ITALIA - UNGHERIA
2 - L’ITALIA STRINGE IL PROPRIO LEGAME CON L’UNGHERIA.
Successivamente alla firma dei Protocolli relativi al Trattato d’Amicizia, che rappresentavano il primo momento tangibile del rapporto tra Italia ed Ungheria, i due leader concordavano di realizzare più frequentemente i loro incontri, anche perché il momento politico internazionale vedeva i già citati sintomi di rafforzamento tedeschi nonché i tentativi di pressione di Praga su Vienna al fine di condurre quest’ultima nell’orbita francese. In particolare, nel giugno del 1928, si erano create le condizioni per la realizzazione di un consorzio commerciale italo-ungherese. Il solito solerte Durini di Monza, trasmetteva infatti un promemoria a Mussolini, in cui si riportava quanto l’On. Erodi Harrach Bela, professore di economia nazionale all’Università di Budapest, nonché membro della Camera ungherese, dichiarava, relativamente al miglioramento delle condizioni commerciali tra i due Paesi. « Infatti - era scritto nel promemoria - dovendo attualmente ancora l’Italia importare annualmente circa 20-22 milioni di quintali di frumento, con una riduzione delle nostre tariffe ferroviarie per un dato quantitativo di frumento ungherese, gran parte dell’eccedenza della produzione magiara potrebbe essere assorbita dal nostro Paese senza peggiorare la bilancia commerciale. Essendo poi il piazzamento del frumento di massima importanza per il Governo ungherese, questo sarebbe disposto ad accordare, da parte sua, pure delle facilitazioni per le nostre merci che maggiormente ci interessano»[20]. Il vantaggio essenziale di tali agevolazioni reciproche sarebbe stato quello che, mentre i dazi convenzionali venivano automaticamente estesi a tutte le merci provenienti dai Paesi che godevano della clausola della nazione più favorita, queste avrebbero reso più facile la concorrenza dei prodotti italiani con le merci similari estere. «In pratica, continuava Durini, il Consorzio avrebbe l’intenzione di istituire la sua centrale a Fiume, la sede italiana a Milano e la sede ungherese a Budapest. Vorrebbe inoltre, col tempo, istituendo una filiale anche a Zagabria, sviluppare i rapporti commerciali dell’Italia e dell’Ungheria con la Croazia per ottenere, mediante una penetrazione economica, almeno in parte la disgregazione di questo Paese dal Regno S.C.S.»[21]. In realtà, l’idea di realizzare questo consorzio avrebbe potuto portare un forte sviluppo dei rapporti economici italo-ungheresi, potendo favorire la realizzazione di questo organo commerciale la realizzazione delle intenzioni sia delle autorità statali che degli enti statali, parastatali ed economici. «Tale organo - sempre seguendo il telegramma di Durini - dovrebbe quindi esaminare, trattare o concludere quegli affari, divenuti attualità nell’ambito delle rispettive economie nazionali e che appunto per la loro stessa natura richiedono una organizzazione speciale e più estesa di quella a disposizione delle singole aziende industriali e commerciali»[22]. La caratteristica più interessante di questo Consorzio stava nel fatto che esso non avrebbe dovuto avere finalità politiche, ma eminentemente economico-commerciali, interessandosi dei pedaggi dei trasporti terrestri e marittimi, dei magazzini generali, spese portuali, condizioni di pagamento, finanziamenti. Questa sua natura gli avrebbe concesso di cointeressare quegli ambienti i quali nello stato di cose di quel periodo, intralciavano una più soddisfacente organizzazione del traffico di transito tra l’Italia e l’Ungheria. «Il Consorzio avrebbe lo scopo principale di organizzare in maniera più efficace e soddisfacente i traffici italo-ungheresi. Infatti è noto che il mercato italiano offre vaste possibilità di smercio per la maggior parte dei prodotti agricoli ungheresi come bestiame, cereali, e derivati mentre l’organizzazione attuale del commercio estero ungherese non è tale da tradurre in effetti pratici le possibilità esistenti. Per citare solo un esempio, l’Italia con un’aliquota delle sue importazioni totali potrebbe assorbire tutta l’eccedenza della produzione del frumento ungherese, mentre l’agricoltore ungherese si trova sempre in grandissima difficoltà per piazzare questo suo prodotto.
Il problema è in primo luogo quello dell’organizzazione più perfetta sia del commercio che dei trasporti. Un’intesa fra gli interessati ungheresi e quelli italiani, non esclusi gli ambienti che influiscono sulle tariffe ferroviarie, intesa anche puramente commerciale, ma che potrebbe essere sempre appoggiata dalle autorità governative, renderebbe possibile la soluzione almeno parziale di questi problemi. Quello che si è detto per il frumento vale non solo per gli altri prodotti dell’esportazione ungherese, ma anche per tutti gli articoli dell’esportazione italiana diretta verso l’Ungheria»[23].
Sembrava dunque, almeno in potenza, una buona occasione per stringere più a sé l’Ungheria, per dare un senso concreto al Trattato di collaborazione stipulato l’anno prima e per dare la sensazione reale e tangibile agli ungheresi dell’interessamento italiano (non senza che vi fosse un tornaconto italiano, come è normale che fosse trattandosi di questioni commerciali). Eppure tutto ciò non veniva preso in considerazione. Infatti nel telegramma inviato dal Ministro dell’Economia Nazionale Martelli, Duce, si leggeva che «a questo Ministero sembra che il progetto stesso difficilmente possa essere assecondato per nostra parte specialmente se si tengono presenti le ragioni che hanno già condotto, nei recenti negoziati con l’Ungheria a dichiarare l’impossibilità di consentire le facilitazioni richieste da parte ungherese per facilitare l’importazione nel Regno del grano e del bestiame proveniente dall’Ungheria»[24]. In particolare si adducevano difficoltà nell’estensione dei vantaggi commerciali, goduti dai magiari, anche agli altri Paesi, e difficoltà in ordine alle agevolazioni ferroviarie. Anche il Ministro delle Finanze sollevava incertezze sulla questione «tenuto presente che il progetto si basa essenzialmente su di una politica di accordi in materia di tariffe ferroviarie per il trasporto di merci, nel senso di reciproche riduzioni nei riguardi di determinati prodotti, io non posso che rimettermi al parere del Ministero delle Comunicazioni, il quale, nella sua diretta competenza in materia, potrà giudicare della convenienza e della possibilità di dare affidamenti in tal campo che impegnerebbero in certo modo l’azione dello Stato»[25]. Dunque, tra un reciproco scaricare su altri Ministeri la competenza di questo Consorzio, e per uno scarso interesse a veder concluso positivamente questo affare, l’Italia perdeva una buona occasione per vincolare in modo efficace e chiaro l’Ungheria, rinunciando così anche a piantare un forte paletto per quella che doveva essere la penetrazione economica e politica nella regione danubiano-balcanica.
