Processo alla scienza.di Giovanni Monchiero
La guerra di Trump alle università americane, troppo liberal, è finita sulle cronache del mondo.
Minacce, sarcasmi e, tanto per cominciare, blocco dei finanziamenti pubblici.
C’è stata anche una iniziativa parallela, meno rumorosa ma altrettanto inquietante, del Procuratore
Generale di Washinton contro alcune riviste mediche – compreso il New England Journal of
Medicine – accusate di “parzialità” ed invitate a far conoscere le politiche editoriali applicate verso
“punti di vista concorrenti”. Come se la divulgazione delle scoperte scientifiche dovesse avvenire
con le regole dei talk-show.
La presenza di Robert Kennedy jr al Ministero della Sanità ci ha riportati alle polemiche contro la
scienza dei tempi del Covid. E, come si sa, negli Stati Uniti la pubblica accusa non è affidata a
giudici ma a funzionari alle dirette dipendenze del governo federale e di quelli dei singoli stati. Gli
effetti della separazione delle carriere, in Italia auspicata.
Non che la nostra magistratura, indipendente, sia inerte. Ma si muove, come vedremo, su un terreno
diverso anche perché l’indagine sulle responsabilità politiche se l’è assunta il Parlamento. Il
migliore augurio che possiamo formulare alla Commissione Bicamerale di inchiesta è che, secondo
tradizione, non approdi a nulla. L’alternativa sarebbe, infatti, la persecuzione degli avversari
politici: pietra tombale sulla democrazia.
La magistratura va alla ricerca di responsabilità penali, applicando un codice che definisce il
concetto di colpa in modo tanto esteso da prestarsi a qualche eccesso. Come accade ai sismologi
processati – in primo grado condannati – per non avere saputo predire il terremoto dell’Aquila.
Per il Covid possiamo individuare due tipologie di impostazione accusatoria. La prima ritiene che le
autorità politiche e gli scienziati che ne ispirarono l’azione abbiano ecceduto in norme restrittive,
arrecando pesanti danni all’economia e privando i cittadini di diritti costituzionalmente garantiti. È
la visione della Commissione parlamentare d’inchiesta, che raccoglie le critiche mosse, al momento
dei fatti, da un gruppo significativo, seppur minoritario, di giuristi, filosofi ed opinionisti e non è
lontana, nella sostanza, dalle posizioni no-vax.
La seconda, cui si ispira l’azione penale, parte dal convincimento che ogni evento avverso abbia
una causa dominabile dalla conoscenza e dalla volontà dell’uomo e che quindi, nel caso di specie, si
potesse e si dovesse fare di più. Due concezioni agli antipodi che confermano dubbi antichi sulla
giustizia umana. E sono entrambe contro la scienza. L’una ne nega i saperi, l’altra pretende che
sappia quel che ancora non sa.
Con il senno di poi, l’indicazione di una famosa circolare di mantenere il paziente a casa, vigilare
sulle sue condizioni e sottoporlo a blande terapie antifebbrili, può apparire un pannicello caldo. Ma
nei primi mesi della pandemia si era di fronte ad un morbo sconosciuto, con gli ospedali in gran
parte destinati a pazienti contagiosi colpiti da una malattia grave e di incerta cura, con i reparti di
terapia intensiva invasi e il personale demoralizzato da percentuali di insuccesso assolutamente
anomale. Furono mesi terribili nei quali, semplicemente, non si sapeva che fare.
Ogni accanimento nei confronti del non-sapere tradisce una concezione magica, molto lontana
dalle basi logiche del sapere scientifico. Socrate, l’uomo che per primo provò a dare sistematicità al
pensiero umano, fondava i suoi ragionamenti sul “so di non sapere”.
Da allora la scienza ha segnato continui progressi, ma ogni singolo passo si è mosso e sempre si
muoverà sul confine fra ciò che riteniamo di sapere e ciò che ci è certamente ignoto. Un luogo
indefinito. Nel quale le invasioni di campo da parte di chi si occupa di giustizia e di politica non
sono ammesse.
9maggio 2025
La bella morte
Da quanto tempo non sentite dire – riferito a qualche personaggio importante o ad un vostro umile
conoscente – che “ha fatto una bella morte”?
Si tratta una locuzione desueta, fondata su valori dimenticati. E poi, la nostra società non ama
parlare della morte, evento ineludibile ma rimosso. Ed anche il lutto viene vissuto frettolosamente.
La partecipazione ai funerali, espressione di pietas verso il defunto e di vicinanza ai suoi familiari,
sopravvive giusto nelle piccole comunità locali, dove tutti si conoscono. Nei grandi agglomerati
urbani il rito funebre riguarda pochi intimi, salvo che si tratti di una celebrità o della vittima di un
fatto di cronaca.
Fatta questa premessa, lasciatemi affermare che quella di Papa Francesco è stata una gran bella
morte. L’età avanzata, la grave malattia, la dimissione dall’ospedale, la partecipazione alla lavanda
dei piedi a “Regina Coeli”, gli incontri informali con i fedeli in San Pietro, la benedizione “Urbi et
Orbi” nel giorno di Pasqua, la morte all’alba del Lunedì dell’Angelo. Credo che per un Papa sia
difficile immaginare una fine migliore.
Tutto quanto avvenuto dopo è cronaca recente. Il funerale al cospetto del mondo: una ritualità che
riporta anche i non credenti ai confini del sacro. L’assemblea universale del conclave, gestita in
forme decantate nei secoli, risolta rapidamente e, secondo consuetudine, con un’elezione a sorpresa.
Le prime parole del nuovo Papa. La vita che riprende i suoi ritmi ordinari.
Il clamore dei media attorno alle vicende vaticane può apparire persino eccessivo nell’occidente
secolarizzato. La fede nell’assoluto è morta ma il papato viene percepito, più di prima, come una
autorità morale in grado di parlare ai popoli della terra.
La vicenda – davvero straordinaria – degli ultimi giorni di Francesco nasce da una decisione molto
umana, che i giornali hanno considerato quasi scontata mentre non lo era affatto. Una decisione che
non può lasciare indifferente il mondo della sanità e che ci interroga sul nostro approccio alla fase
conclusiva della vita.
Quel 23 marzo, il rientro in Vaticano e il saluto al balcone furono interpretati come il primo passo
verso la piena guarigione. A leggere fra le righe, invece, appariva evidente che quel brusco ritorno
alla normalità non era stato consigliato dei medici, che molto insistevano per una convalescenza
tranquilla, così lontana dalla natura del paziente.
Non è irragionevole pensare che, se avesse continuato le terapie in ospedale, oggi Francesco
sarebbe ancora con noi, probabilmente in condizioni di salute anche migliori. Ma di fronte alla
prospettiva di una lunga medicalizzazione, il Papa ha scelto di vivere in pienezza il tempo, breve,
che la riduzione delle cure ancora gli offriva. Decisione esemplare del modo giusto di affrontare la
fine della vita.
Non il rifiuto irrazionale della scienza, non l’affermazione di una volontà individuale che –
attraverso il suicidio di stato – pretende di esorcizzare l’ultimo passo. Ma l’accettazione delle leggi
della natura e delle conquiste dell’uomo. La fiducia nelle cure e nei medici, la rinuncia a
procrastinare l’inevitabile, la ripresa delle relazioni che la malattia aveva limitato.
Certo, al Papa non mancano i care giver, un problema per quasi tutti noi. Ma il morire a casa va
riproposto come soluzione ottimale e il Servizio sanitario dovrebbe renderla, a tutti, fruibile.
16 maggio 2025