“Il centro c’è, manca il leader “Pubblicato su “Huffpost” del 5 .10.2020 di Alessandro Barbano

05/10/2020

Il centro c’è, manca il leader

La guida del terzo polo dovrebbe rendere visibile l’offerta liberale. Potrebbe riuscire nell’impresa solo un leader che avesse l’autorevolezza e l’energia per far coincidere il riformismo con un consenso stabile e responsabile, ma anche il disincanto e il distacco necessario per non trarne un dividendo politico personale

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Giorgetti dice: o spostiamo La Lega verso un centro liberale, popolare e europeista, o saremo annientati. Ha ragione nell’intuire che la strada si fa sempre più stretta. Ha ragione nel vedere vana la forsennata e ormai incerta corsa del suo leader, Matteo Salvini, verso un consenso plebiscitario che surroghi la mancanza di una credibile direzione di marcia. Ma davvero è possibile la svolta invocata dal vice bocconiano, coccolato dai palazzi delle Istituzioni come si fa, da sempre, con il più ragionevole degli estremisti? Davvero la Lega può superare, tanto il suo radicalismo etnico-territoriale, quanto i suoi eccessi lessicali e semantici, e ancora il suo corporativismo metodologico, che pesca nella sentina settaria del Paese, per assumere le sembianze, il ruolo e la responsabilità di una forza politica nazionale, di ispirazione liberale e popolarista, e intestarsi la rappresentanza dell’Italia nel futuro che l’aspetta?

Zingaretti e Di Maio dicono, con accenti diversi ma con la stessa ipocrisia che con la mano destra accelera e con la sinistra frena: o imbocchiamo il riformismo o il governo non va avanti. Anche loro hanno ragione. Nella residua consapevolezza, che li sottrae al tatticismo dei tempi, intuiscono il flop. Ma davvero hanno la chiarezza d’intenti, la condivisione, la lealtà, il controllo politico dei rispettivi fronti per cambiare marcia? Davvero l’alleanza incompiuta a sinistra può fare lo scatto trasformativo necessario per rimettere in moto il Paese? Che – è il caso di ricordarlo, a loro e a noi – non significa banalmente spendere i soldi del Recovery Fund, ma rifondare la cultura delle relazioni politiche, riformare le regole delle istituzioni e la macchina dello Stato, infrastrutturare il corpo fisico dell’Italia e la sua proiezione virtuale, riaccendere la vitalità economica e sociale, declinare la sostenibilità, slogan dei tempi, in produttività sostenibile.

La risposta alle domande fin qui poste è “nì”. I due bipolarismi possono entrambi adoperare i ferri di quel trasformismo per metà ambiguo e per metà virtuoso, da sempre nella cassetta degli attrezzi della democrazia italiana. La Lega può riaccreditarsi presso le cancellerie europee, dissimulando quel tratto antiistituzionale, prima ancora che antielitario, che racconta la storica frustrazione delle sue pragmatiche leadership verso un certo umanesimo centromeridionale un tempo egemone, ma visto a Nord Est come il fumo negli occhi. Può travestirsi da partito della nazione, magari indossandone la giacca e lasciando i pantaloni e gli stivali ai suoi ambiziosi Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. Può dissimulare i microinteressi delle sue partite Iva, conciliandole con una politica fiscale meno settaria. Ma quand’anche tutto questo avvenisse, quand’anche una torsione culturale e civile traghettasse verso un nazionalismo moderato un partito già passato dal secessionismo al sovranismo, la Lega sarebbe la forza chiamata dalla storia a sottrarre l’Italia al suo trentennale declino?

Anche il Pd e i Cinquestelle possono ricomporsi attorno alla suggestione che, di fronte alle asimmetrie della globalizzazione e alla crisi aperta dalla pandemia in Occidente, un’antica idea di sinistra ritorni attuale. Possono smussare con il comune paternalismo moralista gli spigoli di un giustizialismo eccessivo, che talvolta li divide, possono conciliare il loro consonante statalismo distributivo con qualche rimedio amministrativo spacciato per riforma, possono dividere la torta della gestione dei fondi europei con una crescente intesa consociativa. Ma, quand’anche ciò avvenisse, quand’anche i conflitti e il braccio di ferro, che in quest’anno di coabitazione hanno reso visibile l’impasse, sfumassero in una convivenza più conciliante, non resterebbe forse chiuso con tre mandate il cassetto del riformismo autentico, di cui l’Italia ha bisogno?