Tra il dicembre 1927 ed il gennaio 1928, tuttavia, Italia ed Ungheria concludevano una importante convenzione. In particolare, si rimetteva una copia al Ministero degli Esteri, della convenzione firmata da Mussolini e dal rappresentante ungherese Szterenyi in data 10 dicembre 1927 con la quale si regolavano definitivamente tra i due Paesi le seguenti questioni:
1. Palazzo Venezia a Costantinopoli;
2. Dock galleggiante di Pola;
3. Viveri e denaro dell’Istituto Re Carlo;
4. Spese plebiscito Burgenland;
5. Spese delimitazione frontiere ungheresi;
6. Spese rimpatrio prigionieri e internati civili;
7. Spese missione Mombelli.
In un telegramma inviato a Mussolini nonché al Ministero degli Esteri il 22 febbraio 1928, il delegato italiano alla Commissione delle riparazioni scriveva che, dopo le opportune verifiche «la Commissione Regia ungherese aveva già ufficialmente provveduto a notificare al Governo ungherese che essa considerava “obbligazioni del trattato di pace” - e dunque da pagare all’Italia - così come stabilito dal Trianon, sia “le spese per la delimitazione dei confini” (lire carta 10.186), sia le “spese per il rimpatrio dei prigionieri di guerra” (lire oro 2.494.012). Relativamente alla missione Mombelli (lire oro 1.046.721), vi sono delle difficoltà nel far rientrare queste spese sotto il trattato del Trianon. Dovendosi prevedere una pronuncia negativa della Commissione Regia, il Regio Governo italiano potrà richiedere a quello ungherese il pagamento “diretto” del credito a cui il Governo magiaro si è - in tale ipotesi - espressamente ora vincolato»[26]. Il rapporto del delegato italiano alla suddetta Commissione continuava dicendo che «con la convenzione del 10 Dicembre 1927 l’Italia rinuncia alla realizzazione dei suoi due crediti per il pagamento delle spese supportate per il plebiscito di Sopron (Burgenland) e per la restituzione ed il recupero della quota parte ungherese sul valore del dock flottante di Pola; contro rinuncia da parte ungherese, a qualsiasi rimborso per il vettovagliamento e le attività dell’opera Re Carlo, istituita per la villeggiatura dei bambini a Trieste, Abbazia, etc. e contro la cessione e trasferimento all’Italia da parte ungherese di proprietà del palazzo dell’antica Ambasciata austro-ungarica a Costantinopoli»[27]. Relativamente, infine, alle spese sul plebiscito del Burgenland, «non avendo [28] origine nel trattato del Trianon, vanno pagate dal Governo stesso».
Se dunque il 1928 sembrava essere nato sotto favorevoli auspici tra Italia ed Ungheria, e se le concilianti dichiarazioni di Mussolini e Bethlen parevano tranquillizzare le cancellerie di Bucarest, Praga, Belgrado, relativamente allo stato dei rapporti e delle relazioni tra tutti i vicini balcanici, fondate com’erano sull’intenzione di attuare una politica di pace e collaborazione volta alla soluzione degli annosi problemi che attanagliavano l’Ungheria, ecco che apparvero all’orizzonte nubi che rischiavano di oscurare questa volontà - o presunta tale - di pacifica coesistenza, vale a dire la scoperta da parte dei doganieri austriaci al San Gottardo di alcuni vagoni ferroviari carichi di armi. Si trattava appunto di un carico di armi spedite illecitamente dall’Italia in Ungheria, per il tramite dell’Austria. In effetti, quello che rischiava di diventare un vero e proprio caso diplomatico tra Italia ed Ungheria da una parte, e Piccola Intesa dall’altra, si risolse senza troppi traumi, grazie all’efficace opera di mediazione svolta dal delegato italiano presso la S.d.N., Scialoja, nonché alle forti pressioni politiche esercitate dal Governo italiano, perché si mitigassero i toni della polemica, tanto che, in un telegramma inviato a De Astis a Budapest da Mussolini, questi avrà modo di scrivere: «Spero che V.S. troverà modo di sottolineare presso circoli magiari ivi compresi i giornalistici che se a Ginevra l’Ungheria ha avuto un successo lo si deve esclusivamente alla solidarietà dell’Italia. È grazie atteggiamento italiano che enorme vescica di San Gottardo è stata sgonfiata con grave smacco della Piccola Intesa e delle sinistre internazionalistiche che puntavano contro il regime di Horthy»29.
Se dunque il 1928 si apriva con un risultato positivo dell’Italia relativamente al suo rafforzamento nelle relazioni politiche con l’Ungheria, preludio a quelle economiche, certamente Mussolini avrebbe dovuto tenere in forte considerazione i telegrammi che giungevano da Budapest, da parte dei suoi fidati e molto precisi corrispondenti, e che gli riferivano di un non mai sopito interesse ungherese per il ristabilirsi di amichevoli relazioni con la Germania. In realtà questo è stato il vero ostacolo alla penetrazione politica-economica dell’Italia nei Balcani, per il tramite dell’Ungheria, vale a dire, il costante interesse di Berlino per la stessa area geopolitica, favorita dal fatto che gli ungheresi rimanevano fortemente propensi a realizzare un rapporto trilaterale Budapest-Roma-Berlino ad uno bilaterale Budapest-Roma, come invece era nelle migliori intenzioni mussoliniane. Quanto detto risulta chiaramente da un rapporto inviato dal legato italiano a Budapest, Durini di Monza a Mussolini, che passava in analisi articoli usciti sulla stampa magiara, particolarmente il legittimista “Magyarsàg”, nonché talune dichiarazioni rilasciate da eminenti politici magiari. Quella che ci sembra più significativa tra quelle riportate da Durini, è quella del deputato (generale dell’esercito e futuro Primo ministro magiaro) Gyula Gömbös, dal momento che questi dichiarava che «i contrasti che sussistono tra Ungheria e Germania, debbono essere eliminati, perché è anche interesse della Germania che al di qua della Leyta esista un’Ungheria forte e sana»30 . Nel rapporto di Durini, Gömbös continuava dicendo che «anche i contrasti tra Germania ed Italia debbono cessare nell’interesse di più alti punti di vista storici. Il Brennero e la Leyta sono confini di valore assoluto. Se essi saranno rispettati, l’Ungheria, la Germania e l’Italia possono costituire la base di tale un sistema politico che potrebbe assicurare e garantire l’equilibrio politico di tutta l’Europa centrale e media»31. Le dichiarazioni riportate assumevano importanza anche per il fatto che avrebbero segnato la direttiva politica e d’azione del Generale, una volta salito al potere dopo il ritiro di Bethlen. Gömbös considererà sempre la Germania un partner politico ed economico di importanza primaria, come si rileva dalla fase finale di un suo discorso, riportata da Durini, in cui dichiarava che « Mussolini e Lord Rothermere hanno dato all’Ungheria mutilata il dovere di essere molto riconoscente, ma la loro buona volontà non basta. Ci vuole anche Berlino»32.
Come se ciò non bastasse, il conte Appony, eminente politico magiaro, in una visita fatta a Berlino nel novembre del 1928, durante un colloquio con il maresciallo Hindenburg, sottolineava che: «sul problema delle revisioni, così come su altre questioni, esiste una comunanza di interessi tra Ungheria e Germania, ed è da tale comunanza che deve sorgere la possibilità di buoni rapporti politici. Anche la Germania ha tutto l’interesse di vedere l’Ungheria riprendere appieno le sue forze. L’Ungheria saluta con sincerità la rinascita della Germania e crede fermamente nel suo avvenire»33.
