,
·
per
il 18% la provincia di Caserta,
·
per
circa l’8,6% la provincia di Avellino,
·
per
il 4,1% quella di Benevento.
In Campania risultano già autorizzate due
grandi CCGT alimentate a gas metano:
·
Orta
di Atella in provincia di Caserta da 780 MWe
·
Teverola
in provincia di Caserta da 400 MWe (in aggiunta ad una preesistente centrale da
150 MWe).
A queste si deve aggiungere quella di
Sparanise, in provincia di Caserta, da 780 MWe per la quale, essendosi concluso
positivamente la VIA, seguirà, probabilmente a breve, il decreto di
autorizzazione alla costruzione e all’esercizio da parte del Ministero delle
Attività Produttive.
Si tratta quindi di tre nuove grandi CCGT
di grande taglia, tutte concentrate in una sola provincia, per un totale di ben
1.180 MWe.
Attualmente assistiamo ad un vero e
proprio paradosso. Da un lato le regioni sono impegnate alla preparazione dei
PER, forti anche della modifica in senso federalista del titolo V della
Costituzione della Repubblica, che affida loro la potestà legislativa
concorrente in materia energetica. Dall’altro lato il Governo, attraverso una
legislazione d’urgenza (decreto e legge sblocca-centrali), ha favorito
l’approvazione di numerosissimi progetti per la costruzione di centrali di
grandi dimensioni (400, 800 e 1200 MWe) fuori da ogni logica di pianificazione
energetico-ambientale, in aperto conflitto con i poteri delle regioni.
Si è venuto, quindi, a determinare così un
caso di dualismo fra governo centrale e governo periferico.
Nelle more della redazione del Piano
Energetico Regionale (PER) della Campania, l’Assessorato alle Attività
Produttive e Fonti Energetiche ha predisposto le Linee guida in materia di politica regionale e di sviluppo sostenibile
nel settore energetico adottate con Deliberazione della G. R. n. 4818 del
25 ottobre 2002. In esse si afferma, tra l’altro, che: “La costruzione di nuovi impianti di produzione di energia elettrica
nonché la modifica ed il ripotenziamento degli impianti esistenti saranno
limitati per quanto necessario per
assicurare la copertura del deficit elettrico
corrispondente al fabbisogno previsto per l’anno 2010, copertura attuata con
almeno il 25% di potenza generata da impianti alimentati da fonti rinnovabili
di energia ed assimilati.”
La riduzione del deficit energetico
elettrico dovrebbe essere solo uno degli obiettivi strategici del PER in corso
di redazione. L’altro obiettivo, altrettanto strategico dovrebbe essere la
riduzione, entro il 2010, di emissioni in atmosfera di gas climalteranti, in
accordo con gli impegni sottoscritti in sede comunitaria dall’Italia con la
ratifica del protocollo di Kyoto che è entrato in vigore il 16 febbraio 2005.
In tal senso la Regione ha anche sottoscritto il Protocollo di Torino, in forza
del quale insieme alle altre regioni italiane, si è impegnata a redigere, in
tempi brevi, il piano energetico-ambientale regionale (PEAR) in una logica di
sviluppo sostenibile che prevedeva tra l’altro:
·
l’elaborazione
di un Piano Energetico Ambientale, sulla base dei singoli bilanci energetici
che privilegi:
·
le
fonti rinnovabili e l’innovazione tecnologica;
·
la
razionalizzazione della produzione elettrica;
·
la
razionalizzazione dei consumi energetici, con particolare riguardo al settore
civile anche attraverso l’introduzione della Certificazione Energetica;
·
il
raccordo dei diversi settori di programmazione ai fini della sostenibilità
complessiva;
·
la
promozione nel settore produttivo dell’ecoefficienza e della cooperazione
internazionale.
Le previsioni dell’International Energy Agency (IEA)
valutano
che la “Risorsa Efficienza” può valere quanto l’incremento della richiesta di
energia elettrica al 2020.
Il
risparmio energetico è equiparabile ad una vera e propria fonte energetica –
stimata anche nel 30% nel breve e medio periodo e al 50% nel lungo periodo.
La Regione Campania dovrà rispettare esattamente le
linee guida della citata delibera regionale e del protocollo di Torino,
iniziando da subito a elaborare un piano di interventi per utilizzare pannelli
solari e/o fotovoltaici per gli edifici pubblici (progetto comuni solarizzati).
