Le Riflessioni di Giovanni Monchiero del mese di Gennaio e Febbraio 2024
Anno nuovo, sanità nuova ?
Per la sanità, l’anno nuovo porta buone notizie. Lunedì 8 gennaio, il Corriere della Sera apre con un
articolo di fondo di Sabino Cassese dedicato alla “Sanità ammalata”. Dopo una sommaria ma
precisa analisi della situazione, conclude auspicando “qualche radicale riforma e una buona
manutenzione” del servizio sanitario nazionale, rese però improbabili da una classe politica “cui
riesce molto difficile fermarsi e riflettere”.
L’intervento autorevolissimo – sia per l’autore sia per la testata – faceva seguito a una precisa
sollecitazione di Sergio Harari, apparsa qualche giorno prima, sempre sul Corriere, in quella che un
tempo si chiamava la “terza pagina” e che oggi potremmo definire come il luogo delle opinioni.
Harari sosteneva che alla sanità italiana serve un “grande progetto, come accadde 45 anni fa”, tesi
cara a me e alla nostra rivista, che ha dedicato al tema il numero di giugno.
Fa parte delle buone notizie anche il pronto intervento di Sergio Dompè che, sul medesimo
quotidiano, si è soffermato sui benefici che deriverebbero al sistema da una “competizione virtuosa”
fra pubblico e privato. La partecipazione al dibattito è in sé molto positiva, ma vorrei tornare al
tema di fondo che è la necessità di una vera riforma.
Poiché sto andando per citazioni, aggiungo un passo della prefazione dell’ultimo rapporto Oasi.
Elio Borgonovi (maestro di una generazione di manager della sanità) e Amelia Compagni dopo aver
lamentato l’inerzia della politica concludono, amaramente, che “nemmeno la cosiddetta società
civile, né la maggior parte degli esperti si confrontano sul problema reale, quello di un
ripensamento profondo del SSN dopo 45 anni dalla sua istituzione”.
Questo è il punto, la pietra ferma dalla quale non dobbiamo farci smuovere dalle molte, pur positive
e condivisibili, proposte di settore che vengono quotidianamente alla luce sulla spinta di carenze
contingenti. E, subito dopo, chiederci perché non si riesca a tradurre in un movimento di massa,
almeno all’interno del mondo della sanità, questa istanza che oggi è di pochi.
Il primo ostacolo è l’insensibilità della politica che non riesce a sottrarsi alle esigenze della
propaganda per elaborare una visione d’insieme. Il secondo sono i mille corporativismi che
dilaniano il mondo dei professionisti della sanità: ognuno è favorevole alle riforme perché non
incidano sulle consolidate abitudini e, talvolta, sui piccoli privilegi correlati alla sua posizione.
Ce n’è poi un terzo, tipico della pubblica amministrazione e, forse, dell’intero paese: l’inerzia
nell’assunzione di responsabilità. Tra le molte brutte notizie che affollano quotidiani e telegiornali,
sarà sfuggita ai più quella che può sembrare piccola cosa e che vorrei invece riprendere come
esempio generale di passività di fronte agli eventi.
Venezia, il giorno dell’Epifania, è stata invasa dall’acqua alta. Non così alta da far intervenire il
Mose, ma sufficiente ad allagare San Marco, il punto più basso della città. Per proteggere la basilica
dall’acqua marina, dannosa per il pavimento e i preziosi mosaici del nartece, è stata recentemente
eretta una barriera in acciaio e vetroresina (al costo, leggo, di 5 milioni di euro, notizia nella notizia)
che presenta dei varchi, per l’accesso di turisti e fedeli, da chiudere in caso di necessità. Il giorno
era festivo, le paratie non sono state chiuse e l’acqua è penetrata nel portico della chiesa. A cose
fatte, è iniziato lo scaricabarile fra le varie autorità coinvolte e si viene a sapere che, dopo la
realizzazione dell’opera, non si è individuato chi dovesse gestirla. Sino ad oggi avevano provveduto
gli operai della ditta esecutrice dei lavori che però, nel giorno festivo, erano a casa. Molti si
chiederanno: che c’entra con la sanità? Nulla con il servizio sanitario, molto con l’anima del paese.
Una seria ipotesi di riforma imporrà di rifondare il sistema, produrre una visione d’insieme e
tradurla in norme organizzative e gestionali atte a motivare il personale ad una costante assunzione
di responsabilità. Sotto questo profilo il mondo della sanità è, storicamente, più virtuoso del resto
della pubblica amministrazione, ma non mancano segnali di inversione di tendenza, coerenti con il
progressivo degrado della nostra società.
