Riflessioni del mese di Giovanni Monchiero:novembre 2024

Parole sul confine

Al recente congresso della Sihta, Alessandro Bonsignore, presidente dell’Ordine dei Medici di
Genova, ha esposto un caso di colpevole superficialità nell’informare una paziente sulle sue reali
condizioni di salute e ha concluso che la legge 219 del 2017, nella prassi ospedaliera, è stata
praticamente ignorata. Difficile dargli torto. In situazioni di minore gravità, per ottenere il
“consenso informato”, al paziente viene richiesto, magari da un amministrativo, di sottoscrivere un
foglio redatto con la logica del “bugiardino” incluso nelle confezioni dei farmaci. Vi sono elencate
tutte le complicanze possibili, alcune con esiti tragici. Il malcapitato, fatti i debiti scongiuri, si affida
alla speranza.
La legge (che il consenso informato ce l’ha nel titolo) prescrive tutt’altro comportamento ed è frutto
di decenni di dibattito sulla necessità, per una medicina sempre più tecnologica, di recuperare il
rapporto di relazione umana con il paziente. Amaro constatare che dalla costruzione dell’alleanza
medico-paziente, indispensabile per gestire i casi più complessi, ci si sia ridotti ad un frettoloso
adempimento burocratico.
Capita sovente che le nostre leggi cadano in desuetudine. Ce ne sono troppe, anche contraddittorie.
Ma la 219 è una legge breve, che non si sovrappone ad altre e tocca argomenti sensibili con
semplicità e chiarezza. Meritava sorte migliore. Cadute nel dimenticatoio anche le D.A.T.
(disposizioni anticipate di trattamento) cui pure era dedicata l’altra metà del titolo e buona parte del
testo.
In quegli anni, il tema del testamento biologico aveva infiammato il dibattito etico-politico.
Favorevoli e contrari ritenevano che si trattasse di un espediente per portare il discorso sul fine vita
e, quindi, sull’argomento estremamente divisivo dell’eutanasia. Dopo la regolamentazione, delle
DAT non se n’è più saputo nulla. In compenso nella legislazione è rimasta, sotto mentite spoglie,
proprio l’innominabile eutanasia.
La dimenticata 219, infatti, dopo aver teorizzato l’alleanza medico-paziente ribadisce il diritto alla
rinuncia alle cure – esplicitamente previsto nel dettato costituzionale – opponibile alle scelte del
medico in qualunque momento del percorso terapeutico prestabilito e condiviso. Per evitare
equivoci, la legge comprende tra le terapie anche l’alimentazione e l’idratazione artificiale. In
conseguenza della sua autonoma decisione, è molto probabile che le condizioni del paziente
peggiorino. Dovere del medico è di suggerire un percorso alternativo, proporre cure palliative e, in
estremo, accelerare il cammino verso l’inevitabile praticando la sedazione profonda. E garantire
così all’assistito una buona morte: l’eutanasia, appunto.
La legge venne approvata in parlamento da una ampia maggioranza, ma senza particolari
entusiasmi. Tutti sentivano di avere rinunciato in parte alle proprie convinzioni. A svilire una
soluzione, al tempo stesso razionale e rivoluzionaria, intervenne, pochi mesi dopo, la Corte
costituzionale che invitò il parlamento a colmare le lacune della 219 e a intervenire sulla vigente
legislazione in materia di istigazione ed aiuto al suicidio. Da allora fra un passo avanti e mezzo
indietro della giurisprudenza e l’inerzia del parlamento, si è creato uno stallo che non contribuisce a
chiarire la confusione di termini fra eutanasia e suicidio assistito. La stessa Corte li accomuna,
mentre si tratta di situazioni ben diverse.
La “buona morte” è quella che i sanitari devono offrire a chi sta per morire e questa chiamiamola,
correttamente, eutanasia. Il suicidio assistito è invece la conclusione della vita richiesta da chi vuole

morire ma non è in condizioni di salute tali che basti la rinuncia alle cure in atto per portarlo
rapidamente alla fine. Quando si discute di fine vita, occorrerebbe separare le due situazioni.
L’idea del suicidio garantito dallo Stato a richiesta dell’interessato è una soluzione che presenta
delle controindicazioni. La sua regolamentazione spezzerebbe il principio dell’obbligo del prendersi
cura e trasferirebbe, di fatto, la decisione su chi delle cure necessita. Pensiamo alle persone non del
tutto autosufficienti all’interno di una casa di riposo. La circostanza che un ospite abbia scelto
autonomamente di andarsene scarica su tutti il timore di essere di peso: rette costose, difficoltà
economiche, figli che a stento riescono a badare alla propria famiglia. In questi contesti, il diritto al
suicidio potrebbe essere vissuto da molti come un obbligo morale di togliere il disturbo.
Mi fermo qui. L’argomento non si presta a soluzioni banali. Richiede riflessioni profonde e
condivise. Siamo su un terreno di confine. Per capirci dobbiamo pesare le parole.

