Riflessioni di fine mese.Giovanni Monchiero
Liste di contesa
Che la Lega proponga soluzioni distanti dalla linea del Governo accade tutti i giorni e non fa più
notizia. Stravolta, però, non si tratta della politica estera ma della Sanità. Per la nostra rivista – e
questa rubrica – occuparsene diventa un dovere.
Il capogruppo alla Camera, on. Molinari, piemontese, presenta un documento con una serie di
interventi per migliorare il SSN, in dieci punti, un decalogo. La prima proposta è un’autentica
deflagrazione: superare la legge Bindi e incentivare la libera professione, anche per il personale non
medico. Esattamente l’opposto della logica seguita dal Governo nel famoso decreto-legge sulle liste
d’attesa di cui più volte abbiamo messo in dubbio l’impostazione e l’efficacia.
Quasi in contemporanea, il Ministro Schillaci ha inviato una dura lettera alle regioni contestando
loro l’inerzia nell’applicare il decreto. Palleggiamento di responsabilità. Qualche giorno prima, la
Conferenza Stato Regioni – presieduta da un esponente della Lega – aveva lamentato le lentezze
dell’azione governativa. E via risalendo.
La disputa se sia nato prima l’uovo o la gallina non è certamente il punto della questione. Che è ben
più profondo ed investe soluzioni organizzative frutto di differenti visioni. Da un lato, privilegiare
norme e controlli, dall’altro aumentare gli spazi di libertà e incoraggiare l’iniziativa dei singoli.
L’argomento è complesso. L’idea che la lunghezza delle liste d’attesa sia correlata all’esercizio della
libera professione è certamente sbagliata, ma non appare neppure probabile che allentare i vincoli
basti a risolvere il problema. Non per niente, insistiamo sulla necessità di una vera riforma.
Aggiungo che la lunghezza delle liste d’attesa era un problema quando si misurava a settimane.
Oggi, che si tratta di mesi e di anni, non rappresenta più una criticità del sistema. Per l’ideale di un
Servizio sanitario equo e universale sembra, piuttosto, un certificato di morte.
Nella citata lettera del Ministro c’è un dettaglio che la dice lunga sulla scarsa attitudine della nostra
burocrazia a guardare in faccia la realtà. Dopo aver richiamato le regioni ai loro doveri (rimprovero
già duro da digerire) il testo propone l’esempio positivo del Lazio: per le Regioni del Nord
(ricordate “Roma Ladrona?”) un vero ceffone.
Il dato che attesterebbe la virtuosità della regione della capitale è la riduzione della durata media
della lista d’attesa, passata dai 42 giorni del 2023 ai soli 9 giorni nel 2025. Roba da non credere. E
non è un modo di dire.
Sarebbe interessante sapere, per tutti coloro che in sanità ci lavorano o che dall’esterno la studiano,
come sia stato raggiunto questo risultato, in radicale contraddizione con quanto vanno ripetendo
centri di ricerca accademici, think tank indipendenti, organizzazioni di pazienti e di cittadini,
stakeholder di ogni genere e persino l’Istat, secondo il quale, l’anno scorso, quattro milioni e mezzo
di cittadini hanno rinunciato alle cure. Scoraggiati da una attesa di nove giorni?
Temo di avere risolto l’enigma, partendo da un caso personale. Ho prenotato, contemporaneamente,
esami di laboratorio, effettuati il giorno dopo, e una visita specialistica fissata ad undici mesi. La
prima ricetta comprendeva 26 esami. Sommando i 26 giorni d’attesa di queste prestazioni ai 346
dell’altra, sono 372 giorni di attesa per 27 prestazioni, con una media di 13 giorni.
Alba non è virtuosa come Roma, ma ci possiamo accontentare.
28 marzo 2025
La caduta delle élite
L’aveva detto e l’ha fatto. Donald Trump ha deciso di imporre dazi universali, di entità abnorme,
che ci riportano indietro di secoli, quando il protezionismo era la regola e la libertà dei commerci
subiva restrizioni di ogni sorta. Ogni guerra per essere giusta deve avere un pretesto. Il discorso che
li annuncia al mondo tenta di motivarli come rivalsa ai dazi altrui, ai quali accomuna le norme –
particolarmente severe in casa nostra – poste a tutela della qualità del prodotto e della salute del
consumatore. L’avversione per le regole è un tratto distintivo del populismo di destra, ma non capita
spesso di sentirla proclamare con tanta sfacciataggine.
