Le riflessioni di Giovanni Monchiero
Guardando a domani
“I venti di guerra dell’est ci recano ben altre preoccupazioni, ma non sarebbe rispettoso passare sotto silenzio gli interventi del nostro Ministro sul tema del Covid e delle sfide che si lascia dietro la pandemia. Le sue recenti dichiarazioni in Parlamento e le interviste (mi riferisco in specie a quella a Paolo Russo, su “La Stampa”) sono improntate, pur nello stile lodevolmente cauto che lo caratterizza, ad un non del tutto giustificato ottimismo.
Non mi riferisco ovviamente alla pandemia – destinata a lasciarci in primavera e che speriamo non ritorni in autunno – ma allo “sguardo oltre l’emergenza” cui Speranza dedica la maggior parte del suo intervento. Il domani prossimo venturo sarà inevitabilmente caratterizzato dall’attuazione degli interventi previsti dal PNRR che, in sanità, porterà una significativa massa di risorse da destinare ad investimenti, senza un correlato contributo di innovazione organizzativa.
Ritenere che le strutture che si andranno a realizzare, Case ed Ospedali ribattezzati con la coinvolgente specificazione “di Comunità”, possano da sole risolvere tutte le carenze dei servizi “territoriali” tradisce eccesso di fiducia e scarsa vocazione al cambiamento. È come se quarant’anni di Servizio Sanitario Nazionale fossero trascorsi invano al punto da lasciar cadere tutte le intuizioni di una legge molto avanzata che non hanno trovato piena attuazione, senza indurci a chiedere perché.
Parlare della sanità di domani e nemmeno nominare il distretto; applicare alle nuove strutture di comunità il modello “Hub – Spoke”, felicemente impiegato nelle reti ospedaliere ma del tutto inappropriato alle funzioni territoriali; considerare la Sanità Pubblica l’insieme dei luoghi di erogazione dei servizi a gestione diretta; significa ripropone gli errori e le manchevolezze già evidenziate nell’applicazione della 833.
La sanità pubblica non sta nei luoghi di cura – che possono anche essere gestiti da privati – ma nella funzione di tutela del diritto alla salute che si esprime nelle attività di prevenzione della salute collettiva e nella presa in carico del singolo cittadino bisognoso di cure. La 833 riportava tutte le funzioni all’unità sanitaria locale cui venivano affidate le strutture sanitarie preesistenti nel territorio, compresi gli ospedali che pure vantavano una storia plurisecolare, nettamente separata da quella, ben più recente, della sanità pubblica.
Nella 833 l’integrazione ospedale-territorio era istituzionale. La successiva aziendalizzazione e gli eccessi di regionalizzazione conseguenti alla modifica del titolo V, l’hanno riportata al livello di integrazione “funzionale”, che vera integrazione non è. Per tacere delle relazioni fra sanità e servizi socio-assistenziali: anche qui, la sempre auspicata integrazione” funzionale” non ha mai funzionato davvero.
Ci sarebbe molto da aggiungere ed ogni argomento meriterebbe un trattato, non un articoletto. Concluderei con una osservazione generale. L’errore più grande che si può commettere nell’organizzare un servizio pubblico è di modellarlo sulla visione e sulle aspettative di coloro che vi lavorano. Ce lo dimostra quanto accaduto dopo la scelta politica dell’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale, visionaria e fortemente innovativa, progressivamente depotenziata da tante piccole modifiche senza respiro.
Se non si cambia (non richiamo il Gattopardo ma La Palice), se non si incide sulla logica organizzativa del sistema, è molto probabile che tutto resti come prima.”
25 febbraio 2022 Giovanni Monchiero
Il senno di prima
“Quel che mai avrebbe dovuto accadere è accaduto. La Russia ha deciso di occupare l’Ucraina scatenando una guerra vera, impiegando il suo smisurato esercito, bombardando le città. Gli ucraini non si sono arresi come avvenne nel 2014 con l’occupazione della Crimea. I morti si conteranno a migliaia, i profughi già sono milioni.