C’è una variabile in cui queste domande si inquadrano. Si chiama interdipendenza europea, e rappresenta la necessità di affrontare tutte le politiche da cui dipende il destino di un Paese su una scala superiore rispetto a quella degli Stati nazionali. Se l’incapacità del governo Conte 1 di capire e di misurarsi con i vincoli sovranazionali è stata la causa del suo isolamento, la nascita del governo Conte 2 è derivata dalla convenienza sistemica di beneficiare delle opportunità e delle risorse dell’interdipendenza, operando al suo interno. Con la pandemia queste opportunità e queste risorse sono cresciute insieme, allo stesso modo con cui è cresciuta la responsabilità di ogni singolo Paese verso l’Europa. Che Giorgetti, Zingaretti e in parte Di Maio intuiscono, ma che nessuno di loro può soddisfare: perché nessuna delle due coalizioni che rappresentano può garantire un consenso maggioritario stabile a una politica di riformismo spinto. Ciò è tanto più vero in un Paese immobile da troppo tempo, che ha sviluppato una resistenza strenua al cambiamento, sostenuta dalla convinzione che gli eventuali vantaggi delle riforme ricadrebbero su generazioni diverse da quelle chiamate a sostenerne i costi. Ma è esattamente il compito di una leadership riformista: portare un gruppo a prendere coscienza delle perdite imposte dal cambiamento, in ragione di un obiettivo ambizioso e condiviso che le giustifichi.

Questa sfida chiama alla responsabilità le migliori espressioni della cultura liberale, popolare e socialista. Non i loro surrogati. E suona come una sveglia per tutte quelle energie presenti in questo spazio politico potenziale, e in parte già reale, ancorché non visibile, che si apre in mezzo ai due poli come un’autostrada sul futuro del Paese. Uno spazio che però nessuno dei partitini personali attualmente sul campo, nessuno dei movimenti nascenti, o già nati e dormienti, nessuno degli aspiranti leader che vengono catapultati dalla fantasia propria e dei loro supporter su un agone immaginario, nessuno di costoro potrebbe da solo rappresentare.

Che questa possibilità esista lo dimostra la duplice tentazione degli stessi poli di presidiarla o piuttosto di impedirla con una legge elettorale proporzionale selettiva. Ma in realtà una soglia di sbarramento al 5 per cento, contro le intenzioni di Zingaretti che la considera non negoziabile, non farebbe che rendere visibile l’agibilità di un terzo polo, incentivando l’aggregazione di forze, energie e intelligenze individuali e collettive che vanno oltre il perimetro degli attuali contenitori. Il problema è vincere la loro divisività, superare la tendenza egolatrica di ridurre la costruzione di una prospettiva politica a una performance televisiva, individuare il lievito che da molti germogli diversi può far nascere una leadership legittimata da una comunità di destino, con cui condivide una visione, e coadiuvata da un quadro dirigente plurale, capace di tradurla in una strategia dell’agire.

Al terzo polo servirebbe un tedoforo, capace di portare la fiaccola dell’alleanza oltre il perimetro delle vecchie appartenenze e di aprire una strada che poi sarà percorsa da altri. Si tratta di rendere visibile l’autenticità di un’offerta liberale, riformista e popolare e allo stesso tempo di sottrarsi alla critica di voler giocare una sfida individuale. Potrebbe riuscire nell’impresa solo un leader che avesse l’autorevolezza e l’energia per far coincidere il riformismo con un consenso stabile e responsabile, ma anche il disincanto e il distacco necessario per non trarne un dividendo politico personale, condividendo il progetto con i suoi alleati e, se necessario, consegnandolo a loro.

La storia dirà se un simile esempio apparirà sulla scena, o se piuttosto la prospettiva di un terzo polo troverà altre forme per canalizzare questa energia montante nel Paese. Che può farsi realtà o piuttosto cronicizzarsi in un’occasione mancata, lasciando il campo libero al surrogato trasformista del bipolarismo.