I tre articoli del mese di Novembre inizio Dicembre di Gianni Monchiero
La sanità è mobile
Apro con una citazione. “A pagare il prezzo di un sistema cha non garantisce più il diritto a curarsi
sono soprattutto i cittadini”. Meraviglioso quel “soprattutto”. Chi dovremmo aggiungere?
Si tratta del sottotitolo di un corposo articolo che un dignitoso quotidiano d’opinione di area
progressista dedica al servizio sanitario del Veneto. Si vota tra pochi giorni e attaccare la sanità, per
gli oppositori, è quasi un obbligo. Anche dove funziona. In tutte le recenti valutazioni di
performance dei servizi sanitari regionali, il Veneto si colloca al primo posto. Se non garantisce più
il diritto alla tutela della salute, cosa dobbiamo dire nel resto d’Italia?
Lasciando stare le campagne elettorali – dove la politica dà il peggio di sé – il dibattito permanente
sulla sanità è un vociare assordante, fatto di lamentazioni inutili, ricerca di capri espiatori, dati
ballerini, conti che non tornano, retorica dei diritti, proclamazioni di buone intenzioni e resoconti di
successi mai avvenuti. Ritengo, quindi, di dedicare questa riflessione ad un episodio minore, ma
molto significativo. Il presidente dell’Emilia-Romagna ha lanciato un grido dall’arme sulla
mobilità, immediatamente seguito dal collega della Lombardia: “non possiamo più reggere; la
crescente domanda di ricoveri che viene da altre regioni rende il sistema insostenibile.” Questa
l’essenza dei due interventi che provengono da amministrazioni di diverso colore politico,
accomunate dal saldo attivo della mobilità.
Fino ieri avevamo sentito la campana opposta, quella delle regioni di provenienza dei migranti
sanitari. Per loro le compensazioni della mobilità costituiscono una sottrazione di risorse, una sorta
di estorsione praticata dai ricchi a danno dei poveri. De Luca, paladino del meridione, giunse a
sostenere che le prestazioni effettuate in altre regioni a favore dei cittadini campani non fossero da
remunerare. Rimase inascoltato, ma il tema è sempre all’ordine del giorno. Molti la vivono come
un’ingiustizia, altri come una criticità del sistema. Per un autorevolissimo esponente politico,
cultore della retorica, si tratta di “una sconfitta per la nazione”.
Lasciando stare la nazione, più che di sconfitta occorre parlare di inadempienza da parte di quelle
regioni che offrono servizi di qualità inferiore o come tale percepita. Per le carenze sul territorio ci
si limita al mugugno, per le malattie più gravi si sceglie di farsi curare altrove. Chi si sobbarca
viaggi faticosi ed oneri rilevanti, avrà pure qualche buona ragione. O no?
Propendo per il sì. E mi pare ovvio che il servizio debba essere pagato. Esattamente come avviene
all’interno delle regioni, fra azienda e azienda, e fra le aziende territoriali e quelle ospedaliere: le
prestazioni rese da altri (strutture pubbliche e privati convenzionati) sono addebitate all’azienda
sanitaria di residenza dell’assistito. Quando si tratta di soldi, subito c’è chi si scaglia contro la
“mercificazione della sanità”, dimenticando che la mobilità è applicazione del principio della libertà
di scelta, esplicitamente recepito nella legge istitutiva del SSN.
Le prestazioni effettuate in mobilità extraregionale ammontano a circa 5 miliardi di euro, ma la
maggior parte riguarda i territori di confine e i saldi sono spesso trascurabili. Solo tre regioni,
Emilia, Lombardia e Veneto registrano attivi superiori ai 200 milioni, circa il 2% della loro spesa
sanitaria. Sul versante opposto, il disavanzo record in mobilità appartiene alla Campania con 259
milioni e sono solo sei quelle il cui saldo negativo supera i 100. Stando ai numeri non sembrerebbe
una tragedia nazionale.
Ma la lamentazione è malvezzo diffuso. Serve a coprire i propri errori. Ultimamente è invalsa
l’abitudine di contestare i criteri del riparto del Fondo Sanitario Nazionale che privilegerebbe
anziani e ricchi a danno di giovani e poveri. Poiché tutti (ma proprio tutti) quando parlano dei
problemi della sanità mettono al primo posto l’invecchiamento della popolazione, sarebbe davvero
strano non tenerne conto nel finanziamento. Ma anche qui si tratta differenze quasi irrilevanti.