Il tema della sicurezza sociale e di una più equa
redistribuzione della ricchezza è un tema decisivo per il nostro territorio e,
anche se non può essere assunto tra le competenze in senso stretto dell’Ente
regionale, è fondamentale occuparsene con specifiche competenze professionali,
anche ricorrendo a strumenti indiretti capaci di lenire i gravi disagi sociali
che una gran parte della popolazione, in particolare nelle periferie degradate,
vive. La sperimentazione del “reddito di cittadinanza” va esattamente in questa
direzione e va analizzata, corretta e, se possibile, implementata.
La ricostruzione di un tessuto sociale disarticolato e
pericoloso, perché fonte di affermazioni di disvalori che possono essere messi
immediatamente in relazione al fenomeno camorristico, è un obiettivo
indispensabile se si vuole costruire una migliore qualità della vita.
Da un lato ci sono ancora sacche di povertà vera, di
chi non riesce a mettere in tavola un piatto di pasta o non ha i servizi
indispensabili per una vita appena decente, dall’altra la mancanza di
scolarizzazione o di fenomeni di analfabetismo di ritorno, rappresentano le due
facce di una medaglia ed un punto critico forte nel processo di sviluppo o
sarebbe meglio dire di non sviluppo di alcune delle nostre aree.
A partire dagli strumenti di pianificazione
urbanistica e territoriale di cui la Regione Campania si è dotata per
rispondere al suo ruolo di coordinamento per l'individuazione e la
realizzazione di politiche di sviluppo territoriale, si intende integrare i
macro obiettivi e le strategie d'intervento con i Piani Sociali di Zona e
quindi con le politiche che riguardano più da vicino il cittadino e la comunità
in cui vive. Pertanto le politiche sociali vengono intese in senso trasversale,
non solo per lo sviluppo di qualificati servizi alla persona, ma soprattutto
come espressione dell'attenzione alla qualità della vita e quindi alla qualità
dei rapporti tra le persone e tra i cittadini e le istituzioni, alla sicurezza
e al senso di protezione, alle forme di partecipazione e quindi di cittadinanza
attiva, alla valorizzazione delle culture locali e la promozione delle
competenze e dei saperi da orientare al lavoro e all'impresa. Si guarda dunque
alla filiera istituzionale Regione-Province-Comuni come al complesso di
soggetti politico-amministrativi che raccolgono, integrano e coordinano le
esigenze dei territori e le orienta ad una maggiore consapevolezza “ecologica”
e sociale. Le politiche di sviluppo e le politiche economiche devono saper
valutare “impatti” ambientali e sociali e porre le responsabilità istituzionali
come garanzia di una più significativa partecipazione dei cittadini.
Una menzione specifica meritano le
politiche di inclusione sociale degli extracomunitari.
E’ necessario intervenire con una politica
di aiuto alle imprese, in particolare quelle agricole della piana del Sele e
del Casertano, per dotare gli extracomunitari che lavorano in questo settore di
alloggi dignitosi, senza i quali qualunque politica di inclusione sociale
diventa difficilmente realizzabile.
La regione, sulla base di un monitoraggio,
e per situazioni di particolare disagio dovrà prevedere contributi per la
ristrutturazione di fabbricati rurali da destinare ad alloggi per gli
extracomunitari e/o
particolari forme di agevolazioni contributive sulla locazione di alloggi
destinati allo stesso scopo. Analoghe politiche vanno indirizzate
all’istituzione di abbonamenti di favore le in trasporto pubblico.
Nei Piani di zona sociali dovranno essere
potenziati gli interventi a favore degli immigrati, con particolare riferimento
alle famiglie, al sostegno scolastico dei minori, all’orientamento ed alla
formazione.
La Regione dovrà dare continuità e, possibilmente
potenziare, gli interventi progettuali, sperimentali e fortemente innovativi
realizzati in concertazione con gli Enti Locali e molte associazioni di
volontariato in alcune realtà della Campania a forte concentrazione di immigrati, partendo anche
dall’approvazione della legge regionale già all’attenzione del Consiglio. Una
specifica attenzione dovrà essere data alle problematiche dei moltissimi
rifugiati politici che aspettano anche due anni per avere il previsto
colloquio, senza poter né lavorare, né sottoscrivere contratti d’affitto.
Bisogna elaborare un grande piano di manutenzione
straordinaria del territorio trovando già da subito i migliori strumenti per
una costante ed efficace manutenzione ordinaria (dissesto idrogeologico,
costoni marini, sottosuolo, strade, scuole ecc..)