Il rischio di un conflitto nucleare non è mai stato così vicino dai tempi della crisi di Cuba e dello scontro Kennedy-Kruscev. Ce li siamo dimenticati quegli anni, quando in America e in qualche paese europeo molti si costruivano il rifugio antiatomico familiare e letteratura, canzoni e cinema evocavano l’apocalisse. Bisognerebbe proiettare “Il dottor Stranamore” nelle scuole e magari in Parlamento. È un capolavoro del grottesco, intelligente, divertente, terribile.
Nei decenni successivi il rischio atomico è stato progressivamente rimosso. Le guerre del nostro tempo, grandi e piccole, brevi o lunghe, hanno sempre mantenuto un profilo locale, insufficiente a scatenare un confronto fra le due superpotenze nucleari. Ci voleva l’aggressività di Putin, volta a far coincidere i confini della Russia con quelli della disciolta Unione Sovietica, per riportare la guerra al limite orientale dell’Europa.
Confidiamo che lo scontro atomico verrà evitato ancora. Assistere alla fine del mondo sarebbe un’esperienza unica, dalla quale, tuttavia, preferiremmo essere esentati.
In attesa della ricomposizione del conflitto, riemergono dal recente passato le attestazioni di amicizia e stima rivolte a Putin da molti leader nostrani che di volta in volta lo osannarono come “il più grande statista del mondo”, “un sincero liberale”, “una persona gentile”, “un vero amico”.
Salvini – cui si deve il memorabile “tenetevi pure la Merkel, io mi prendo Putin”- abbracciando l’europeismo più solido ha spiegato che, oggi, sono tutti capaci a parlar male di Putin: con il senno di poi…
Certo, è sempre possibile sbagliare un giudizio: dipende da che metro si usa. Suppongo che nella sfarzosa quiete di Villa Certosa, pasteggiando ad aragoste e champagne, in compagnia di stimate professioniste, Vladimir Putin si mostrasse più che cortese con il munifico ospite. Il fatto è che, non molto tempo prima, nell’autunno del 2006, era stata assassinata a Mosca una giornalista “scomoda”, Anna Politovskaja, che aveva il torto di raccontare gli orrori della repressione in Cecenia. Una sorta di “caso Matteotti”, del quale però Putin rinnegò la paternità.
Questa soluzione dovette sembrargli un accesso di debolezza. Poche settimane dopo, ritenendo necessario eliminare un ex agente segreto rifugiatosi a Londra, non si peritò, come si usa, di simulare un incidente o una morte naturale. Alexander Litvinenko venne avvelenato con un isotopo del Plutonio, sostanza che non si trova in commercio. Putin volle dire a Scotland Yard e al mondo: non perdete tempo ad indagare, l’ho proprio fatto uccidere io, a casa vostra, per far capire a tutti di che pasta sono fatto. Tanta protervia non bastò ad illuminare i suoi estimatori né a dissuadere il nostro Presidente del Consiglio dall’ospitarlo, principescamente, a villa Certosa.
Da allora Putin è cresciuto in potere e in arroganza. La sistematica repressione del dissenso lo indusse ad avvelenare addirittura il capo dell’opposizione, Alexander Navalny, utilizzando un gas nervino reperibile solo nei laboratori della guerra batteriologica. Anche in questo caso, qui da noi, qualcuno continuò a preferirlo alla Merkel che si era offerta di accogliere Novalny in un ospedale tedesco, salvandogli la vita.
Non ci voleva il senno di poi per capire chi fosse Vladimir Putin, eppure, in modo davvero improvvido, l’Europa si fidò di lui sino al punto di costruire le condizioni di una pesante dipendenza dal gas russo. È difficile imporre sanzioni economiche a chi, senza scomodare l’atomica, potrebbe chiuderci i rubinetti.
La vicenda impone il ripensamento di un solido luogo comune sulla politica. Chi governa ha il diritto (per Machiavelli, il dovere) di essere falso, ladro, violento, assassino: la politica non è assoggettabile a giudizi etici. Non la penso così. Bisogna tornare a valutare le persone per quello che sono perché, nel perseguire i propri interessi, ognuno agisce secondo il proprio carattere e i propri principi.
Giudicare gli uomini dalle loro azioni, non secondo le nostre contingenti convenienze, forse non basterà a cambiare il mondo, ma ci aiuterà almeno a capire quel che succede.”
Giovanni Monchiero