Fra la regione più vecchia, la Liguria, e la più giovane, la Campania, i criteri di riparto comportano
una differenza di 126 € pro-capite, l’1% della quota. Veneto e Calabria hanno il medesimo
finanziamento pro-capite. Le ragioni delle carenze nei servizi vanno cercate altrove.
Per tornare al tema, lo sfogo di De Pascale e Fontana stravolge le narrazioni consuete. Non solo la
mobilità attiva non è un taglieggiamento, non solo è giusto retribuire le prestazioni, ma l’attuale
sistema di valorizzazione rende dannoso effettuarle. La cattiva abitudine di contenere le tariffe per
ridurre i costi, le ha rese non remunerative e i presunti profittatori minacciano di bloccare le attività
a favore degli utenti di altre regioni.
Di autonomia in autonomia siamo precipitati nell’autarchia. Danneggiati saranno ovviamente i
cittadini. Senza soprattutto.
21 novembre 2025
Via dalla politica
L’emendamento “Biancofiore” ha concluso prematuramente il suo cammino. La Commissione
Bilancio del senato l’ha ritenuto inammissibile “per materia” e la storia finisce qui.
L’idea di stravolgere la legge sulla responsabilità civile dei medici attraverso pochi commi infilati in
manovra dopo un articoletto di rifinanziamento di alcune indennità a favore del personale sanitario,
appariva abbastanza estemporanea. Tuttavia, qualche apprensione tra i medici l’aveva suscitata,
tanto che il ministero si era affrettato a manifestare netta contrarietà.
La legge 24 del 1917, comunemente conosciuta come “legge Gelli”, dal nome del relatore alla
Camera, ebbe un iter particolarmente laborioso. La questione della responsabilità dei medici –
configurata come “contrattuale” da consolidata giurisprudenza – giaceva all’attenzione del
Parlamento da un paio di legislature senza che si fosse riusciti a trovare una quadra. Questione
delicata. Inoltre, i populismi emergenti erano culturalmente contrari ad alleggerire la condizione dei
professionisti sanitari, considerati parte della odiata classe dirigente. Si deve soprattutto alla
determinazione di Federico Gelli se alla fine la legge – molto innovativa in materia definita dalla
giurisprudenza e quindi ritenuta intangibile – venne approvata. Nella denominazione convenzionale
qualcuno associa anche il relatore al senato, Amedeo Bianco. Preferisco non farlo perché la seconda
lettura apportò modifiche marginali ma peggiorative.
Il richiamo alla vicenda, sofferta, dell’approvazione della legge introduce una ovvia domanda: che
cosa ha spinto la senatrice trentina a tentare l’improbabile blitz, immediatamente sconfessato dalla
maggioranza e dal suo stesso gruppo? Malanimo verso i medici? Qualche esperienza di mala sanità
subita da persona vicina? O, come spesso accade in parlamento, semplice voglia di guadagnare un
minuto di visibilità?
Conquistare l’attenzione è necessità primaria della politica, che il mondo “social” ha ulteriormente
esasperato. Da alcune legislature è stato introdotto un sistema di valutazione dell’attività dei
parlamentari direttamente proporzionale al numero di proposte presentate: leggi, mozioni e,
appunto, emendamenti. Incoraggiamento al protagonismo facile che si esercita con atti inutili,
quando non dannosi.
Dicono in molti che questo profluvio di vanità allontana i cittadini dalla politica. Tesi che pare
confermata dall’astensionismo diffuso. Domenica si è votato in tre grandi regioni accomunate nel
destino di dover sostituire leader carismatici costretti al ritiro dalla norma sui due mandati. Vittorie
nette dei successori designati e record di astensioni.
In Puglia trionfo di Decaro, già sindaco di Bari, più di mezzo milione di preferenze alle Europee
dello scorso anno, popolarissimo. Ha votato però solo il 41% degli aventi diritto. Si sa, al Sud gli
elettori sono tradizionalmente pigri. Inquietante il dato del Veneto. Affluenza al 44%, contro il 61%
delle precedenti regionali e il 70% delle politiche del 2022.
Si sprecano le analisi. Inflazionata quella che si fonda sulla prevedibilità del risultato. Solide
maggioranze uscenti e sfidanti poco credibili avrebbero scoraggiato il voto. Magari fosse solo
questo! Nella prima repubblica le percentuali dei votanti si collocarono costantemente al di sopra
dell’80%; progressivamente disceso, nella seconda, sino al 64% delle ultime politiche. Alle
successive competizioni comunali e regionali non sempre ha votato la metà degli elettori, e in
quest’ultima si è raggiunto il peggior risultato di tutti i tempi.