In questo contesto va inserita la
questione delle alberature stradali e dell’alberatura delle vaste superfici
asfaltate dei parcheggi che contribuiscono non poco all’effetto serra con il
fenomeno dell’irradiamento
termico. Occorrerà emanare quindi una legge che renda obbligatorio alberare
vaste superfici asfaltate, utilizzando essenze della flora arborea campana, al
fine di mitigare l’effetto serra, nonché di contribuire su scala regionale
all'attuazione del Protocollo di Kyoto.
La
Regione Campania si è dotata di uno dei più moderni e più
apprezzati regolamenti per l’utilizzo dell’ingegneria naturalistica. Nella nuova
legislatura sarà data maggiore attenzione a questo campo che, tra l’altro, è
occasione di lavoro sia nella fase di realizzazione dell’opera che per
l’indotto che si viene a creare.
Dovranno essere recuperate
con interventi di ingegneria naturalistica le aree di cava dismesse, in
particolare nel territorio casertano, esempio di disastro ambientale.
Dovrà
essere approvata una nuova legge regionale (testo coordinato) in
materia di attività estrattive; il Piano regionale delle attività estrattive
dovrà recepire le richieste delle associazioni ambientaliste.
La
manutenzione del territorio montano, in particolare quello delle aree
naturali protette, vedrà sempre più impegnati gli operai idraulico-forestali
che, ottenuto ormai il contratto di lavoro a tempo indeterminato, rappresentano
una fenomenale risorsa umana per mantenere puliti i sentieri, le foreste, le
aree di sosta, i greti dei torrenti dei parchi campani.
Il grande sforzo compiuto dalla Regione
Campania nel settore delle aree naturali protette, che ha portato alla
creazione di una quindicina circa di nuove aree naturali protette e alla
tutela di oltre il 25% di
territorio regionale, deve trovare compimento nella nuova legislatura, nel
corso della quale bisognerà mettere in atto un sistema gestionale e
pianificatorio moderno e all’altezza del compito chiamato a svolgere.
Si
tenga presente, infatti, che le aree naturali protette regionali
e nazionali devono tutelare la preziosa e insostituibile biodiversità regionale
e, nel contempo, garantire nuove forme di economia durevole alle popolazioni
territorialmente interessate.
Per fare ciò è necessario dotare la
Regione Campania delle giuste competenze tecniche, passando attraverso la
creazione dell’Agenzia regionale dei Parchi, o la creazione di un apposito
Assessorato, o, in subordine, di una nuova area di coordinamento. Si tenga
presente che al momento, invece, la materia è frammentata in più assessorati
con conseguenze poco utili, come è facile immaginare, al territorio protetto e
agli stessi abitanti.
La Regione Campania deve promuovere, sempre più,
un’agricoltura di qualità, rispettosa della biodiversità, che crei prospettive
economiche di sviluppo in un quadro di sana imprenditoria nel settore
agroalimentare e che valorizzi il ruolo dell’agricoltore semplicemente attuando
quella “multifunzionalità”, che con l’azione di governo dell’allora Ministro
dell’agricoltura, Alfonso Pecoraro Scanio, si è stabilita come svolta epocale
di un sistema economico che era stato ormai trascurato e abbandonato da troppo
tempo.
La difesa dell’ambiente deve assolutamente
intrecciarsi con la tutela dell’agricoltura, naturale, tipica, rurale. Non si
può più rischiare di trovarci di fronte ai problemi affrontati in passato come
quello della “mucca pazza” e per questo è importante il ruolo delle Regioni
nella difesa della tipicità agroalimentare, in un quadro di promozione e
innovazione nel settore agricolo e zootecnico. Sono tanti i giovani e le donne
che hanno riscoperto l’agricoltura, che accedono ai finanziamenti europei
erogati dalle Regioni per la Pac, lo Sviluppo rurale e l’agricoltura biologica
ed è a loro e alle future generazioni, che occorre garantire una politica
agricola legata allo sviluppo sostenibile del territorio. Un’azione a sostegno
di questo percorso è una politica che incentivi la ricomposizione fondiaria
(vedi misura POR 4.10) e la realizzazione di aggregazione dei piccoli
produttori in termini associativi e/o cooperativistici.