Non c’è dubbio che questo sarà il problema principale nel difficile rapporto tra Italia, Ungheria e Germania, relativamente all’espansione economica e politica nell’area dell’Europa di Sud-Est. Il contrasto con Berlino e le difficoltà nel tener legati a sé i riottosi magiari costituiranno fonte di perenne preoccupazione per Mussolini. Eppure al Duce non mancavano le occasioni per trovare convenienti punti di contatto con i magiari. Uno di questi era data dalla fornitura di apparecchi Caproni all’aviazione militare ungherese. L’operazione era tanto più importante in quanto, al di là degli effetti economici, fornire armi ai magiari significava violare le norme dei trattati internazionali che impedivano agli ungheresi di riarmarsi. In particolare, in un messaggio riservatissimo e segreto inviato dal Regio Addetto Militare ed Aeronautico, Oxilia a Mussolini nell’aprile del 1929, si faceva presente che «dopo il Ministro della Difesa Nazionale, anche il generale magiaro Vassel, in un colloquio che desiderò avere con me, mi confermò che, era stato deciso di ordinare alla ditta Caproni:
a) - un apparecchio Ca 101 attrezzato per il trasporto passeggeri;
b) - un apparecchio Ca 101 attrezzato per trasporto bagagli.
Il generale Vassel, però, mi segnalava che sarebbe stato vivo gradimento del Governo ungherese di ricevere il secondo di detti apparecchi attrezzato per impieghi di carattere militare, vale a dire munito di:
- portabombe per circa 12 bombe da 50 kg e da 2 a 6 bombe da kg 12,500;
- comando per il lancio delle bombe;
- 2 mitragliatrici Wickers da 800 colpi sulla parte anteriore (fisse o orientabili);
- 2 mitragliatrici dello stesso tipo sulla torretta centrale;
- 2 mitragliatrici sparanti in basso, una avanti, l’altra in coda;
- apparato fotografico Zeiss, film 21 cm;
- stazione radio Marconi A.D. 18.
Il generale Vassel mi assicurava che qualora il Governo italiano avesse aderito a questa richiesta del Governo ungherese, sarebbe stata passata senz’altro alla Ditta Caproni l’ordinazione di un terzo apparecchio Ca 97, attrezzato, compatibilmente con le possibilità dell’apparecchio stesso, analogamente al Ca 101 di cui sopra.
Poiché il fatto di cui trattasi viene a costituire una infrazione alle note clausole militari ed aeronautiche del trattato di pace, il generale Vassel mi pregava di segnalare quanto sopra al Governo italiano, interessandolo a concedere se possibile il suo consentimento ai desideri espressi da quello ungherese»34.
La pratica in questione veniva prima affrontata dalla Direzione Generale Europa e Levante che conveniva senz’altro con quella degli Italiani all’Estero nel rilevare «le gravi difficoltà esistenti contro l’accoglimento della richiesta ungherese per fornitura di apparecchi Caproni armati, o comunque visibilmente destinati all’Aviazione militare, ma tuttavia ritiene, beninteso sotto riserva dell’approvazione superiore, che ragioni di opportunità politica giustifichino al riguardo un parere di massima favorevole»35. Guariglia continuava il suo Promemoria confidenziale sostenendo la necessità di ridurre al minimo le probabilità di complicazioni internazionali. Le soluzioni, a questo punto erano due: «- inviare i due apparecchi in volo, attrezzati militarmente coi colori o segni italiani, e in caso di atterraggio forzato in Austria adottare come scusante un errore di rotta da parte del pilota;
-inviare gli apparecchi in volo, predisposti in officina di tutte le parti necessarie per ricevere le armi e apparati militari ma privi di armi, apparecchiature fotografiche, radio ecc. da installarsi a suo tempo in Ungheria. In questa ipotesi si potrebbe, volendo, anche richiedere i permessi di sorvolo e fare ogni cosa in forma palese, come se si trattasse di apparecchi che facciano un raid in Ungheria, per cui, salvo insuperabili difficoltà tecniche, parrebbe consigliabile sopprimere non solo le armi, ma anche tutte le sistemazioni che appaiono evidentemente destinate per ricevere sia le armi, sia gli apparecchi militari. All’uopo gioverebbe apprezzare la possibilità di fare in modo che dette sistemazioni od il collegamento finale delle armi e degli apparecchi militari potessero effettuarsi in un secondo momento in Ungheria, dove del resto si ha motivo di credere che non manchino le installazioni occorrenti alla bisogna »36. Chiaramente l’ultima parola sulla delicata questione spettava a Mussolini, il quale in un telegramma inviato pochi giorni dopo il Promemoria di Guariglia, vale a dire il 23 maggio, al Ministero dell’Aeronautica, comunicava che «tenuto conto delle ragioni di opportunità politica, sono favorevole alla consegna di detti velivoli all’Ungheria. Dato però che tale invio se non venisse effettuato con la opportuna cautela potrebbe dar luogo a complicazioni di carattere internazionale, mi permetto di far presente per il caso che apparecchi attrezzati militarmente non fossero già stati inviati per l’Ungheria, essere consigliabile adottare delle soluzioni proposte dal R. Addetto Militare a Budapest quella che presenta meno probabilità di complicazioni di tal genere e cioè la seconda esposta dal Tenente Colonnello Oxilia col rapporto 138 (sopra descritta). Salvo insuperabili difficoltà tecniche sarebbe inoltre opportuno che gli apparecchi fossero inviati in Ungheria non solo senza armi, ma anche senza sistemazioni che appaiano predisposte per ricevere sia armi sia apparecchiature da utilizzare per scopi militari. Tali sistemazioni potrebbero, qualora fosse possibile, essere collocate sui velivoli in Ungheria. Questa soluzione mi sembra essere preferibile all’altra prospettata dal R. Addetto Militare a Budapest di inviare, cioè, gli apparecchi armati insieme ad altri velivoli civili in occasione di cerimonie speciali che dovrebbero aver luogo a Budapest, poiché la segnalazione ufficiale degli apparecchi inviati in Ungheria per tali cerimonie non mancherà di essere controllata con ogni gelosia e parrebbe inopportuno far conoscere sospetti proprio in tali occasioni quando le eventuali infrazioni che fossero constatate assumerebbero un carattere delicato »37.
