Don Milani è stato definito «un prete senza eredi»: ma forse qualche erede “improprio” c’è, debitore, sia pure alla lontana, della sua battaglia a fianco dei poveri. Sono quei preti che hanno a che fare con l’emarginazione, rispondendo ad essa con le comunità: specialmente contro la droga.
C’è in questi esempi attuali una stessa “ribellione”: ad una organizzazione della Chiesa conformista, ufficiale, interessata ad usare solo una porzione di tempo disponibile per fare il bene. Invece sia in don Milani che in questi preti c’è una sorta di misticismo e di pragmatismo uniti insieme. Essi propongono non vie alternative, come fu il dissenso cattolico, o “vie di classe” per lottare contro l’emarginazione: ma esperienze “totali”. “Totale” era infatti la concezione della scuola per i figli dei poveri di don Milani; totale è la concezione delle comunità contro la droga per favorire il reinserimento. In entrambe le esperienze, quella di ieri e quella di oggi, non risolto appare il problema con il resto della comunità ecclesiale: anche se don Milani appare fortemente conflittuale con la Chiesa e i cattolici del suo tempo, mentre oggi, forse anche in base alla sua esperienza, c’è più spazio per opere come quelle delle comunità contro l’emarginazione. Anche perché i cattolici hanno contribuito a laicizzare Stato e società italiana. Calato negli umori e nei contrasti del suo tempo – dove arriva solo alla fine della sua esperienza umana la luce del Concilio Vaticano II – don Milani è suscitatore di contrasti forti: sia
quando indica i ritardi della Chiesa, sia quando bolla l’uso della cultura da parte dei ricchi, sia quando si schiera con gli obiettori di coscienza. È una di quelle figure che non costruiscono strade nuove: semmai sono come l’aratro che travolge gli ostacoli e rende possibile la semina. Don Milani è la deflagrazione del binomio «chiarezza e verità». Così imposta il suo catechismo per i ragazzi, così la sua scuola. Gettati nelle coscienze, questi due principi non generano subito soluzioni, aprono varie possibilità: e in don Milani l’obiettivo di rendere possibile ai poveri, ai contadini, ai figli degli operai pari opportunità con gli altri è quasi una ossessione. È una grande lezione di fede nella giustizia, nell’equità. «La dottrina comunista è senza amore», ha detto una volta il prete di Barbiana In questo senso in don Milani già si avverte la fragilità dei miti ideologici. Ma proprio la durezza alla san Paolo con cui propone le sue idee non gli crea amore intorno. Rispetto, attenzione, sì: ma in un certo senso c’è sempre una distanza fra lui e gli altri (gli “altri” cattolici, gli “altri” comunisti, gli “altri” preti). Eppure proprio lui - che alla fine dei suoi giorni scrive ai ragazzi di Barbiana «ho voluto più bene a voi che a Dio (ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze) » - ci fornisce una lettura suggestiva dell’obbedienza cristiana e della penetrazione del messaggio cristiano: anche se sarà poi assai poco sentita negli anni ‘70, allorché fu Camillo Torres, il prete sudamericano, a divenire un mito.
In don Milani l’obbedienza è un tracciato difficile: è però l’atto primo ed ultimo all’interno del quale il singolo, le comunità, spingono la Chiesa a fare i conti con se stessa, con i suoi limiti, con la sua profezia da annunciare secondo la sensibilità delle diverse stagioni storiche. È qui probabilmente il punto di incontro tra don Milani e la conquista di una laicità più matura da parte di quei cattolici italiani che si faranno poi carico di collegare insieme la fedeltà indiscussa alla Chiesa, la difesa delle buone ragioni del pluralismo in politica e l’avanzata del movimento operaio nel sociale. In don Milani il rapporto a sinistra, con il Pci in particolare, è nei fatti assai incalzante: «La dottrina comunista è senza amore», ha detto una volta il prete di Barbiana. Anche se è considerato un antesignano della distinzione conciliare tra errore ed errante, questa distinzione gli serve per allargare il terreno di una emancipazione che vedeva in qualche modo frenata dai limiti del dogmatismo marxista. Quando don Milani scandalizza i benpensanti del tempo dialogando con i socialisti, accogliendo i comunisti nella sua chiesa, in realtà con i suoi giudizi relativizza in modo notevole il valore della tradizione ideologica che la sinistra porta con sé. È lui stesso, del resto, che parla del suo sforzo di elevare gli analfabeti e tutti coloro che la scuola respinge o umilia, come di un modo per togliere all’odio fra le classi una gran parte della sua ragion d’essere. Qui c’è la suggestione di quella terza via che nei cattolici si farà più di una volta strada quando si tenterà di affermare nella politica, nel sociale, una presenza “di