Raramente noi vecchi moralisti resistiamo alla tentazione di guardare ai fatti sgradevoli della vita
per trarne qualche insegnamento. Quanto più il caso è clamoroso, tanto più si presta alla riflessione.
La prima cosa che mi viene in mente è che quasi sempre, nella storia, le guerre economiche sono
sfociate in guerre vere e proprie, dall’assedio posto di Troia alla Prima guerra mondiale. Non si
catena un conflitto per riportare a casa una moglie fedifraga o per vendicare un arciduca assassinato.
La guerra nasce da profondi contrasti fra popoli vicini, alla radice dei quali gli interessi economici
non mancano mai. La cosa non sembra preoccupare il Presidente americano che, a latere,
conferma l’intenzione di appropriarsi della Groenlandia a mano armata e di annettere il Canada
senza curarsi del consenso dei canadesi. La prepotenza in campo economico esercitata anche nei
confronti dei vecchi alleati, trattati con disprezzo, evidenzia la bellicosa tracotanza del personaggio,
del tutto gratuita e quindi insensibile al negoziato.
E non è neppure detto che il prepotente ne ricavi vantaggio. A chi, giorni fa, gli faceva notare che
l’annuncio dei dazi aveva provocato, ai listini americani, perdite significative, Trump ha risposto:
non c’è da preoccuparsi; si riprenderanno. Dopo l’effettiva applicazione delle misure, le borse sono
crollate e si è levato il coro degli economisti che paventano una recessione globale, disastrosa anche
per gli Stati Uniti, gravati da un pesante debito sovrano finanziato proprio dai paesi che il
protezionismo vorrebbe danneggiare.
E qui ci soccorre il punto di vista – arcinoto – di Carlo M. Cipolla, docente di storia economica con
l’hobby dell’umorismo. Conservo, con devozione, il prezioso volumetto “Allegro, ma non troppo”,
pubblicato nel 1988 dalla casa editrice “Il Mulino”, dedicato alla stupidità. Cito, la “Terza (ed
aurea) Legge Fondamentale: una persona stupida è una persona che causa un danno ad un’altra
persona o gruppo di persone, senza trarne alcun vantaggio per sé o addirittura subendo una
perdita.”
Dall’inizio del nuovo millennio, gli strumenti di comunicazione di massa e in particolare i
cosiddetti “social”, hanno rivoluzionato le relazioni interpersonali e mutato il nostro modo di
articolare i ragionamenti. La diffusione, nel corpo delle democrazie occidentali, di populismi
estremi – prevalentemente di destra, ma con presenze anche a sinistra e tra quanti rifiutano le
vecchie categorie parlamentari – ha promosso una classe politica sostanzialmente inadeguata
(Cipolla utilizzerebbe un altro aggettivo). Questo passaggio epocale è stato salutato da molti
commentatori come la sconfitta delle élite. Una vittoria del popolo. In ultimo, della democrazia.
Nei due secoli precedenti, la conquista e lo sviluppo della democrazia era avvenuto ad opera degli
individui più capaci in ogni attività umana che, grazie al successo personale, avevano acquisito
autorevolezza. Ad essi sembrava logico delegare l’esercizio del potere politico. La nostra
costituzione è stata scritta dalle élite dell’epoca. Anche i partiti che rappresentavano le classi più
umili mandavano in parlamento solo persone di provata capacità e adeguatamente istruite. Oggi non
è più così. Il sapere, in ogni sua declinazione, è visto con sospetto. Il successo economico è l’unico
che raccoglie consenso, specie se acquisito con mezzi oscuri. Uno vale uno, finché arriva un super-
uno che mette tutti a tacere.
Insomma, il tramonto delle élite non mi sembra evento da festeggiare. Anzi, in un mondo di
avventurieri, dilettanti allo sbaraglio e super ricchi avidi di altri soldi e di potere, verrebbe da
invocare un ritorno delle classi dirigenti selezionate per competenze e meriti. Ma dove sono?
Le élite non hanno perso le elezioni. Si sono estinte.
4 aprile 2025