Due momenti divesi per un problema unico.Riflessioni di Autunno di Giovanni Monchiero

Il giudizio del popolo

Giovanni  Monchiero

Sono fermamente convinto che la regionalizzazione totale della sanità, avvenuta ai primi del secolo
con la riforma del Titolo V della Costituzione, sia stata una sciagura. Nel sostenere questa tesi, cito
sempre il comportamento delle amministrazioni regionali al tempo del Covid. Ogni Presidente, ogni
Assessore – talvolta neppure nascondendo disparità di vedute – ritenne di inventare autonome
misure di contenimento del contagio. Una politica di prevenzione uniforme su tutto il territorio
nazionale si affermò solo con il governo Draghi. Era trascorso un anno.
Si è insediata, mercoledì scorso, la commissione parlamentare d’inchiesta sulla pandemia.
Preannunciata in campagna elettorale, è stata istituita tra vivaci contrasti. Singolare che
dall’indagine siano escluse le regioni e che quindi la Commissione sia abilitata solo a sindacare
l’azione del governo, in particolare del Ministro Speranza, titolare della Salute sia nel Conte II che
nel successivo governo Draghi. Senza eccedere in dietrologia, è evidente che la maggioranza
attuale non vuole mettere in difficoltà le regioni del Nord – su tutte la Lombardia, la più colpita dal
virus – rette da amministrazioni di centro destra. Così funziona, dalla notte dei tempi, la giustizia
politica.
Ci sono voluti millenni di preistoria per costruire delle regole vincolanti per i membri della
comunità. Ma anche all’interno di società organizzate, la formulazione delle leggi e la loro concreta
applicazione furono quasi sempre subordinate all’arbitrio del sovrano e dei suoi fiduciari. Solo
dopo secoli di civiltà sorsero, con alterne fortune, istituzioni finalizzate a limitare il potere del re o
delle oligarchie che reggevano la cosa pubblica. La separazione teorica dei poteri è conquista
recente, così come l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Lo stato democratico ha poco più
di due secoli ed è oggi prerogativa di una minoranza della popolazione del pianeta. E anche tra
questi fortunati non sempre gode dell’attaccamento che merita.
Mentre il Parlamento, per l’ennesima volta, cedeva alla tentazione di ergersi a giudice, per di più
ignorando le prerogative che si suole riconoscere all’opposizione, il tema della giustizia – quella
ordinaria – e dei suoi rapporti con il potere politico tornava rumorosamente alla ribalta. Il
patteggiamento da parte di Toti e il processo palermitano a carico di Salvini hanno riaperto lo
scontro magistratura-politica. La definizione stessa fa trapelare l’orientamento di chi ne parla. Gli
esponenti della destra mettono prima la magistratura, sottintendendo che sono i giudici a fare la
guerra agli eletti; quelli di sinistra invertono i termini del dualismo, lasciando intendere che sono i
politici a combattere contro i magistrati per limitarne l’autonomia.
Senza entrare negli specifici elementi processuali, coglierei dalle discussioni molto accese di questi
giorni i due elementi fondamentali: una generalizzata sfiducia nella giustizia e la convinzione che
l’esercizio del potere debba trovare nuove forme di tutela dai rigori della legge.
Ben noti sono i limiti del nostro sistema giurisdizionale: processi lentissimi, preceduti da gogna
mediatica; atteggiamenti inquisitori, con arresti facili; carcerazione preventiva utilizzata per
estorcere confessioni; un profluvio di esternazioni degli inquirenti, spesso lontane dalla pur
necessaria prudenza. Il magistrato non solo deve essere giusto, tale deve anche apparire. Problemi
antichi, mai risolti. La ventilata separazione delle carriere sarebbe un rimedio peggiore del male: è
certamene preferibile – specie se innocenti – essere indagati da un magistrato indipendente che da
un’autorità soggetta al potere politico.

L’altro tema è ancora più importante. Fin dal sorgere delle prime assemblee di nobili e notabili, nate
nel medioevo per limitare le pretese fiscali dei sovrani, si è affermato il principio che il membro del
parlamento dovesse godere di una particolare forma di immunità a garanzia del libero esercizio
della funzione. Negli ultimi decenni del secolo scorso, nell’opinione pubblica, scossa dagli scandali,
si impose un clima di sfiducia nei confronti della politica che indusse i parlamenti a limitare i
preesistenti istituti di tutela. Da qualche tempo questa tendenza si è invertita. Non che sia rifiorita la
fiducia, ma si sta diffondendo l’idea che l’elezione procuri una sorta di stato di grazia che pone
l’eletto al di sopra della legge.
Lo affermò, da primo Ministro, Silvio Berlusconi, senza grandi riscontri. Ma nelle nostre società
occidentali divise, in politica, come non mai e prive di un solido corpo di principi condivisi, la
volontà della maggioranza sta diventando l’unico, mutevole, punto di riferimento. Al di fuori e,
quindi, al di sopra della legge. La Corte Suprema degli Stati Uniti, in una recente sentenza, sembra
avere fatto propria questa visione.
Se altre corti la seguissero sarebbe la fine della democrazia. Che non è il potere assoluto del popolo,
né dei suoi eletti, ma l’insieme delle regole attraverso cui il potere si esercita.

