Le ultime considerazioni del mese di giugno di Giovanni Monchiero
In morte del referendum
Che un referendum non raggiunga il quorum dei votanti non fa più notizia: è un’abitudine. E ogni
volta scatta la corsa a mitizzare il significato del voto dei pochi presenti o ad appropriarsi della
rappresentanza dei molti assenti. La banalità della politica.
L’istintiva diffidenza verso la democrazia diretta mi ha sempre indotto a non amare i referendum.
La Costituzione, del resto, ne limita l’impiego alla sola abrogazione delle leggi, questione
risolvibile con un sì o con un no. Tale era il quesito posto dal primo referendum, quello che, nel
lontano 1974, proponeva la cancellazione della legge sul divorzio. La partecipazione fu massiccia
(87,7%) e il risultato netto: poco più del 40% si espresse per l’abrogazione, poco meno del 60% per
il mantenimento della legge.
Altri tempi, altra partecipazione. Nelle successive tornate referendarie si raggiunse agevolmente il
quorum e sempre prevalsero i NO. La prima vittoria del SI si registrò nel 1987, con l’approvazione
simultanea di tre quesiti sull’uso civile dell’energia atomica. Si vietava, addirittura, all’ENI di
partecipare alla costruzione di centrali nucleari all’estero. Per fortuna, non venne proibito l’acquisto
di energia elettrica prodotta dal nucleare altrui: avremmo dovuto spegnere l’amato televisore.
In quella occasione venne accolto con una valanga di sì anche il quesito sulla responsabilità civile
dei giudici. Già allora la magistratura non godeva di grande popolarità. Come sarebbe, quasi
sempre, accaduto in seguito, il quesito venne ritagliato in modo da trasformare le norme vigenti e
costruire una legislazione nuova: prassi molto lontana dalla lettera e dalla “ratio” della Costituzione.
Nel caso di specie, si introduceva un principio pericolosissimo che avrebbe scoraggiato il giudice ad
assumere decisioni potenzialmente pericolose per il suo patrimonio. La legge Vassalli rimediò alla
pessima determinazione degli elettori e trasferì l’onere del risarcimento a carico dello Stato. Non fu
l’unico caso in cui il Parlamento dovette porre rimedio a un esito sciagurato del referendum.
Nell’aprile del 1993 vennero aboliti tre ministeri: Agricoltura, Partecipazioni statali, Turismo e
Spettacolo. Naturalmente il Governo non cessò di occuparsi di queste materie. In qualche caso si
cambiò nome, in altri si trasferirono competenze ad altri dicasteri. Dimostrazione pratica di quanto
l’istituto referendario mal si adatti a surrogare il parlamento sulla via delle riforme.
Nel 1991 mi ritrovai tra i quattro gatti che dissero no alla preferenza unica. Il 96% degli elettori
accolse la proposta con un entusiastico SI. Sembrava un innocuo ghiribizzo di Mario Segni. Si
rivelò – come temevo – il primo vagito della seconda repubblica.
Fu quella l’età dell’oro del referendum. Nel giugno del 1995 ne vennero indetti 12 in un sol colpo.
Non tutti accolti. Ma alcuni di memorabile inconsistenza, come l’abrogazione delle norme che
definivano ente pubblico la RAI. Contrariamente alle ingenue intenzioni dei promotori, non seguì
alcun cambiamento reale. La Rai restò tale e quale a prima, peggiorando, nel tempo, come quasi
tutte le nostre istituzioni.
Dopo la grande abbuffata referendaria iniziò la lunga marcia della disaffezione. Da allora il quorum
è stato raggiunto solo nella tornata del 2011 con due SI per la gestione pubblica degli acquedotti e
uno ancora contro il nucleare.
Seguirono pochi referendum, tutti ignorati dagli elettori. Qualcuno suggerisce di aumentare il
numero delle firme a sostegno delle proposte e di abbassare il quorum dei votanti.
Non mi sembra il caso di tentare di rianimare il defunto. Per come sono andate sino ad oggi le cose,
meglio lasciarlo riposare in pace.
13 giugno 2025
Surrogati di legislazione
Parlando – male – del referendum ho ipotizzato, fra le cause della crescente disaffezione degli
elettori, anche la cattiva abitudine di tentare di modificare o riscrivere le leggi per mezzo di quesiti
arzigogolati e poco comprensibili anziché limitarsi ad abrogarle, in tutto o in parte, come prevede la
norma costituzionale che lo istituisce.