Le linee guida perché l’agricoltura regionale sia
sempre più fattore di sviluppo sono:
·
No agli OGM
·
Sostegno
dell’AGRICOLTURA BIOLOGICA
·
Promozione dei
PRODOTTI TIPICI E TRADIZIONALI
·
Sviluppo delle
“FILIERE CORTE”
·
Strategie per la
PAC e i Piani di Sviluppo Rurale orientate sempre più alla sostenibilità
·
Una legge
regionale di orientamento in agricoltura
·
Individuazione
dei distretti agroalimentari e dei distretti rurali di qualità
·
Trasformazione
dell’ERSAC in agenzia regionale per la sicurezza alimentare
·
Recupero
dell’ENERGIA dall’ AGRICOLTURA
Gli o.g.m. (organismi geneticamente modificati) sono
un rischioso salto nel buio, in particolare per il nostro modello agricolo e la
nostra economia, che in una fase di recessione mondiale ha trovato proprio
nella produzione agroalimentare, legata alla tradizione ed alla qualità, un
confronto capace di crescere. Gli o.g.m. appaiono pertanto sempre più uno
strumento della guerra commerciale scatenatasi tra le due sponde
dell'Atlantico, oltre che uno strumento delle multinazionali per spostare
sempre più valore dai bilanci degli agricoltori a quelli dell'industria.
E’ necessario scongiurare il pericolo della diffusione
di piante ed alimenti o.g.m. nella nostra Regione e rendere sempre più stringenti
i controlli sull’introduzione surrettizia di tali organismi.
L’agricoltura biologica è il modello di sviluppo
rurale che La Regione Campania deve coerentemente perseguire. Il no alla
chimica si ritrova con i valori della tipicità e della biodiversità.
Non serve riepilogare i vantaggi di questa scelta
strategica sull’ambiente, sull’economia rurale, sulla manutenzione del
territorio e delle falde acquifere, sui consumi energetici, sulla sicurezza
alimentare e sulla salute dei consumatori, peraltro noti e condivisi da tempo.
Valorizzazione del biologico insieme con l’origine
della produzione e del territorio, risulta un approccio vincente e,
soprattutto, fornisce ad intere aree del nostro Paese l’opportunità di
conversione del sistema e non più della singola azienda che affronta da sola le
difficoltà del percorso verso il bio.
E’ necessario rafforzare le filiere corte,
agricoltura-consumatori, agricoltura-ristorazione, come vendita diretta, come
presenza di produttori biologici nei mercati rionali, come sinergie tra
comparti produttivi. Negli appalti per la refezione e la somministrazione
alimentare andrebbero incentivate le imprese che garantiscono la valorizzazione
del biologico e del tipico. Anche supportare le organizzazioni commerciali dei
produttori attraverso la creazione di piattaforme logistiche e commerciali
rappresenta un buon esempio di intervento pubblico (società miste). Le
amministrazioni pubbliche devono entrare in una logica di
promozione/informazione continua del biologico e non affidarsi ad attività
isolate ed occasionali. Anche le attività di valorizzazione all’estero
richiedono un ripensamento che superi la mera logica di contributo ai costi
fieristici delle imprese campane in terra
straniera.
E’ comunque prioritario il rilancio e la
qualificazione della produzione sementiera con metodo biologico, anche
attraverso un maggiore protagonismo dei produttori e delle imprese sementiere,
oltre ad investimenti adeguati anche in ricerca e sperimentazione verso varietà
e sistemi di produzione e lavorazione adatti all’agricoltura biologica.
I prodotti agroalimentari tradizionali (PAT),
individuati in base al D.M. MiPAF 350/99 (finora ai soli fini di garantirne la
commercializzazione in deroga alle norme sanitarie) rappresentano la più
autentica espressione delle produzioni territoriali: gli interventi di sviluppo
rurale da ridefinire in relazione alla revisione della PAC, dovranno comunque
contemplare azioni orizzontali tese a valorizzare il paniere di referenze che i
singoli distretti rurali regionali esprimono per vocazione storica, con
particolare riguardo alle preparazioni alimentari che, sia nella filiera
animale che vegetale, sono diretta espressione di ecotipi locali fondamentali
per conservare un elevato tenore di biodiversità in agricoltura.
Finora l’elemento di relazione con la biodiversità
agricola (relazione tra prodotto alimentare ed ecotipo locale) non è stato mai
formalmente esplicitato nella formazione degli elenchi regionali, con il
rischio che le preparazioni alimentari, benché tradizionali, se conseguite con
varietà e razze “globali” fungano da cavallo di Troia per scalzare dal
territorio gli ultimi presìdi della relazione tra ambiente e sapori, quali gli
ecotipi locali che sono l’unico strumento efficace per contrastare le dinamiche
feroci della globalizzazione del gusto.
