Soluzioni semplici .Giovanni Monchiero

Come un fiume carsico, di tanto in tanto emerge dal sottosuolo del Servizio Sanitario Nazionale il
problema dei medici di famiglia. L’insufficienza di vocazioni ne fa diminuire il numero ed è
difficile per le Asl colmare i vuoti, a partire dalle zone più periferiche e disagiate.
Come altre figure ereditate dall’organizzazione precedente (su tutte, gli specialisti ambulatoriali) i
MMG hanno mantenuto lo status di liberi professionisti convenzionati, senza dubbio anomalo nel
contesto di un servizio pubblico. È, quindi, abbastanza naturale porsi il problema di ricondurli,
progressivamente e con tutte le cautele del caso, alla condizione giuridica di dipendenti a tempo
pieno. Il governo ci sta pensando. Nel frattempo, alcuni parlamentari di un partito della
maggioranza hanno presentato una proposta di legge che interviene sull’orario e sui luoghi di lavoro
(materie oggi disciplinate per via contrattuale) lasciando sostanzialmente inalterato lo stato
giuridico.
La dialettica politica è una ricchezza della democrazia, ma la prima cosa che insegnano nelle scuole
di management è che non esistono soluzioni semplici a problemi complessi. E nulla, all’interno
della pubblica amministrazione, è più complesso del SSN.
La complessità del tutto ci spinge a diffidare di soluzioni parziali e a propugnare la necessità di una
vera riforma che cambi quel che c’è da cambiare alla luce di una visione d’insieme. Nel caso di
specie, ad esempio, il problema è l’organizzazione della medicina di base, a mio parere obsoleta. La
domanda da porre, dunque, diventa questa: al SSN serve un Medico di Medicina Generale che –
magari in gruppo, anziché in solitaria – continui a fare quello che fa adesso? Se si risponde sì, ha
senso occuparsi dei dettagli. Se si propende per il no, occorre produrre una proposta alternativa,
ampia, di sistema.
All’interno della sanità pubblica le criticità si moltiplicano e si aggravano. Tutti i “rapporti”
presentati da vari centri di ricerca (compreso, ovviamente, quello di Crea Santà della settimana
scorsa) concordano nell’evidenziare deficit di risposta di fronte a molti bisogni, dalla cronicità alla
diagnostica, dalla chirurgia minore all’assistenza psichiatrica. Su tutti, il problema delle liste
d’attesa.
Il Decreto-legge emanato a giugno non ha prodotto gli effetti sperati, anche perché dei sei decreti
ministeriali di attuazione, sino ad oggi, ne è stato adottato solo uno. Ma era l’impianto stesso del
provvedimento – ispirato a una logica di controlli centralizzati – a suscitare perplessità, purtroppo
confermate dai fatti. Di fronte al malcontento dell’opinione pubblica, qualche amministrazione
regionale si è spinta sino a minacciare il blocco della libera professione dei medici ospedalieri.
Soluzione formalmente illegale, poiché si tratta di prestazioni effettuate fuori dall’orario di servizio,
disciplinate da specifica norma.
L’idea – carsica anch’essa – che le liste d’attesa vengano artificiosamente gonfiate per favorire
l’esercizio della libera professione non trova riscontro nella realtà. Comportamenti di questo genere
sarebbero facili da individuare e da perseguire penalmente. Lasciarlo credere serve, però, a
individuare un capro espiatorio. Quando la biologia non esisteva e la medicina era un’arte da
praticoni senza base scientifica, di fronte alla peste si accusavano gli untori. Senza effetto alcuno
sull’epidemia.

La libera professione dei medici esiste da sempre. Non fu la “legge Bindi” a introdurla nel sistema.
Se mai, cercò di regolamentarla. Dopo venticinque anni, la si potrà certo migliorare, ma tenendo
conto di due questioni fondamentali: l’aspetto economico e la volontà dei pazienti.
I ricavi della libera professione rappresentano – ripeto, da sempre – la prospettiva dei medici
migliori. Una sorta di “premio di produzione” direttamente proporzionale alla fama del
professionista. Questa molla economica, con oneri a carico dei privati, consente al sistema di
mantenere basse le retribuzioni. Abolire la libera professione vuol dire, per il SSN, mettere mano al
portafoglio. Soluzione in teoria possibile, anche se, di questi tempi, abbastanza improbabile.
Ma c’è l’altro aspetto, che non compare nel dibattito: il desiderio di molti di volere dirimere al più
presto i dubbi sul proprio stato di salute e, ancora più forte, la volontà dell’ammalato di farsi seguire
dal medico più famoso o in cui ha personale fiducia, almeno per un “secondo parere” o una
impostazione generale delle cure. Qualunque prospettiva di cambiamento parziale o di riforma
complessiva del sistema non può ignorare questo dato di realtà.
Si tratta, come si diceva all’inizio, di questioni complesse. E qui mi soccorre una celebre massima
di Arthur Bloch: I problemi più complessi hanno soluzioni semplici, facili da capire, e sbagliate.