La necessità di stringere sempre più i legami politici ed economici con l’Ungheria, al fine di rafforzare la propria presenza in questa delicata area europea nasceva anche dal fatto che occorreva ancora consolidare l’interesse di parte dei politici magiari per l’Italia. Difatti, scriveva Oxilia in un Rapporto inviato a Mussolini tra il dicembre del 1928 ed il gennaio del 1929, che certamente l’Italia e Mussolini godevano in Ungheria di notevolissimo prestigio, ma che «ciò nonostante occorre mettere in evidenza alcune caratteristiche di questa amicizia che in qualche ambiente è ancora assai diffidente. Se in sostanza il conte Bethlen ed altre importanti figure di Governo - sia per fredde ragioni di politica, sia per simpatie culturali e per ragioni storiche e sentimentali - ci sono sinceramente amici, se una buona parte dell’opinione pubblica ha gratitudine verso l’Italia e grandi speranze in essa, non mancano negli ambienti governativi, militari, burocratici, giornalistici e politici e soprattutto nei circoli di opposizione del Governo, elementi che sono attratti per varie ragioni verso la Francia e contro il Fascismo, e soprattutto altri che per ragioni storiche, culturali ed economiche e per comunanza di recenti interessi durante la guerra sono germanofili»38. Oxilia faceva notare che il Governo e buona parte dell’opinione pubblica erano decisamente orientati verso l’Italia, ma correttamente riteneva necessario «non generalizzare questa amicizia italo-ungherese, dati anche la mentalità ed il temperamento di questo popolo, le influenze economico-bancarie tedesche sempre più pressanti, e guardare sempre con qualche diffidenza alla schietta sincerità delle manifestazioni di questa amicizia»39. Non è infatti un caso, come si rileva dai documenti, che il 1° gennaio 1929 il deputato nazionale Carlo Rassay, tra l’altro anche redattore capo del quotidiano “Esti Kurir”, a proposito dell’amicizia italo-ungherese, così si esprimeva: «il nostro isolamento in fatto di politica estera è rimasto tale e quale. Un anno e mezzo fa il Governo pose tutta la politica estera del Paese su di una sola carta: l’amicizia con l’Italia (...). Oltre alle dichiarazioni di simpatia per la revisione del Trattato del Trianon da parte di Mussolini, sono mancati i risultati precisi di quell’amicizia sia nei riguardi politici che in quelli economici»40. In effetti, parte della popolazione magiara era scontenta della situazione del Paese così come esso si trovava a distanza di circa dodici anni dalla fine della Guerra. A larghi strati della popolazione sembrava come se alle parole Mussolini non facesse seguire i fatti. Certamente portare davanti all’assise internazionale la causa ungherese non era facile, visto il suo revanscismo contro tutti i trattati internazionali che mantenevano lo statu quo in Europa e vista altresì la sua difficile situazione economica interna. Ma non vi era dubbio che anche da parte di Roma , almeno fino agli anni in questione, si doveva e poteva fare di più per venire incontro alle richieste di aiuti economici magiari. Se ciò non fu fatto, la ragione va cercata nelle condizioni economiche italiane, nemmeno esse floridissime, e col fatto che si voleva ottenere il massimo risultato (l’amicizia coi magiari, leva per la penetrazione politica e l’espansione economica nei Balcani), col minimo sforzo (valido appoggio politico e morale, minimo da un punto di vista economico). Si comprende altresì le difficoltà a cui andavano incontro i rappresentanti italiani a Budapest, quando dovevano, in qualche modo, giustificare questa politica del Governo italiano all’establishment magiaro, tentando di esaltarne invece l’operato. Tuttavia, De Astis, Incaricato d’Affari italiano a Budapest in un’intervista sui risultati politici ed economici dell’amicizia italo-ungherese, rilasciata al quotidiano “8 Orai Ujsag”, correttamente elogiava l’operato dell’Italia considerando “tangibili” le prove d’amicizia, anche sul versante economico, fornite all’Ungheria. In particolare, De Astis diceva che «tra Italia ed Ungheria sentimento ed interesse hanno trovato la loro caratterizzazione rispettivamente nel Patto d’Amicizia e nel Trattato di commercio. Questi due accordi stanno alla base di tutti quegli sconvolgimenti che hanno avuto finora e potranno avere ancora in avvenire le relazioni italo-ungheresi, grazie all’acuto senso politico di Bethlen, e del Ministro degli Affari Esteri Walko»41. De Astis passava poi in rassegna i momenti principali della collaborazione politica tra i due Paesi «la questione delle riparazioni orientali nella quale l’Italia ha francamente e cordialmente aiutato l’Ungheria nel passato e certamente continuerà a mantenere tale suo atteggiamento anche in avvenire per un’equa soluzione; il Patto d’Amicizia italo-ungherese»42, e quelli economici, dove De Astis poteva affermare che «il trattato di commercio tra Italia ed Ungheria, entrato in vigore lo scorso giugno, ha dato e dà anche attualmente una salda base per gli ulteriori sviluppi. Il Governo Italiano, anche nel campo economico, di cui sopra ogni altro valuta l’importanza, ha dimostrato e dimostrerà sempre una grande sensibilità per gli interessi commerciali dell’Ungheria; altrettanto si può dire faccia il Governo Ungherese per gli interessi commerciali italiani. È certo che il favorevole sviluppo che hanno preso specialmente nell’ultimo semestre i rapporti commerciali tra i due Paesi, non troverà ostacoli nella politica economica dei due Governi. Naturalmente in questo campo molto dipenderà dalla vivacità e dallo spirito di iniziativa dei commercianti. È un fatto che l’esportazione di bestiame, di prodotti agricoli e farina ungheresi verso l’Italia dimostra un continuo aumento. Ormai l’Italia ha raggiunto il quinto posto tra gli Stati importatori di merci ungheresi e c’è da sperare che questa ascesa dell’Italia continuerà»43. Dall’esame di statistiche economiche risultava infatti l’aumento di importanza commerciale del mercato ungherese per quello italiano. «Dalle stesse statistiche ungheresi, continuava l’Incaricato d’Affari, rilevo che nel 1928 l’importazione in Ungheria di merci italiane è stato pari a 47.914.000 Pengö, l’esportazione di merci ungheresi in Italia a 28.957.000 Pengö e quindi c’è stata una differenza di 18.517.000 Pengö a favore dell’Italia. Nei primi nove mesi dell’anno 1929 invece su 34.390.000 Pengö di merci italiane importate si sono avuti 44.761.000 Pengö di merci ungheresi esportate in Italia, con un utile quindi per l’Ungheria di 10.371.000 Pengö. Queste semplici cifre dimostrano che abbiamo tutto il diritto di dimostrarci ottimisti circa le possibilità di sviluppo dei rapporti economici dei due Paesi»44. De Astis chiudeva questa intervista, annunciando che di lì a poco sarebbe stato sostituito da Arlotta, come Direttore della Legazione Italiana a Budapest.
Intanto nuovi ed importanti avvenimenti internazionali accadevano agli inizi del 1930. Un avvenimento in particolare che riguarda da vicino le relazioni tra Italia ed Ungheria, e che in qualche modo poteva contribuire ad incidere sulle relazioni reciproche, era dato dalla firma del Patto d’amicizia ed arbitrato italo-austriaco. Valutando la portata del contrasto che fino a poco tempo prima separava i due Stati, rasentando addirittura il livello dell’inimicizia, va detto che tale riavvicinamento era dovuto, in buona sostanza, sia alla progressiva perdita di forza dell’agitazione dell’ala socialista austriaca, ovviamente antifascista, sia al merito del Cancelliere Schober, favorevole ad un amichevole avvicinamento ed alla creazione di questi nuovi legami. L’Ungheria era fortemente interessata a che si sviluppasse questo dialogo, che significava per essa nuovi amici e nuove possibilità sul fronte di aggregazioni economiche politicamente omogenee. In particolare, nell’articolo “Nuove Relazioni”, firmato dal direttore del giornale magiaro “Ujsàg”, Kobor, e pubblicato il 7 febbraio 1930, si scriveva che «l’entrata dell’Austria nella sfera d’amicizia che sussiste già da lungo tra Italia ed Ungheria, apre tali prospettive in merito all’avvenire politico ed economico dell’Europa media da permettere la supposizione che, per quanto oggi se ne vedano solo le linee generali, sorgeranno nuove relazioni e nuovi raggruppamenti. Ed è appunto queste prospettive di sviluppo che rendono per noi d’importanza nazionale i nuovi rapporti tra Italia ed Austria»45. Kobor precisava inoltre che in Ungheria non si dava troppa importanza alle opinioni manifestate all’estero, secondo le quali, in seguito a quell’accordo, si poteva incominciare a parlare di un Blocco politico italo-ungherese-austriaco, da opporre alla politica di accerchiamento della Piccola Intesa. Ben più veritiero, invece, risultava essere la considerazione che nell’Europa media andava sviluppandosi una configurazione politico-economica che avrebbe potuto avere per l’Ungheria conseguenze molto favorevoli. Da un punto di vista di politica internazionale più generale, questo patto significava una battuta d’arresto della Piccola Intesa nel tentativo di attirare l’Austria nella propria sfera d’interessi, un avvicinamento dell’Austria all’Ungheria, un deciso rafforzamento della collaborazione tra Germania ed Ungheria, nonché tra Roma e Berlino. «In tal modo - proseguiva l’articolo nella sua dettagliata e precisa analisi degli equilibri dell’Europa Centrale - un vastissimo territorio europeo viene a cadere dentro la sfera di un ambiente di amicizia, il quale da una parte col suo spirito pacifico contribuisce al rilassamento di certe tensioni e d’altro canto dal punto di vista economico rappresenta un territorio di rapporti e di traffici tanto unito che, pel tramite di opportuni accordi doganali, non può che riuscire vantaggioso per ciascuno dei suoi componenti. (...) Esso significa che ci liberiamo sempre di più dall’assedio in cui cercarono di isolarci, significa che in tre direzioni - verso l’Italia, l’Austria e la Germania - si aprono delle porte per la nostra liberazione perché nel nuovo raggruppamento, che avrà indubbiamente una decisiva influenza sulle sorti avvenire d’Europa, abbiamo anche noi il posto ed il peso corrispondenti»46.