sinistra” alla pari con le altre tradizioni. Ma don Milani è figura sicuramente affascinante e complessa per altri motivi. Inutile riscoprirne la modernità o lo spirito anticipatore; più importante è evitare di banalizzare la sua esperienza o di datarla alla Lettera alla professoressa. Intanto c’è in lui più di un motivo di interesse. Ad esempio, l’idea del servizio a una causa di solidarietà e di emancipazione è molto forte in don Milani: ma questa idea di servizio è collegata al dovere dell’indirizzo, del comando; servizio e comando divengono tutt’uno nel governo di una situazione, come può essere ad esempio quello di fare scuola sul serio, senza concessioni, con severità sui suoi allievi. Se il luogo, la scuola, è poca cosa, nudo, senza comodità, c’è comunque il rigore ed il polso dell’educatore che si fa sentire. La scuola è quindi già una scommessa di vita: non nel senso dell’arrivismo, del protagonismo individuale, ma nel senso di una prova decisiva per giocare alla pari con gli altri i propri talenti. Questa idea del governo, della responsabilità applicata alle coscienze, è un’altra delle caratteristiche che oggi ritroviamo ad esempio in quei filoni, come il riformismo, dove equità e rigore, solidarietà e necessità di decidere, governo delle cose
e consenso, debbono andare di pari passo. Se don Milani può essere considerato un anticipatore, lo è nel modo con cui si avvicina alla realtà dei poveri. Non lo fa con pietismo, né con una indifferenziata convinzione di solidarietà. No: studia i fenomeni, ed anzi alcune sue indagini appaiono condotte con criteri moderni, molto originali: quelli che avrebbero fatto, decenni più tardi, la fortuna del Censis (il Censis del sommerso, dell’imprenditività e di tutte le altre inchieste sociali sull’Italia che cambia). Anche qui: indagini deideologizzate al massimo, centrate sulla realtà, identificate in esempi originali ma immediatamente efficaci e comprensibili. Don Milani si batte contro le bocciature dei ragazzi più poveri, ma in lui c’è l’antitesi del “voto politico”, della scuola facile come rimedio contro le bocciature Dirà Einaudi a don Milani, dopo aver letto Lettere Pastorali: «Lei ha evidentemente l’occhio per vedere e non solo per curiosare. Chi ha mai, fuor di lei, elevato il letto in congiunzione con il numero delle stanze e delle persone ad indice di affollamento a causa dell’uso successivo del medesimo letto da diverse persone? Per lo più si parla di stanze, di metri quadrati, di tante cose pertinenti o futili». Invece don Milani faceva entrare con serietà nelle sue analisi una realtà tangibile. Don Milani nasce in una famiglia dove la cultura è di casa. Anche se le sue fortune scolastiche sono alterne, è a contatto con la tradizione culturale del suo tempo, che finisce per conoscere bene e conosce bene, anche se ne contesta l’astrattezza: la cultura del seminario. Di qui non nasce il rifiuto della cultura: c’è la critica di una cultura che fa “conservazione”, che produce “diseguaglianza”. Ed anche questa appare una polemica assai moderna: quando don Milani accusa la Chiesa di essere in ritardo sul marxismo, non lo fa per additare il marxismo a terreno di verità, ma per costringere la Chiesa a rendersi conto del mutamento intervenuto, a pareggiare i conti con la realtà che è diversa, nelle grandi città, nelle campagne, nelle coscienze degli uomini. Certo, Civiltà cattolica lo bolla, con padre Perego, perché scambia l’asprezza di don Milani polemista per durezza di cuore. Ma per don Milani accostarsi al dato culturale è un fatto molto impegnativo: don Milani non è l’educatore del facile, dell’ovvio, dello scontato. Semmai è il contrario. Dalla cultura vuole far scaturire verità semplici; dalla scienza, segnali comprensibili. Proprio don Milani parla fra i primi di una scienza amica della religione, «calore di vita»: e dovremo arrivare all’attuale pontificato per vedere con la riabilitazione di Galileo e
con i messaggi di Giovanni Paolo II circa la esigenza di collaborazione tra scienza e umanità, l’approdo di questa concezione. Troppo famoso è il messaggio della scuola di Barbiana per tornarci sopra in dettaglio: la discriminazione di classe, il pericolo dell’analfabetismo di ritorno, il grande rilievo dato alla formazione professionale anche al fine di limitare i margini di intervento assistenzialistico (tema che dovrà essere riaffrontato con la crisi e la ristrutturazione industriale a cavallo degli anni ‘80). Semmai è interessante fermarsi su altri aspetti: quello del tempo pieno, ad esempio. Tempo pieno in una scuola dura che don Milani rende sopportabile perché bandisce la noia, la ripetitività, il nozionismo fine a se stesso. La scuola di don Milani non finisce con l’estate; se un limite