Trasparenze

Esperienza di vita vissuta. Prenotazione di una visita presso il poliambulatorio dell’Asl del mio
piccolo comune, in quella che, ai tempi delle Usl, era sede distretto. Oggi c’è un distretto ogni
100.000 abitanti, la struttura ha cambiato nome ma è sempre funzionale, accogliente, come e più di
allora. In paese ci conosciamo tutti: la cordiale impiegata è figlia di un vecchio amico. Rapida
consultazione del Cup regionale e, con assoluta naturalezza, mi propone una visita a undici mesi.
Non mi stupisco, non mi irrito, non protesto. Ricambio la cordialità e rinuncio. Era già tutto
previsto, da entrambi. Ci si saluta in amicizia. Io mi rivolgerò ad un ambulatorio privato, lei
continuerà a non trovare nel presente e a proporre soluzioni nel futuro.
Che questa sia la regola del Servizio Sanitario Nazionale lo conferma l’intervista ad una dipendente
del Cup regionale, apparsa qualche giorno dopo su un autorevole quotidiano. Alla ventilata apertura
domenicale del Call Center dove lavora, l’intervistata si limita a far presente che il problema non è
la capacità di prenotare ma la disponibilità di caselle nel calendario: “Sa che non ho a mente
l’ultima volta che sono riuscita a prenotare una visita dermatologica? Sono mesi che è
impossibile”. I dermatologi, si sa, scarseggiano, ma in generale – aggiunge – solo il 30% delle
chiamate degli utenti va a buon fine.
Intanto la Regione ha costituito un pool di cervelli per applicare al Cup l’intelligenza artificiale, in
modo da mettere l’utente nella condizione di colloquiare direttamente con la procedura, superando
l’obsoleto contatto con il call center. Soluzione estranea al problema. La moltiplicazione dei pani e
dei pesci è, ad oggi, ambito di competenza del soprannaturale, precluso alle tecnologie umane,
ancorché raffinatissime.
Tra gli uomini, diffidenti e micragnosi, c’è sempre chi invoca trasparenza e chi getta la colpa sulla
libera professione. La politica reagisce minacciando la riduzione dei tempi dedicabili
all’intramoenia, e la riconduzione all’interno degli spazi delle aziende sanitarie. L’istituto è
certamente migliorabile ma, prima di fare disastri, sarebbe necessario ricordare che gli stipendi dei
medici italiani sono molto inferiori a quelli dei colleghi dei paesi Europei più evoluti. Nel D.lgs.
229, si legge che la libera professione è finalizzata a ridurre le liste d’attesa. Ridicolo. Lo scopo
vero è di consentire ai medici più bravi – o almeno ritenuti tali – di guadagnare di più. Insomma,
per abolire l’intramoenia, lo stato dovrebbe metter mano al portafoglio.
In una manchette accanto all’intervista, si riferisce la valutazione di un noto centro di ricerca che
giudica poco trasparente la comunicazione delle liste d’attesa. Lapalissiano. I tempi che
intercorrono fra prenotazione e prestazione, quali risultano dai Cup regionali, si riferiscono a quanti
hanno accettato non a chi vi ha rinunciato!
Un problema di trasparenza si poneva quando la disponibilità era a venti giorni, ma, per gli amici, si
poteva fare anche domani. Con i tempi di oggi, è tutto chiarissimo. Secondo una ricerca effettuata
in Lombardia e Piemonte sulle ricette bianche, solo la metà viene evasa nel pubblico o nel privato
convenzionato. Negli altri casi si va a pagamento o si rinuncia.
Per ragioni mai del tutto chiarite, il SSN è uscito molto male dal Covid. La prima ad essere
sacrificata fu, come ovvio, l’attività ambulatoriale che però ha molto faticato a recuperare i volumi
precedenti. Risultato: i ritardi si sono sommati ai ritardi fino alla situazione in atto. Occorrerebbe
una radicale riorganizzazione, non migliorie nella comunicazione.
Torniamo all’intervista. Alla domanda, inevitabile, sulle reazioni degli utenti delusi, l’operatrice
risponde che la gente “capisce la nostra posizione” ma ha perso fiducia nel sistema, specialmente i

malati cronici, frequentatori assidui. Di fronte all’indisponibilità o a date lontane, molti
commentano “E’ tutto finito, non esiste più nulla della sanità pubblica”.
Più chiaro di così…

27 settembre 2024