Eppure ogni qualvolta che sembrava che l’Italia potesse piazzare delle stoccate, se non decisive, almeno importanti per ciò che riguardava la sua espansione politico-economica nella regione danubiano-balcanica, ecco che puntualmente a Budapest, dopo i ringraziamenti - di rito - all’Italia, subito si guardava a Berlino, nella speranza che si avverasse il sogno di stringere sempre più i legami e di avvicinare Roma a Berlino. Ancora dall’autorevole quotidiano di Budapest “Ujsàg”, e sempre a firma di Kobor, si riportava che «noi (ungheresi) diamo grandissimo valore all’amicizia italiana, la quale per prima ha spezzato i limiti del nostro isolamento. Le esperienze dell’Aja (appoggio incondizionato sulle spinose questioni delle riparazioni e degli optanti) sembrano dimostrare che l’amicizia italiana non è platonica, ma significa per noi un valido appoggio. Già a più riprese però abbiamo dato espressione al parere che non possiamo accontentarci di avere solo questa amica e che dunque sarebbe stato opportuno ampliare le nostre relazioni all’estero cercando nuovi amici ed allargare così la breccia che l’amicizia italiana ha aperto sulle mura che ci tenevano assediati. E qui pensiamo innanzitutto ai nostri rapporti con la Germania»47. Era insomma opportuno che si seguisse il corso di idee, secondo cui per mezzo della Germania anche l’Ungheria potesse aggiungersi alla conformazione destinata a creare una nuova situazione in Europa. Se il principio del Duce “tutto il bene ai nostri amici, tutto il male ai nostri nemici” era giusto tanto meglio per i magiari allargare i loro orizzonti fino a comprendere in essi il rapporto con la Germania, dove gli antichi legami non erano stati ancora spezzati e dove con una sufficiente abilità e volontà si sarebbero potuti rinnovare. Oltre a ciò si aggiunga che, stante una situazione economica difficilissima, ragioni che potremmo definire di opportunismo politico, spingevano l’Ungheria a non chiudere la porta nemmeno alla possibilità di accordi, sia pure prevalentemente economici, con la peggiore tra le sue nemiche, la Francia, custode dello statu quo un Europa. Come infatti riferiva Arlotta in un telegramma inviato al Duce, Loucher, ministro dei Lavori Pubblici francese, aveva concesso un’intervista al quotidiano “Az Est”, nella quale si metteva in rilievo l’attività svolta alla Conferenza per le riparazioni orientali, che egli stesso presiedeva, evidenziando i sacrifici che aveva fatto la Francia nell’interesse della regolazione dei problemi dell’Europa media; l’eventualità che l’Ungheria potesse contrarre un debito all’estero e particolarmente in Francia, e la possibilità di risolvere la situazione generale europea per mezzo di una Confederazione di Stati del continente dentro gli ambiti della Società delle Nazioni. In particolare si leggeva nel telegramma, che «la Francia aveva rinunciato alla parte che le spettava delle riparazioni che l’Ungheria avrebbe dovuto pagarle fino al 1943, pagando altresì assieme all’Inghilterra ed all’Italia, notevoli somme alla Cassa che dovrà servire a liquidare i risarcimenti degli optanti ed al pagamento di altri obblighi. (...) Non è senza base la credenza che per l’Ungheria ora si inizi una nuova epoca. Il Paese ha riacquistato la sua indipendenza economica e quindi il mercato finanziario sta ora a sua disposizione»48. Nel telegramma veniva riportata altresì la domanda fatta dal Redattore dell’ ”Az Est” a Loucheur relativamente alla sua opinione circa un prestito francese all’Ungheria. A questa domanda - ribatteva Loucheur - «non intendo rispondere. Ella però può trarre le debite combinazioni dalla mia risposta: per l’Ungheria ormai sul mercato finanziario internazionale sono scomparsi quegli ostacoli, causa i quali finora non ha potuto usufruire di capitali stranieri. Non v’é alcun ostacolo quindi che anche sul mercato francese siano accolte con medesimo favore di altrove le eventuali richieste di capitale da parte ungherese»49. Addirittura Loucheur preconizzava nelle relazioni economiche e politiche dell’Europa danubiano-balcanica lo sviluppo dell’idea di una confederazione generale europea, in grado di coordinare i traffici commerciali tra tutti i Paesi europei aderenti, evitando l’importazione di produzioni da altri Continenti, e razionalizzando il reciproco import-export, e dove la politica avesse molta importanza. Ciò significava per l’Italia dover scavalcare un nuovo ostacolo sulla propria via della penetrazione economico-politica in questa area, anche perché - a differenza di Roma - Parigi era disposta a concedere i prestiti richiesti, avendone la disponibilità, qualora avesse visto realizzarsi il proprio tornaconto, vale a dire l’avvicinamento dell’Ungheria alle posizioni della Piccola Intesa. Certamente però giocava a favore dell’Italia il fatto che avvicinarsi a Parigi significava dover rinunciare ai progetti di revisione così a lungo inseguiti. «La politica estera ungherese - scriveva sull’autorevole “Magyarsàg” Miklos Kàtai - si trova innanzi ad un bivio. Dobbiamo scegliere tra l’Italia e quindi l’opposizione allo stato di cose creato dal Trattato del Trianon, e la Francia ossia la politica dell’adattamento a tale stato di cose.