Tra le cause, scontate, dell’astensionismo va inserita la disaffezione da una politica sempre meno
credibile. Come conferma anche lo sciagurato tentativo di abrogare la legge Gelli. Temo però che
l’insipienza dei parlamentari e la diserzione dei cittadini abbiano un’altra matrice: lo scarso
interesse verso il bene comune.
Se gli uni sono mossi solo dalla ricerca del consenso e gli altri ritengono che la cosa pubblica non li
riguardi, la democrazia diventa un inutile orpello e il voto un dovere astratto che si può serenamente trascurare.
28 novembre 2025
Impossibile discutere
Ci sono tanti modi di esprimere solidarietà. Originale quello scelto da Francesca Albanese. Dopo
aver condannato l’irruzione nella redazione de La Stampa, con vandalismi vari e spargimento di
letame, ha aggiunto che “questo deve anche essere un monito ai giornalisti perché tornino a fare il
loro mestiere”.
La relatrice speciale dell’Onu sui territori palestinesi occupati non ha mai brillato per imparzialità.
Stavolta la minaccia, nemmeno velata, ha suscitato rimostranze anche da parte di abituali sostenitori
e particolare imbarazzo nei sindaci che l’avevano proposta per il conferimento della cittadinanza
onoraria. Pratica di per sé penosa, come il moltiplicarsi di lauree “honoris causa” e di premi letterari
in ogni borgo turistico, per tacere di grappoli, castagne, nocciole e frutta varia, rigorosamente d’oro,
dispensate in sagre paesane a personaggi di qualsiasi livello, purché noti. Riconoscimenti
accomunati dall’intenzione di dare lustro al premiante più che al premiato. Che spesso accetta con
degnazione o con insofferenza. Come accadde proprio alla Albanese che umiliò il sindaco di
Reggio Emilia per avere accennato alla liberazione degli ostaggi israeliani mentre le consegnava
l’attestato di cittadinanza.
È talmente abituata a riceverne che di fronte all’interruzione della procedura da parte del Comune di
Firenze, ha reagito tentando la via dell’ironia: “Purché mi sia risparmiato l’esilio perpetuo” – ha
detto, con chiaro riferimento a Dante Alighieri. A questo punto, la disputa si è chiusa.
Discutere sta diventando sempre più difficile. Ogni diversità di opinione subito travalica in
aggressività o umorismo da spirito di rapa, come diceva il mio maestro elementare. I social – nati
con lo scopo dichiarato di favorire la comunicazione – l’hanno ridotta a ringhi da caverna,
annientando ogni possibilità di confronto.
Mi sarebbe piaciuto esprimere qualche perplessità sull’unico argomento che abbia visto concordi le
due donne al potere, premier e leader dell’opposizione: la nuova formulazione dell’art.609 del
Codice penale, già approvata dalla Camera, ora all’esame del Senato. Incentrata sul “consenso
libero e attuale”, mi pare lasci preoccupante spazio al ripensamento postumo. Ma questo è terreno
inagibile per una persona di sesso maschile e di costumi eterosessuali. Si rischia di venire accusati
di maschilismo patriarcale o, peggio, accomunati al protagonista dell’ultima enormità dialettica,
quel Vincenzo D’Anna, già senatore della repubblica, punta di diamante dell’associazione dei
laboratori privati convenzionati, oggi presidente dell’Ordine nazionale dei biologi, ben noto alle
cronache politiche per le sue intemperanze.
Intervenendo sul caso di Valentina Pitzsalis – miracolosamente sopravvissuta al tentativo del marito
di bruciarla viva di cui porta nel corpo e nell’anima segni indelebili – D’Anna ha dichiarato che la
moglie: “c’è a chi piace cruda e a chi cotta”. Di fronte alle ovvie contestazioni, si poi giustificato di
avere voluto interpretare con ironia il punto di vista del marito. Toppa peggiore del buco. La battuta
proprio non fa ridere, sia per la gravità delle sofferenze dalla vittima sia perché trascura la
circostanza che il coniuge violento ha pagato con la vita il suo folle gesto.
Per fortuna la rete dimentica e l’oblio avvolge rapidamente ogni eccesso. Rimane l’amarezza di
vivere un tempo devastato dall’estremismo verbale e dalla semplificazione dialettica. Dopo un
rapido scambio di battute violente o di sarcasmi grevi, si passa ad altro.
Nessuno vuole davvero approfondire, nessuno si mette in posizione di ascolto delle ragioni altrui ed
espone le proprie nel rispetto della logica e della buona creanza. Si saltabecca fra inutili polemiche
e non si discute più di nulla.
5 dicembre 2025