Nell’affrontare
questioni inerenti le attività agricole, le produzioni, gli alimenti dell’
agricoltura biologica, non si può oggi non tener conto dell’organizzazione e
delle strategie del sistema distributivo alimentare italiano.
E’ un dato, che la GDO nel comparto agro-alimentare
italiano controlli attualmente più del 60% dell’offerta complessiva nazionale.
Ovviamente con forti differenziazioni tra aree geografiche. E nei prossimi anni
il trend di crescita e di espansione delle grandi superfici commerciali (super
e ipermercati) sarà tra i più veloci e aggressivi in tutte le regioni.
Per questi motivi appare opportuno cercare di
delineare nuovi percorsi commerciali che possano valorizzare le produzioni
locali, essere fruibili ai consumatori del territorio d’origine delle merci,
bypassando la serie di intermediazioni che portano a speculazioni ed aumenti,
dove il produttore e il consumatore diventano i soggetti più spremuti.
In
questa direzione si collocano due iniziative strategiche per la Regione
Campania, che deve lavorare ad una propria legge di orientamento: la
individuazione dei distretti agroalimentari e rurali previsti dalla legge di
orientamento in agricoltura, in modo da collegare sempre di più i prodotti di
qualità ad un territorio di qualità e la trasformazione dell’ERSAC in agenzia
per la sicurezza alimentare, in modo tale che sia riannodato il rapporto di
fiducia tra agricoltori e consumatori.
La direttiva europea del maggio 2003 ha triplicato la quantità
di carburanti totali prodotta dall’ agricoltura e quindi suscettibili di
esenzione dalle accise. Dal 2,5% del totale si è passati al 6% del totale con
un incremento di superficie agricola coltivabile a biomasse per energia di
circa 1.500.000 ha per tutta l'Europa.
In Italia, ad oggi, possono essere prodotte fino a
300.000 tonnellate di biodiesel da agricoltura da cui possono dedursi le
accise. Nei fatti però, il nostro Paese non ne produce che poche centinaia di
ha e, quindi, di fatto l’intero quantitativo proviene dall’estero.
Il biodiesel, ma più ancora gli oli lubrificanti da
agricoltura, rappresentano una straordinaria risorsa per il futuro energetico
del pianeta e per la salubrità dell’aria e dell’acqua. Il biodiesel puro (solo
quello puro) è biodegradabile al 100% quindi è fondamentale il suo impiego in
ambiente marino, diporto e cabotaggio, nelle aree protette e in tutte le aree
sensibili ambientalmente.
Ovviamente, resta fondamentale il tipo di
coltivazioni, per non deturpare il pianeta con contributi di inquinanti e
quindi di nuovi idrocarburi veicolati sui campi per produrre più colture
industriali, causando una beffa per il pianeta e un danno per le finanze. Ecco
che vanno incrementate le colture sostenibili e vanno sviluppate le sementi che
richiedono ridotti apporti di azoto e per le latitudini Italiane anche colture
non idroesigenti.
Quindi è giunta l’ora delle fattorie energetiche, non
più gasolio agricolo ma libertà di prodursi il biodiesel in proprio da varie
oleaginose e in particolare da girasole e canapa (di cui la Campania è stata
grande produttrice fino agli anni ’60).
Le positive esperienze di leggi regionali come quella
in Toscana per la coltura industriale della canapa possono essere sviluppate
anche in Campania dove è necessario sostituire colture non più produttive e non
sostenibili.
Per poter andare bene avanti e capire la propria
prospettiva, analogamente alle persone, i diversi territori della Regione
devono guardare indietro, alla loro storia, alle loro tradizioni, al complesso
delle loro vocazioni specifiche. Questo, non certo per tornare indietro, ma per
ritrovare la loro identità e fondare i processi di sviluppo su questi forti,
ancora per poco, valori. Non è solo una operazione di tipo culturale (che
impone peraltro uno specifico lavoro culturale), ma è soprattutto la
possibilità di far crescere e sviluppare economicamente e socialmente, in modo
omogeneo e congruo, ciò che è stato, in termini moderni ed integrati.
Non c’è un’unica ricetta per l’intera Regione
Campania. Essa è composta da tante diversità che devono diventare il punto di
forza per i processi di sviluppo che non possono prescindere dalla crescita
culturale, sociale e civile delle diverse popolazioni presenti nelle aree omogenee.