Nessuno può mettere in dubbio che qualora il Governo ungherese dovesse scegliere la seconda soluzione e, adattandosi al sistema dei protetti della Francia, degli Stati della Piccola Intesa, cercasse in tal modo di migliorare le sue condizioni economiche, tale politica significherebbe una rottura con l’Italia (...). Se sappiamo che il successo del prestito che l’Ungheria dovrebbe contrarre in Francia dipende dalla volontà del Governo francese, possiamo immaginare che le condizioni di tale prestito non serviranno per niente gli interessi dell’Italia»50. Kàtai sosteneva, a ragion veduta, che l’orientamento magiaro verso la Francia e la Piccola Intesa significava definitivamente la cristallizzazione dello stato di cose creato dal Trianon per dei vantaggi economici senz’altro rilevanti, ma problematici da quantificare. «Noi nelle nostre considerazioni -proseguiva Kàtai esprimendo anche la posizione di parte del Governo - non siamo condotti da una vuota intransigenza, ma solo dal senso dell’opportunità. Intendiamo però esaminare se non vi sia per l’Ungheria un’altra e migliore possibilità piuttosto che la necessità di patteggiare con la situazione data. Fissare l’attuale stato di cose in Europa, seppellire per sempre le nostre speranze nazionali non significa per noi un avvenire per il quale meriterebbe manifestare particolare entusiasmo. Nella cosiddetta Confederazione danubiana, anche l’Ungheria attuale diverrebbe territorio di caccia per le industrie straniere, e d’altra parte non possiamo prevedere quali conseguenze avrebbe per la nostra agricoltura l’adesione alla Piccola Intesa»51. Queste considerazioni dovevano fatalmente inserirsi nel momento che l’Ungheria si trovava ad affrontare che, tra il 1930 ed il 1931, risultava essere difficilissimo da un punto strettamente economico, pur se non veniva messa in discussione la leadership di Bethlen. Occorreva assolutamente ottenere dei prestiti, giacché al grave stato di crisi dell’industria e del commercio, veniva anche ad aggiungersi la forte crisi nell’unico settore “forte” dell’esportazione magiara, ovvero l’agricolo, dovuto al ribasso del prezzo del grano e dei prodotti della terra. A ciò occorreva aggiungersi l’alto tasso d’interesse da pagare sui debiti contratti, che contribuiva ancor di più a danneggiare la bilancia dei pagamenti in forte difficoltà. È a questo punto che a Budapest si realizzava che, senza appunto voler cadere nelle braccia di Parigi, occorreva studiare delle strategie tendenti ad «ottenere appoggio politico-militare dall’Italia ed appoggio economico dalla Francia, l’unico Paese in grado di aiutare Budapest, disponendo delle risorse finanziarie occorrenti»52. A Roma ci si rendeva perfettamente conto di tale rischio e nella relazione che Guariglia - Direttore generale per l’Europa ed il Levante - inviava al neo Ministro degli Esteri Grandi in data 23 maggio dello stesso anno, si faceva presente che non conveniva più «all’Italia ritardare oltremodo di prendere una presa di posizione sicura allo scopo di prevenire iniziative altrui. Occorreva assumere la direzione delle trattative stesse che altrimenti si sarebbero svolte, almeno all’inizio, al di fuori di noi, nella peggiore delle ipotesi sotto l’egida dell’azione anglo-franco-ceca e nella migliore, direttamente tra gli Stati più interessati, in mezzo ai quali noi potremmo al più venirci a trovare solo come successori dell’Austria»53. Anche in un promemoria trasmesso da Brocchi - delegato italiano nel comitato degli esperti per le riparazioni - a Guariglia nel maggio dello stesso anno, si faceva presente che le proposte francesi di riorganizzazione economica degli Stati successori (della Monarchia austro-ungarica) non erano di difficile realizzazione «particolarmente in questo momento nel campo più ristretto di 4-5 Stati. Gli Stati successori della Monarchia austro-ungarica sono in attesa che concrete proposte vengano fatte loro e la Grande Potenza che si presenterà con un programma ben determinato e non troppo complicato, potrà raggrupparle intorno a sé»56. Tale iniziativa, secondo Brocchi, spettava all’Italia che aveva il diritto e l’obbligo di assumere un ruolo predominante nella riorganizzazione economica dei territori dell’antica Monarchia, giacché i territori uniti all’Italia contenevano «i centri di assorbimento dell’import-export di gran parte degli Stati successori, soprattutto dell’Ungheria»57.
Brocchi continuava dicendo che se l’iniziativa non fosse stata di Roma, gli Stati balcanici avrebbero senz’altro seguito chi si fosse fatto parte dirigente. Probabilmente per ottenere un valido risultato occorreva conciliare gl’interessi di pochi Stati. Il programma avrebbe dovuto comprendere problemi relativamente risolvibili, comunque già studiati ed analizzati. « I problemi che possono essere affrontati subito - continuava Brocchi - sono:
-l’unione nel campo ferroviario;
-l’unione nel campo doganale.
L’unione in quest’ultimo campo, già studiata nel 1922, risulta molto più difficile da realizzarsi dell’unione nel campo ferroviario. Lo studio del problema dell’unione doganale si raccomanda quindi per un secondo tempo, particolarmente per il caso in cui risultasse che, se l’unione doganale non venisse fatta con l’intervento e per iniziativa dell’Italia, essa verrebbe fatta per iniziativa e sotto gli auspici di un altro Stato e forse senza l’intervento dell’Italia »58.
Alla luce dei fati si può dire che negli anni immediatamente seguenti il Trattato d’Amicizia italo-ungherese del 1927, effettivamente il Governo italiano, prima con Mussolini e successivamente con Grandi agli Esteri, aveva effettivamente spinto con decisione ( più di quanto non avesse cioè fato fino al 1927 ) nella direzione del raggiungimento di concreti accordi con i magiari. Fatto sta che nel 1930, nell’ambito di una sincera cordialità dei rapporti reciproci, e grazie anche alla soluzione di varie questioni pendenti tra Ungheria e Paesi limitrofi (la già accennata soluzione del pagamento delle riparazioni e l’applicazione dei trattati di pace, rimanendo sospesa la sola spinosa questione del revisionismo magiaro), il neoministro degli Esteri Grandi inviava un telespresso al ministro a Budapest, Arlotta, il 28 maggio, in cui si chiariva che il Governo italiano doveva «promuovere ed accettare la conclusione di accordi atti a garantire nell’orbita dell’economia dei territori già costituenti la Monarchia austro-ungarica, lo sviluppo della produzione e del commercio»59. Per Grandi era venuto il momento di concretizzare e rendere sempre più incisiva la penetrazione economica di Roma «oggi più di ieri», per renderla tangibile agli occhi non solo del popolo italiano ed ungherese, ma dell’Europa intera. Occorreva «assicurare una duratura e reale libertà dei traffici e dei transiti, finora alquanto teorica, regolare uniformemente le condizioni di trasporto e di esercizio delle imprese ferroviarie e di navigazione, sì da rendere facile il commercio dei prodotti tra Italia Ungheria (e poi Austria), e la loro esportazione»60.
In effetti Grandi era consapevole del fatto che non si poteva seriamente pensare ad un incremento dei commerci e delle relazioni economiche coi magiari in particolare, e con l’intero bacino danubiano in generale, se prima non si fosse regolato - tramite accordi e convenzioni - l’aspetto dei trasporti. Realizzare questo risultato comportava un doppio importante risultato:
1) consolidare gl’interessi italiani nei Balcani e soprattutto in Ungheria;
2) rintuzzare i già summenzionati tentativi di pressione economica francese e tedesca in quest’area.