c’è, è forse quello di voler mettere le braghe ad ogni argomento; poi in don Milani – al di là della nota volontà di superare lo squilibrio fra il lessico limitato di contadini ed operai e quello dei padroni, dei commercianti, dei giuristi e cosi via – c’è netto il senso di dover assicurare ai giovani un ciclo completo di studi, come adempimento costituzionale. Va notato che l’idea che porta la scuola dell’obbligo fino alla terza media si farà strada solo più tardi e dopo grandi sconvolgimenti. Don Milani si batte contro le bocciature dei ragazzi più poveri: si sente odore dell’anticipo del ‘68; ma a dire il vero in don Milani c’è l’antitesi del cosiddetto “voto politico”, della scuola facile come rimedio contro le bocciature. In lui si pone invece chiaro il problema del “chi è” l’educatore. L’educatore che ha di fronte “persone”, di cui va rivalutata la dignità umana; e famiglie, di cui va rivalutato e difeso il ruolo. Dunque nella scuola di don Milani non ci sono solo i ragazzi che interrogano tutti, che scrivono lettere: ci sono “persone”, ci sono le speranze di famiglie la cui integrità etico-sociale passa anche attraverso il funzionamento della scuola. E questa è ancora una conquista lontana per la nostra società. In don Milani poi troviamo lo schema di uno sperimentalismo, del valore del gesto come simbolo concreto che diviene “metodo” etico di insegnamento nella vita come nella scuola: «Nessuno si fida più di nulla che non sia vissuto prima che detto. Gesù stesso ha molto più vissuto che parlato», ha sostenuto don Milani. E poneva qui un problema di coerenza e di responsabilità. Coerenza e responsabilità in un uomo che è apparso rompere molte regole e molte convenzioni. In realtà ciò che si frantumava era solo un diaframma tra passato e futuro. Don Milani, senza predicarlo troppo, questo diaframma ha provato a superarlo. Chi è venuto dopo di lui forse gli deve essere riconoscente due volte: perché ha trovato la strada libera e perché chi l’ha preceduto non è stato tanto ingombrante da rendergli meno facile il cammino.Don Milani ha bisogno di essere letto con il necessario “distacco” critico: non è più tempo di “santi” eretici; non ve n’è bisogno, e lui non voleva esserlo. Don Milani sta in una tradizione cattolica italiana piena: nel Medioevo probabilmente avrebbe bussato (e con lui gli altri grandi preti, da don Mazzolari a don Zeno e via dicendo) alla porta di san Benedetto, o di san Francesco, o di Bernardo da Chiaravalle. C’è in lui il rifiuto della città di sant’Agostino, insomma. Ma c’è soprattutto la volontà di difendere una grande forza spirituale con le opere, su un terreno che sia in qualche modo terra di nessuno: così Barbiana, e gli altri paesi che l’hanno visto imperversare, sono la sua abbazia. In Pasolini non c’è amore per la figura di don Milani, anche se è quello che ne avverte con grande acutezza la forte “laicità” L’angolo più nascosto della sua personalità è dunque quello che più lo lega alla tradizione: ma qui la responsabilità è di quella Chiesa ufficiale che mal lo ha tollerato e di quei cattolici che male potevano inserirlo nei loro disegni politici, fossero democristiani o cattocomunisti. Resta l’interrogativo, un po’ spietato, di Pier Paolo Pasolini, che recensì Lettere alla Mamma. Barbiana è un caso estremo, dice Pasolini, «l’ultimo caso di vita preistorica rispetto alla seconda rivoluzione industriale»; e aggiunge, riferendosi alla “contestazione” di don Milani: «Non è detto che se la storia fosse continuata così come si poteva prevedere negli anni ‘50 e nei primi anni ‘60, anche i risultati organizzativi di tipo laico, borghese-socialista di don Milani non avrebbero potuto rientrare nella grande tradizione paolina, essere riassorbiti come era destino che venisse riassorbito il papato di Giovanni XXIII che aveva recuperato un secolo di storia liberale e socialista ». In Pasolini non c’é amore per la figura di don Milani, anche se singolarmente è quello che ne avverte con grande acutezza la forte “laicità” dell’impegno. Ma ciò che è più singolare sta nelle conclusioni di Pasolini: malgrado sia discutibile, dice, don Milani «si impone come un personaggio fraterno del nostro universo; figura disperata e consolatrice». Don Milani è figura complessa, e fra l’altro non è una figura che passa automaticamente nel crocevia del dialogo tra comunisti e cattolici, come non può essere inserito semplicisticamente nel cammino compiuto dai cattolici verso il pluralismo. C’entra in tutto, ma resta figura distinta da questi processi. Difficile quindi pensare a eredità, o a inserirlo stabilmente in questo o quel processo. Don Milani è come un prisma: riflette molte luci ma non è luce “esclusiva” e originaria di un cammino definito. |