La Regione Campania deve mettere l’identità al primo
posto perché riavvicina l’Ente ad una dimensione che deve essere recuperata: la
gente che abita un territorio, una comunità di persone, uomini e donne, che con
il territorio che abitano hanno un rapporto di scambio creativo.
Si possono tesorizzare le esperienze nate
dal basso e che, ancorché non tutte riconosciute istituzionalmente, possono
frenare la spinta alla crescente richiesta di “nuove” province (Unione dei Comuni,
Patti territoriali, Agenzie di sviluppo locale, Piani Integrati Territoriali,
Piani Integrati in aree rurali, Piani sociali di zona). L’attenzione che
bisognerà mettere su questo versante (per facilitare nuove aggregazioni e/o
assumere come riferimento quelle già realizzate) è di dare vita ad ambiti
territoriali che siano coerenti con le diverse politiche sviluppate e da
sviluppare (politiche sanitarie, scolastiche, di sviluppo locale, sociali
ecc..).
Ogni anno sono decine di migliaia i morti e feriti
sulle nostre strade. La casistica ci dice che dipendono moltissimo dal
comportamento umano, abbastanza dalle condizioni di sicurezza dei veicoli, in
misura ridotta dalle condizioni delle strade. E’ opinione diffusa, invece, che
non esiste una sola causa (l’imprecisione è dovuta alla inevitabile
semplificazione delle statistiche), ma esistono le cosiddette concause. In
questo il fattore inadeguatezza delle strade è decisivo. E, in ogni caso, anche
se fosse vera la scala di priorità, pensare che anche una sola vita umana può
dipendere dalla inefficienza degli Enti pubblici proprietari delle strade
impone a questi ultimi un salto di qualità nella gestione delle strade stesse:
Una
delle opzioni fondamentali per costruire una Regione forte è e resta la lotta
alla camorra nella sua accezione di organizzazione malavitosa e nell’accezione
dei mille quotidiani comportamenti camorristici cui la gente perbene è
costretta a subire. E’ una delle battaglie più importanti per vincere la sfida
dello sviluppo del nostro territorio.
Bisogna
lavorare:
I giovani sono una categoria particolarmente a rischio,
non solo per la mancanza di lavoro che rimane la priorità assoluta, ma anche e
soprattutto per la mancanza di riferimenti culturali. Le agenzie formative
tradizionali (famiglia, scuola ecc..) affannano e non riescono a costruire
nuove scale di valori. Anche dal punto di vista politico c’è poca attenzione e
comunque scarsa considerazione. Partendo dalla rete Informagiovani bisognerà
sviluppare un vero e proprio “Progetto giovani”, sfruttando in positivo ciò che
in moltissime realtà istituzionali è stato già fatto.
In questo quadro diventa assolutamente non
rinviabile il problema degli spazi sociali e di aggregazione giovanile. Il
fenomeno dei centri sociali occupati e autogestiti pone all’attenzione della
politica, non solo la mancanza di spazi fisici dove il mondo associativo possa
sviluppare le proprie iniziative, ma anche la necessità di esprimere istanze
culturali e sociali “altre”, che non rispondano alle culture (sarebbe meglio
dire in alcuni casi non culture) dominanti che fanno riferimento solo al “mercato”
(televisione spazzatura, circuito distributivo cinematografico che veicola solo
films di cassetta, informazione sempre più ossequiosa alle “veline”). I giovani
non sempre possono permettersi di pagare cinema, teatro, musica, e soprattutto
non vogliono subire programmazioni che non condividono e sono, nei fatti,
“normalizzanti”. Hanno bisogno di spazi dove autorganizzarsi, dove possono
programmare loro gli spettacoli, le feste, dove non sia la nuova piazza
costruita intorno ai centri commerciali il luogo del loro incontro e
dell’inevitale “consumo”. Il patrimonio pubblico (comunale, provinciale e
regionale), troppo spesso abbandonato, il più delle volte venduto, in nome
delle compatibilità economiche, per fare caserme o peggio ancora a speculatori
che dovranno costruire altri vani, altre case, molto spesso brutte case, deve
essere utilizzato per questi scopi, per costruire o meglio far costruire nuovi
modelli di socialità.
Il Presidente Regionale dei Verdi della Campania
Alberto
Patruno
Responsabile Regionale del Programma
Enzo
Falco