22 Novembre 2024

L’unione fa la forza

“Rai, strappo fra alleati” è il titolo di maggior rilievo – quattro colonne a centro pagina – del
Corriere di ieri. Mentre la vera notizia era la faticosa nascita della seconda Commissione Von der
Leyen, sostenuta dalla più eterogenea e striminzita maggioranza della storia dell’Europa unita.
Altri quotidiani hanno fatto anche peggio. La Repubblica apre a tutta pagina: ”La maggioranza
spaccata”. Così come La Nazione, Il Giorno e il Resto del Carlino accomunati nel titolo ”Il taglio
del canone Rai spacca il governo”. Spazio quasi identico dedica all’evento La Stampa: “Il governo
sbanda, l’ira di Meloni”. Unico quotidiano ad anteporre la politica europea ai dispettucci di casa
nostra è stato il Messaggero che apre con” Ursula, partenza in salita”.
Il varo del nuovo “governo” dell’Europa è pur sempre una buona notizia, dal momento che sino a
pochi giorni fa non era neppure certo che esistesse ancora una maggioranza. Il Ppe mostrava
insofferenza per la candidata spagnola, la socialista Teresa Ribera Rodriguez, ritenuta troppo di
sinistra; specularmente, socialisti e verdi si dichiaravano contrari a Raffaele Fitto, troppo a destra.
Giudizio relativo non tanto alla persona quanto al partito in cui milita, che, a luglio, aveva votato
contro la conferma della Von der Leyen. Ci sono voluti quattro mesi di difficili trattative per
formare la commissione che ha ottenuto, comunque, un numero di voti inferiore a quello della
presidente.
Brutto segno. In una Europa impoverita dalla lunga crisi economica; minacciata, a Est,
dall’espansionismo della Russia e a Sud dalle migrazioni dall’Africa e dai paesi poveri dell’Asia;
trascurata dal tradizionale alleato d’oltre oceano, che imporrà dazi alle nostre esportazioni ed
esigerà una maggiore compartecipazione alle spese per la difesa; in questa Europa – e l’elenco delle
difficoltà potrebbe essere più ampio – ci si attenderebbe dai rappresentanti politici consapevolezza e
coesione adeguate alla gravità del momento.
Non è così. L’Europa politica è più divisa di quella reale. Ai narcisismi personali si sono aggiunte le
spinte centrifughe dei risorti nazionalismi, gli eccessi verbali dei troppi populismi, e, da ultimo, il
crescente successo di sinceri antidemocratici, nostalgici di Hitler e di Stalin che si riconoscono in
Putin. La Commissione sopravviverà per forza d’inerzia, sostenuta da maggioranze occasionali, in
assenza di autentico spirito unitario.
Le baruffe romane appartengono, invece, all’eterna commedia all’italiana. Il Governo Meloni avrà
vita meno contrastata di quello della Von del Leyen. Tutt’al più ricorrerà ad un rimpasto, invocato
da Forza Italia in nome del riequilibrio di incarichi ministeriali con la Lega. L’attuale livello dei
ministri fa ben sperare: non avremo di peggio.
Il canone Rai è stata l’ultima occasione per sfogare tensioni mai celate. Salvini in costante ricerca di
visibilità, propone un emendamento improvvidamente accolto dal governo. La sinistra vota contro e
altrettanto fa Forza Italia, non per amore della Rai “melonizzata” ma per impedire a Salvini di
raccattare briciole di consenso destinate a non arrivare a sera.
Episodio irrilevante se La lega non avesse immediatamente ripagato l’alleato con la stessa moneta
su un emendamento che riguarda la sanità in Calabria. Su richiesta del Presidente-Commissario, un
paio di parlamentari amici propongono uno scudo penale a favore dei manager delle ASL Calabresi
ai quali la Regione chiede, invano, di approvare i consuntivi pregressi: l’azienda di Reggio, la più
inadempiente, è ferma a quello del 2012. L’inerzia dei Direttori Generali nel mettere mano a bilanci
gestiti dai predecessori nasce dal timore, non infondato, di incappare in qualche inchiesta della

magistratura contabile o ordinaria. L’opposizione insorge e la lega ne approfitta per dare uno
schiaffone al presidente Occhiuto che, di Forza Italia, è vicesegretario.
Al di là della querelle politica, la sanità rappresenta un marker della divisione del paese. Dispiace
doverlo sottolineare, ma nessuna regione del Nord consente alle proprie aziende sanitarie di non
approvare il bilancio. È una questione ambientale.
Proprio ieri, al Forum sul Risk Management di Arezzo, il Ministro Schillaci ha annunciato il
risultato di una indagine svolta da Agenas sulle aziende Ospedaliere italiane: al primo posto, il
“Santa Croce e Carle“ di Cuneo. Francamente, credo che, in sanità, non sia più tempo di
benchmarking. Avremmo dovuto farlo negli anni dell’aziendalizzazione, questa è l’ora delle
riforme. Ma, da cuneese, festeggio.
Ed aggiungo che, anche in questo caso, è una questione ambientale. Per consolidata tradizione, gli
enti pubblici della nostra provincia, a cominciare dai comuni e dalle aziende sanitarie, sono molto
più performanti di quelli del resto del Piemonte. Analoga considerazione si può fare per altre realtà
provinciali del Nord, più efficienti delle rispettive metropoli di riferimento.
Sopravvivono, in questi luoghi periferici, virtù antiche: laboriosità, rispetto delle regole, fiducia
nelle istituzioni, senso di appartenenza, ricerca del bene comune.
Se non fosse parola desueta, potremmo persino chiamarla unione.

29 novembre 2024