Il servizio sanitario non va migliorato, va ripensato. Dal primo passo, la presa in carico dell’utente
da accompagnare in tutto il percorso di cura, dall’accesso alle terapie più sofisticate all’assistenza
nella quotidianità. Ad ogni accesso il paziente dovrà incontrare una struttura, una equipe, un singolo
operatore competente e compreso nelle proprie responsabilità. Ci vuole il chirurgo super
specializzato, il medico e l’infermiere capaci di costruire relazioni, chi tenga agende e contatti, chi
amministri, ed anche chi si preoccupi – perdonatemi il facile accostamento – di aprire e chiudere
porte.
19 gennaio 2024
Andrà tutto bene
Viaggio di ritorno dalla presentazione del 19° Rapporto di CREA Sanità. L’evento ha visto grande
partecipazione di pubblico altamente qualificato, nella prestigiosa sede del CNEL. Indubbiamente
un successo. Ma l’analisi dei dati, sempre puntuale e con letture originali e profonde, ha lasciato in
tutti una forte preoccupazione.
Del resto, sin dal titolo, il rapporto pone l’attenzione sul futuro incerto del Servizio Sanitario
Nazionale. Troppi dati concorrono ad alimentare i timori di chi lo considera irrinunciabile elemento
di equità e di coesione sociale: l’involuzione demografica, l’incremento della spesa privata; il
ridimensionamento di quella pubblica, conseguente alla limitata crescita del PIL; le difficolta di
accesso alle prestazioni pur garantite dai Lea; le improponibili liste d’attesa per la diagnostica; la
disaffezione degli utenti e degli stessi operatori.
Da questi cupi pensieri mi distoglie un titolo del Corriere: “Servizio Sanitario, niente pessimismo”.
L’autorevolezza della testata e dell’autrice dell’articolo, docente universitaria e parlamentare,
aprono la mente al dubbio: dove abbiamo sbagliato? Cosa ci sfugge della realtà sanitaria italiana
che osserviamo con crescente preoccupazione?
L’assunto ottimistico, decisamente controcorrente, si fonda su una duplice considerazione: la
ricerca scientifica troverà modi sempre più efficaci di curare le malattie, i nuovi stili di vita
sapranno prevenire molte cronicità e scongiurare le disabilità correlate. Il progresso scientifico e
quello sociale ridurranno la malattia e, di conseguenza, i costi del servizio sanitario.
L’idea esposta con entusiasmo non è nuovissima. Ricordo che una ventina di anni fa, in quel di
Cernobbio, un ministro, tra i migliori in lungotevere Ripa, disse che la prevenzione ci avrebbe fatto
risparmiare 50 miliardi. C’era già l’euro. La stima sarebbe risultata ottimistica anche espressa in
lire.
Da quando mi occupo di sanità, scienza e tecnologia applicate alla medicina hanno fatto passi da
gigante. Viviamo più a lungo e in migliori condizioni di salute, ma la spesa sanitaria è passata dai
730 € pro-capite del 1990 ai 2260 del 2022. I dati si riferiscono alla spesa pubblica, triplicata;
quella privata è cresciuta anche di più.
Non si tratta di una anomalia italiana, tutt’altro. In questo lungo periodo la stagnazione economica
ha costretto tutti i governi a contenere la spesa sanitaria fino a portarla ad un inquietante 45% in
meno della media europea. Eppure, pur essendo i più poveri fra i ricchi, spendiamo in sanità il
triplo di trent’anni fa.
L’esperienza ci dice che il progresso scientifico ha salvato molte vite, migliorato gli esiti di tutte le
patologie, garantito agli infermi una qualità di vita un tempo inimmaginabile, ma non ha
contribuito alla sostenibilità economica del servizio sanitario. Oso formulare due ipotesi di
interpretazione. I nuovi farmaci e le nuove tecnologie sono più efficaci dei precedenti, ma quasi
sempre più costosi. L’unico dato epidemiologico certo è che si muore tutti, una volta sola, ed il
periodo della malattia che conduce alla morte è quello in cui si consumano più risorse. Pertanto,
una diminuzione dei costi complessivi dalla sanità non pare, onestamente, prevedibile.
L’ottimismo ha molti meriti, aiuta a vivere meglio le difficoltà, favorisce la serenità del singolo e dei
rapporti sociali. La gente preferisce sentirsi proporre buone notizie piuttosto che presagi di
sventura, ma la ricerca degli elementi positivi di una situazione non basta a garantire l’esito.
