Considerazioni “fine maggio inzio giugno “di Giovanni Monchiero
Realtà e rappresentazione
“Convegno della Sihta, la società scientifica che ha il merito di avere introdotto in Italia il
technology assessment. Pensoso gruppo di lavoro sulle procedure di inserimento di nuove
prestazioni nei LEA. Il discorso si allarga, inevitabilmente, sulla necessità di tenerne sotto controllo
l’effettiva erogazione. Qualche solerte funzionario ministeriale richiama il Nuovo Sistema di
Garanzia e si torna al problema di giornata.
Mi astraggo per un momento dalla discussione perché mi pare di ricordare che le informazioni tratte
dallo strumento così pomposamente denominato non fossero particolarmente aderenti alla realtà.
Google consente rapida verifica. L’educazione mi trattiene dal parlarne nel dibattito, ma ora, con
voi, cari amici, credo di poterlo fare.
L’ultimo report del NSG è stato pubblicato un anno fa e si riferisce al 2022. I tempi certificano la
gravosità dell’impegno, i dati suscitano qualche perplessità. Unica regione inadempiente in tutti e
tre i macro-livelli è la Valle d’Aosta, penalizzata dalle dimensioni e da una popolazione molto
sparsa su un territorio impervio. Tutte le altre regioni raggiungono la sufficienza nell’assistenza
ospedaliera: stupefacente. Cinque risultano inadempienti nella prevenzione, quattro nell’assistenza
distrettuale. Il resto dell’Italia è colorato del bel verde che rappresenta la virtù. Un altro mondo.
Le cronache ci parlano di attese interminabili, di spesa privata per molti catastrofica, di crescente
rinuncia alle cure, ma il boato di doglianze che – da Bardonecchia a S. Maria di Leuca, da Predoi a
Lampedusa – assedia il Servizio Sanitario Nazionale non giunge alle orecchie dei tecnici chiamati a
valutarlo. Animati dall’amor di patria e della propria funzione, tendono a darne una descrizione
edulcorata. Improbabile che, per questa via, si rafforzino le spinte al cambiamento.
La notizia del giorno, per quel che riguarda la sanità, è l’astensione dell’Italia all’Assemblea
dell’OMS che ha approvato il nuovo accordo internazionale sulle pandemie. Ci siamo trovati in
compagnia di un manipolo di paesi diffidenti nei confronti di tutto ciò che sa di collaborazione
internazionale. Il virus è mio e me lo gestisco io – questa, più o meno, la declinazione sanitaria del
pensiero sovranista.
C’è chi ha fatto di peggio. Gli Stati Uniti, che ne furono fondatori e munifici sostenitori, dall’OMS
sono usciti subito dopo l’insediamento di Trump alla Casa Bianca e la nomina a Ministro della
Sanità di Robert Kennedy jr, apostolo delle teorie no-vax. Non è un caso. La collaborazione
internazionale che dà vita all’OMS si pone l’obiettivo di condividere le conoscenze scientifiche per
costruire regole comuni a tutela della salute di tutti i cittadini del mondo, ricchi e poveri. I nuovi
populismi mal sopportano l’idea stessa del sapere, odiano le élite che ne sono depositarie e
detestano ogni tipo di regola. Possiamo ragionevolmente temere altre defezioni.
Assorto in cupi pensieri, vengo raggiunto da un SMS che mi annuncia la soppressione del treno
prenotato per il giorno dopo. Incauto programmare viaggi di venerdì, dedicato, nei trasposti, allo
sciopero. Tento invano di trovare una soluzione alternativa e mi rassegno a rinunciare ad un
impegno e a rientrare un giorno prima.
Roma è caotica, tutti i giorni della settimana. Il taxi lo trovi solo se chiamato dall’albergo. Per gli
spostamenti in centro occorrono gambe buone. Riesco comunque ad occupare utilmente il
pomeriggio e a tornare a casa, senza particolari intoppi ma con la solita mezz’ora di ritardo.
A proposito dei ritardi, istruttiva esperienza nel viaggio di andata. Parto con uno dei primi treni del
mattino e noto che l’orario prevede un’ora in più rispetto quello dei treni dal percorso assolutamente
sovrapponibile che viaggiano più tardi.
Ne deduco che, al mattino, la rete dell’Alta Velocità sia già satura (o mal gestita al punto di
provocarne la saturazione, che è lo stesso) e che Trenitalia, per non pagare risarcimenti, sia ricorsa
alla furbata di ampliare i tempi di percorrenza. Il treno giunge a destinazione qualche minuto prima
della prevista ora in più e la voce che informa i passeggeri sugli accadimenti del viaggio annuncia
trionfante: “Stiamo arrivando a Roma Termini, in anticipo”.”