Tant’è che nel promemoria sul colloquio col ministro ungherese Hory, del 4 aprile 1930, Grandi scriveva che «Hory riferisce sull’opera svolta da Loucheur circa le sue offerte di denaro, prestiti e collaborazione politica. Dice altresì che Bethlen ha lasciato cadere ogni proposta, ma che spera sempre nel prestito già concordato»61. Era completamente evidente il barcamenarsi dell’Italia tra promesse non mantenute e la necessità comunque di dover promettere qualcosa di “tangibile” ai magiari, oltre all’appoggio politico, l’unica cosa senz’altro assicurata, per non perderne i favori a vantaggio della Willhelmstraße e del Quay d’Orsay. Tuttavia, una valida base comune per trattare questioni economiche molto importanti si realizzava nell’estate del 1930, allorquando l’establishment magiaro veniva a trovarsi in sintonia col Governo di Roma e Vienna per quanto concerneva importanti questioni e provvidenze di carattere economico, contemplate nel “Progetto Brocchi”. Si trattava di creare negli Stati contraenti un istituto di credito per il traffico di import-export che avrebbe dovuto concedere anticipazioni e sovvenzioni a condizioni e tassi d’interesse mitissimi. A tal proposito scriveva il Ragioniere di Stato De Bellis in un promemoria del 23 agosto diretto al ministro delle Finanze Mosconi che sarebbe stato necessario «il concorso dei singoli Stati che avrebbero dovuto devolvere a detto istituto una percentuale del prodotto del dazio doganale per determinati articoli in modo da consentire praticamente l’affluenza sul mercato della merce, agli stessi prezzi che verrebbero praticati se i dazi relativi non esistessero o fossero notevolmente ridotti»62. Per aver modo di valutare l’impatto finanziario di questo progetto, Ungheria, Italia ed Austria dovevano stabilire merci e contingenti in base ai quali si dichiaravano disposti a concedere sovvenzioni destinate ad indennizzare gli esportatori per il pagamento del dazio. Dai calcoli fatti dal Ragioniere di Stato, risultava che la rinuncia ai dazi concernenti quantitativi di grano, ferro, ghisa, carta, andava però a vantaggio dell’Ungheria e dell’Austria, per cui pur rendendosi conto dell’importanza politica di tali Accordi, doveva manifestare per essi -dato lo stato della finanza pubblica statale -avviso non favorevole. Tuttavia la questione rimaneva aperta, in quanto gli Accordi Brocchi risultavano una ottima base di partenza per una formulazione concreta di aiuti economici italiani agli ungheresi. Contemporaneamente al di là del Danubio, i ministri magiari, studiavano soluzioni per ottenere, adesso che era possibile farlo, visto il momento favorevole dei rapporti, vantaggi ancor più sicuri. Non desideravano separare definitivamente la loro sorte da quella degli altri Stati agricoli temendo il rischio di trovarsi poi in posizione svantaggiosa, nell’eventualità in cui agli altri Stati agrari fossero state offerte in seguito condizioni migliori da parte tedesca e ceca. In definitiva, Budapest si dichiarava disposta a staccarsi subito dalla Piccola Intesa, per unirsi a Roma senza indugio, solamente se le fosse stata assicurata una posizione privilegiata, in modo da non dover poi temere, per il collocamento dei suoi prodotti, né la concorrenza jugoslava, né quella rumena o polacca.
Per controbilanciare queste tendenze e per contrastare i tentativi francesi, tendenti a risolvere l’organizzazione del credito agricolo attraverso prestiti agli Stati forti esportatori di tali prodotti, chiedendo in cambio garanzie statali, occorreva convincere gli Stati danubiani della maggiore convenienza -sono parole di Brocchi- «ad organizzare il credito in modo da permettere di accordare agli esportatori ed importatori dei Paesi contraenti anticipi ad interesse ridotto in misura tale da far loro godere benefici equivalenti a quelli che potevano scaturire dall’applicazione di diritti di confine più moderati»63. Tale organizzazione del credito doveva essere inquadrata in un accordo in grado di soddisfare soprattutto l’Ungheria, sia per quanto concerneva le facilitazioni di transito e traffico, sia poi relativamente all’assorbimento delle sue eccedenze di grano.
Intanto, l’11 aprile dello stesso anno, proveniente da Parigi, Bethlen si fermava a Roma per far visita al Duce. Anche in questa occasione i temi discussi furono di carattere prevalentemente politico ed economico. Il premier ungherese confermava verbalmente «la viva riconoscenza da cui è naturale che Governo e popolo Ungherese siano animati verso l’Italia che tanto efficacemente ha appoggiato i legittimi loro interessi nella questione delle Riparazioni e in quella degli Optanti; ed in secondo luogo per esaminare personalmente con lui i problemi interessanti l’Ungheria nel quadro della situazione generale europea»64, esaminava quindi con Mussolini lo stato dei principali problemi politici, ivi compresa la “questione tedesca”, senza che tuttavia si giungesse a qualche soluzione particolare, e soprattutto si concentrava sulle relazioni con l’Austria, manifestando «il proprio compiacimento pei risultati conseguiti col recente viaggio di Schober a Roma; ed esprimendo fiducia nell’efficace influenza che un ulteriore, secondo lui, prevedibile, sviluppo delle note organizzazioni di “Heimwehren” potrà avere sul consolidamento del Governo di destra nella Repubblica austriaca»65. Roma aveva tutto l’interesse a che si stabilissero ottime relazioni politiche tra Vienna e Budapest, perché esse sarebbero state un ulteriore ostacolo all’Anschluß. Era dunque fondamentale, come scriveva Grandi al ministro a Vienna Auriti il 30 agosto 1930 «non farsi trovare impreparati, ma bisognava agire in qualche modo affinché questi problemi trovassero una soluzione più conforme agli interessi italiani»66. Grandi a proposito dell’Austria riteneva che a tutti i costi si dovesse evitare l’Anschluß, che per l’Italia costituiva quanto di peggio potesse accaderle, giacché una «piccola Austria-Ungheria -quantunque non svolgerà mai una politica antigermanica, ma anzi ne farà una in generale favorevole ai suoi interessi - peserà sui nostri confini in modo minore che non una Germania accresciuta dal territorio austriaco. Tendenzialmente rebus sic stantibus pur non trattandosi di un problema di attualità, a noi conviene non contrastare decisamente un avvicinamento austro-ungherese che possa, in prosieguo, sboccare nella creazione di più stretti vincoli politici di cui possa far parte anche l’Italia»67. Ecco perché la questione austriaca assumeva sempre più importanza nel dibattito politico ed economico tra Roma e Budapest ed ecco spiegato altresì il motivo per cui si avvertiva la necessità di più strette relazioni politiche tra i suddetti Paesi. Bethlen comunque intendeva seguire una linea di perfetta intesa con Roma ritenendo che «una effettiva cordialità di relazioni tra Ungheria ed Austria non è nemmeno presumibile, se non come conseguenza di analoga rispondenza tra gli Stati di Austria ed Italia»68. D’altronde, in un messaggio “Riservato Confidenziale”, spedito da Arlotta a Grandi, in cui si riportava un colloquio avuto dallo stesso Arlotta con Bethlen dopo il suo ritorno dal viaggio effettuato in Italia, quest’ultimo, dopo l’ennesimo ringraziamento all’Italia per il sincero e costante appoggio fornito all’Ungheria all’Aja e a Parigi, confermava la soddisfazione «per il