Ricordate, nei primi mesi del Covid, gli slanci collettivi verso i sanitari “eroi”, le lenzuolate di
“andrà tutto bene” esposte sulle facciate dei palazzi, la diffusa convinzione che, dalla prova,
saremmo usciti migliori?
Non è andata così. Possiamo dire che ce la siamo cavata a stento. A fine epidemia ci siamo ritrovati
con una percentuale di morti fra le più alte dell’occidente, medici e infermieri dimenticati – in
qualche folle iniziativa giudiziaria addirittura perseguiti – e sempre più demotivati,
un’organizzazione sanitaria in ulteriore sofferenza.
Per tornare al presente, rimettere in sesto il servizio sanitario sarà molto difficile. Ma occorre guardare in faccia la realtà, non abbandonarsi all’illusione.
26 gennaio 2024
Nei secoli fedele
Una novantaquattrenne che sfila in una manifestazione di piazza ispira immediata simpatia, non
foss’altro che per il buon auspicio offerto a noi anziani (classificazione della società di Geriatria) da
tanta vitalità. Ma tra chi, in occasione del Giorno della Memoria, ritiene giusto protestare contro
Israele e il rappresentante delle forze dell’ordine chiamato a contenere eventuali eccessi, sto con il
secondo.
O meglio, stavo. Fino a quando è venuto fuori, su giornali e social, il dialogo fra la vegliarda e un
carabiniere. Ma lei non sa quel che ha detto Mattarella? – domanda, provocatoriamente, la grande
vecchia (sempre secondo i geriatri). Riceve, con tono garbato, questa risposta: Con tutto il rispetto,
signora, non è il mio Presidente. Non l’ho votato, non l’ho scelto e non lo riconosco.
Il carabiniere in questione non è una recluta, è un Maresciallo Capo di 54 anni, sopra la cui
scrivania campeggia, siatene certi, il ritratto ufficiale di Sergio Mattarella, Presidente della
Repubblica che rappresenta lo Stato, in Italia e all’estero, per tutti a prescindere dalle loro
convinzioni politiche. Quelle del nostro maresciallo le abbiamo sentite tante volte in bocca a
sovranisti e aspiranti riformatori della Costituzione. Evidentemente hanno fatto breccia nel cuore di
molti. Anche di chi, nell’esercizio delle proprie funzioni, non le potrebbe esternare.
Nei secoli fedele è il motto dell’Arma dei Carabinieri che l’ha sempre onorato sin dalla sua
istituzione. Vittorio Emanuele I, Re di Sardegna reintegrato nei suoi poteri dal Congresso di Vienna,
ricostituì il corpo di polizia sciolto ai tempi dell’occupazione napoleonica ribattezzandolo
“Carabinieri del Re”. Formula solenne, per indicare che non si trattava di sbirri ma di autorevoli
rappresentanti del potere statale. E quando il suo trisnipote decise di far arrestare Mussolini lo
ordinò ai Carabinieri di cui era certo di potersi fidare. Nel 1946 l’Italia ha ripudiato la monarchia e
da allora è il Presidente della Repubblica a rappresentare lo Stato cui i carabinieri hanno giurato
fedeltà.
Naturalmente il nostro maresciallo si è accorto di averla fatta grossa e, si è affrettato a chiedere
scusa. Mi sono ritrovato a dire una frase stupida e non pensata veramente – ha dichiarato, secondo
i costumi del tempo,
Molto più coerente un altro celeberrimo irrispettoso, Pietro Aretino. Nella libera Venesia del ‘500,
ottenne un enorme successo sfruttando la diffusione della stampa con una oceanica produzione di
libelli di circostanza. Pur di non essere aggrediti dalla sua penna arguta e tagliente, nobili e ricchi
mercanti preferivano comprarne la benevolenza. Un formidabile influencer dell’epoca, che Tiziano
ritrasse in vesti sfarzose come si conveniva a una persona di potere.
L’Aretino scrisse per sé stesso uno straordinario epitaffio: Qui giace l’Aretin, poeta tosco/ disse
male di ognun fuorché di Cristo/ scusandosi col dir: non lo conosco.
Parole destinate a suscitare scandalo. Eppure, l’autore era uomo di mondo, avvezzo ad ogni eccesso.
Pensate se l’avesse detto un frate domenicano.
2 febbraio 2024