23 maggio 2025
Più leggi per tutti
“Spiare il cellulare del partner costituisce reato e, per la Cassazione, si rischiano dieci anni di
carcere. Il titolo di un Tg nazionale sottrae la mia attenzione dal the mattutino. Il marito geloso che
cercava su whats app conferme ai dubbi sulla fedeltà della consorte non ha incontrato benevolenza
nei giudici della corte suprema. Non c’è circostanza che possa esimere dal rispetto della privacy.
Giusto, anche se questa affermazione meriterebbe un trattato. I signori (nel senso di padroni) del
web sanno tutto di noi, dove siamo andati, a chi abbiamo telefonato, quali fornitori di beni o servizi
abbiamo contattato. E nessuno si sente in dovere di impedirglielo. Ai primi di maggio, per un
imprevisto, mi sono trovato a pranzare in una ridente località tirrenica in cui non ero mai stato
prima. Da allora mi vengono proposti – per fortuna con insistenza decrescente – hotel, ristoranti,
B&B, agriturismi e stabilimenti balneari di quella cittadina o nelle immediate vicinanze. Queste
sistematiche intrusioni nella vita di noi tutti, non turbano il garante della privacy né alcun’altra
autorità costituita.
Tornando al punto. I mariti cornuti suscitano più sberleffi che solidarietà, ma dieci anni a me
sembrano troppi. Verifico. Il dato viene ripetuto, pari pari, anche sul sito di quel telegiornale, ma
altri individuano la pena massima edittale in quattro anni. Che è già una bella botta. Particolare
curioso: in calce alla notizia, si sprecano commenti ironici; nessuno che ipotizzi un errore. Nel
clima di generale inasprimento delle pene, dieci anni per una spiata vengono percepiti come una
sanzione normale.
Del resto, la prima notizia del Tg era stata l’approvazione del cosiddetto “Decreto Sicurezza” che
istituisce 14 nuovi reati e 9 aggravanti a quelli preesistenti. In molti casi si tratta di esasperazioni,
ma ci sono anche risposte a lacune effettive: capita nelle grandi città di vedersi occupare con la
forza l’abitazione di proprietà senza che nessuno ponga rimedio al sopruso.
Qualche critico osserva, però, che, da inizio legislatura, il Parlamento ha definito 62 nuovi reati:
una enormità, in un paese in cui di certo non difettano le leggi, e il problema concreto è quello di
farle rispettare. Stiamo andando verso il “panpenalismo” (la Treccani individua l’origine di questo
neologismo in un articolo di Repubblica di trent’anni fa) che sembra appagare più la vanità del
legislatore che non le affettive esigenze di giustizia.
Tra la legislazione e la prassi si aprono spazi vastissimi. In settimana, il tribunale di Roma ha
assolto gli attivisti di “Ultima Generazione” che avevano imbrattato “la barcaccia” di Piazza di
Spagna (fontana realizzata dai Bernini, padre e figlio) con del carbone vegetale. I giudici hanno
ritenuto che “la tenuità del fatto” esimesse gli autori da responsabilità penali e anche da quella –
civile e prosaica – di rifondere le spese per la pulitura, 4.000 euro, sostenute dal Comune.
Il lassismo della magistratura e il tremendismo della politica, tra incomprensioni e reciproci dispetti,
hanno instaurato un circolo vizioso, il cui primo effetto sono continue correzioni e integrazioni alle
norme penali, che rischiano di precipitare nel caos il sistema sanzionatorio.
In merito al ddl sull’introduzione del reato di femminicidio, si sono pronunciate 80 docenti delle
maggiori università italiane, contrarie alla sua impostazione populistica, utile più per accreditare
l’impegno del legislatore che per offrire risposte efficaci. Non serve – sostengono – un reato nuovo
per punire il femminicidio, servono politiche per prevenirlo.
Non da oggi i giuristi più sensibili si dissociano dalla prassi delle nuove leggi approvate in fretta e
furia per compiacere la pubblica opinione. Nel 2010, Carlo Nordio e Giuliano Pisapia, nel libro
“In Attesa di Giustizia”, scrivevano che “le pene non devono essere aumentate, se mai diminuite” e
che l’dea di “risolvere tutto con il Codice penale è solo propaganda, pericolosa demagogia”.
Suppongo che Pisapia la pensi ancora così. Nordio, invece, fa il Ministro.”
6 giugno 2025