Questa prassi, poco rispettosa della libertà dell’elettore, ha pure l’effetto di ampliare, in modo
surrettizio, i soggetti legittimati alla legislazione attiva, riservata al parlamento. Situazione
abbastanza curiosa in un paese dove tutti lamentano l’eccesso di norme – ne abbiamo dieci volte la
Germania! – che ha stravolto il diritto penale e grava su ogni relazione giuridicamente regolata.
Ma l’istituto del referendum se la passa piuttosto male e questa voglia di modificare le leggi,
sostituendole, di fatto, con altre di diverso tenore, finisce quasi sempre nel nulla. L’appropriazione
indebita del potere legislativo viene, invece, praticata con successo da altri due organi
costituzionali. Il Governo, innanzitutto. Con l’avvento della seconda repubblica, la decretazione
d’urgenza si è trasformata in prassi quotidiana. Complice la progressiva perdita di autorevolezza del
parlamento, umiliato dalla mutazione genetica dei partiti e da leggi elettorali che hanno trasferito ai
leader politici il rapporto fiduciario che legava, un tempo, gli eletti agli elettori. Se ne duole qualche
nostalgico, voce fuori dal coro tra i molti che auspicano un ulteriore accentramento di poteri in capo
all’esecutivo.
Nessuno si lamenta, invece, della progressiva invasione di campo da parte della Corte
Costituzionale che non si limita a decidere sulla legittimità delle norme sottoposte al suo esame ma
si spinge sino a modificarle parzialmente con sentenze che la dottrina chiama “manipolative” o ad
indicare al Parlamento i contenuti delle leggi da adottare per sanare supposte lacune normative.
Mentre, con grande cautela, l’art.87 della Costituzione elenca fra i poteri del Presidente della
Repubblica la facoltà di “inviare messaggi alle Camere”, la Corte si è auto conferita la potestà di
predefinire i contenuti delle leggi e gode del favore dell’opinione pubblica che sollecita il
Parlamento ad adeguarsi. Ne avremo un esempio fra pochi giorni, quando andrà in aula il ddl sul
“fine vita”. La Corte ritiene che la normativa attuale vada integrata con l’introduzione del
cosiddetto “suicidio assistito”. Rinviando ad una prossima puntata ogni accenno alla complessa e
delicata questione di merito, mi limito a contestare gli aspetti formali dell’intervento e la manifesta
subalternità della politica e del Parlamento.
Mi prendo, per contro, la libertà di sorridere, anche nel merito, della recente pronuncia della Corte
sulle “due mamme”, la sentenza n.68/2025, che dichiara l’illegittimità della norma che non consente
la registrazione, allo Stato Civile, di una doppia maternità. Per apprezzare adeguatamente i
contorcimenti logici che stanno alla base della decisione attuale, occorrerebbe ripercorrere i
numerosi interventi in materia, spesso contradditori, ma orientati, sin dal 2017 a tutelare l’interesse
del minore “all’accertamento alla nascita di una genitorialità conforme al progetto antigiuridico
perseguito dagli adulti” e quindi al “riconoscimento in difetto di veridicità”. C’è di mezzo, in questi
casi, anche il “genitore intenzionale” vale a dire quella persona che ha “concorso al progetto
genitoriale senza offrire apporto genetico o biologico”.
Con la sentenzia sulle due mamme, la C.C. sposta la discussione dal dominio del diritto
costituzionale a quello della casistica (bugia giocosa, bugia pietosa, bugia utile ad un bene
superiore…) con la quale, nei secoli, l’etica ha cercato di mitigare il divieto di mentire. Che la
licenza alla “non veridicità” sia estensibile anche agli atti pubblici, tra i padri costituenti non lo
pensava proprio nessuno. In questo caso la Corte non invade il terreno del legislatore. Fa di più,
modifica la Costituzione stessa introducendo un principio lontanissimo dalla lettera e dallo spirito di
quel documento.
La nostra Costituzione non è immutabile, ma le norme che ne disciplinano le modifiche sono
piuttosto rigide. Ogni ramo del Parlamento deve approvare due volte, a distanza minima di tre mesi,
il nuovo testo che, se non suffragato dalla maggioranza dei due terzi, dovrà essere sottoposto a
referendum popolare: basta che lo chiedano 500.000 elettori o un quinto dei componenti di una
Camera.
Percorso piuttosto laborioso. Alla Corte Costituzionale, invece, basta una sentenza.
20 giugno 2025