riavvicinamento italo-austriaco, cui si spera di far collimare di pari passo, sempre nell’ambito di una politica interna di Governi di destra, un’analoga progressiva maggiore intimità di rapporti della Ungheria con l’Austria»69. In effetti , dopo la conclusione dei congressi di l’Aja e Parigi, l’Ungheria aveva accettato di rinunciare alle sue pretese (crediti in natura verso la Romania, risarcimenti per i danni prodotti dalla medesima occupazione rumena, beni ceduti agli Stati limitrofi, pensioni ai funzionari dei territori avulsi), riconoscendo ampiamente gli oneri ed accettando l’abbinamento della questione degli optanti con quella delle revisioni (che in precedenza i magiari ritenevano dovessero essere separate). Se le cose stavano così, a tutti gli effetti l’Ungheria tornava ad essere uno Stato che faceva parte del consesso internazionale, senza reclusioni ed opposizioni da parte di nessun altro Governo o Stato, e difatti la Francia non aveva perso tempo annunciandosi prossimi viaggi di Loucheur nelle capitali della Piccola Intesa e anche a Budapest, per riprendere quei progetti di Unione economica e ancor più, Unione Danubiana, da tempo caldeggiati da Parigi e Praga ai danni dell’espansione economica e politica di Roma nei Balcani. Se dunque le varie questioni, che fino al maggio del 1930 rendevano difficile la conclusione di accordi internazionali da parte dell’Ungheria e dell’Austria con Paesi limitrofi per assicurarsi vantaggi economici mediante compensazione e reciproco scambio della produzione erano state eliminate, era altresì opportuno che l’Italia stringesse i tempi per fronteggiare gli attacchi francesi e tedeschi per -sono parole scritte dallo stesso Grandi ai ministri italiani a Budapest e Vienna Arlotta ed Auriti- «promuovere da parte del Regio Governo ed accettare esso stesso, la conclusione di accordi atti a garantire nell’orbita dell’economia dei territori già costituenti la Monarchia Austro-ungarica lo sviluppo della produzione e del commercio. Si avrebbe di mira innanzitutto l’assicurazione di una duratura e reale libertà dei traffici e dei transiti ora piuttosto teorica; un regolamento uniforme delle condizioni di trasporto e dell’esercizio delle imprese ferroviarie e di navigazione; una applicazione razionale e corrispondente agli interessi generali delle tariffe per i trasporti terrestri, fluviali e marittimi, dei Magazzini generali e delle spese di piazza nei vari porti, mediante organi comuni, in modo da rendere facile la circolazione dei prodotti negli Stati in questione e la loro esportazione»70.
Grandi proseguiva nel suo memoriale, chiedendo ad Auriti ed Arlotta di accertare successivamente quali altri accordi internazionali dovessero essere necessari per raggiungere le finalità sopra descritte e li pregava altresì di prendere direttamente contatti con i Governi presso cui risiedevano, per assicurarsi se fossero disposti ad uno scambio di idee allo scopo di concretare quali studi potessero essere utilmente incominciati in proposito, «per dare all’assetto economico degli Stati interessati una consistenza più organica e più solida di quella che poteva scaturire dagli Accordi complementari dei trattati di commercio esposti a frequenti vicissitudini»71.Tali studi, secondo Grandi, potevano essere avviati in seno ad un’apposita Commissione interstatale di rappresentanti dei relativi Governi, dal Comitato Internazionale Permanente già in attività presso la Compagnia Ferroviaria Danubio-Sava-Adriatico, ex Sudbahn. Detto Comitato avrebbe dovuto avere «la facoltà di determinare le condizioni degli accordi che si riferiscono al traffico internazionale sulle reti della Compagnia site in Italia, in Austria, in Ungheria, in Jugoslavia, ed una o più altre reti interessate. Gli Accordi discussi in sede di Amministrazioni ferroviarie, potrebbero essere poi trasformati in Accordi tra i Governi. Se i governi austriaci ed ungheresi fossero in un tale ordine di idee, potrebbe essere fissata una conversazione preliminare per una prima presa di contatto tra i Delegati italiani, austriaci ed ungheresi»72. In effetti Grandi aveva le idee alquanto chiare sui problemi che l’Italia affrontava nei suoi tentativi espansionistici in quest’area. Era per una politica dei passi piccoli, ma concreti. Riteneva ad esempio, che la paventata Unione doganale non fosse in realtà di immediata attualità, non essendo i tempi maturi, e che neppure fosse opportuno concentrare in una volta sola tante questioni. Meglio era procedere per gradi, puntando a risolvere le questioni più difficili indirettamente, e concentrando tutte le energie su questioni più facilmente realizzabili come l’unione ferroviaria di cui pure abbiamo parlato in precedenza. A tal proposito scriveva in un suo memoriale del maggio del 1930, che «questo problema verrà affrontato certamente e sarà risolto con facilità da altri se l’Italia non se ne impossesserà subito, continuando l’opera iniziata con gli Accordi di Roma del 29 marzo 1923, che hanno istituito il Comitato degli Stati attraversati dalla Sudbahn ( Italia, Austria, Ungheria, Jugoslavia ), con il quale collaborano anche organi cecoslovacchi. Concreti suggerimenti sono stati già dati in proposito ancora al tempo in cui si discutevano i trattati di pace. Il Relatore francese Morgain propose la costituzione di una società internazionale per l’esercizio delle ferrovie negli Stati successori. Nel 1923 l’Italia ha risolto la questione parzialmente, per le linee della Sudbahn. Nel 1925 l’Austria prese in esame la questione di un’associazione internazionale ferroviaria, proponendo il rinnovamento della Convenzione del 9 maggio 1883, la quale esisteva tra Austria, Ungheria, Serbia, Turchia e Bulgaria, per assicurare uniformità nell’esercizio ed un regolamento coordinato delle questioni tariffarie a mezzo di una Commissione tariffaria permanente»73. Secondo Grandi, una Convenzione ferroviaria simile poteva comprendere tutte le basi per un intimo collegamento e per una tutela reciproca dei relativi interessi, avviando addirittura le intese per un’Unione doganale; dal momento che le tariffe doganali non integravano soltanto, ma talora sostituivano anche i dazi. In sostanza, alte tariffe ferroviarie potevano essere in funzione dei dazi, mentre basse tariffe ferroviarie potevano correggere i dazi stessi. In particolare Grandi, che sosteneva essere le comunicazioni formidabile strumento dell’avvicinamento economico in funzione anche politica tra gli Stati oggetto dell’interessamento italiano, era risoluto a creare accordi concernenti:
a) l’abolizione dei divieti di transito;
b) l’estensione, a tutte le linee ferroviarie degli Stati firmatari, della Convenzione sulla libertà dei transiti e sulle facilitazioni doganali, che già esiste nei riguardi delle sole linee della Sudbahn;
c) l’unificazione delle disposizioni sui titoli di trasporto (lettere di vettura);
d) l’unificazione dei regimi tariffari, con elaborazione delle tariffe comuni speciali per l’importazione e l’esportazione;
e) l’unificazione dell’esercizio, con relativa centralizzazione, a mezzo di una Società internazionale ferroviari unica, per gli Stati in discorso; con ciò si ridurrebbero enormemente le spese di esercizio ed i costi di trasporto.
Si potrebbe poi giungere:
f) alla costituzione di un Consorzio ferroviario, con un unico Consiglio ferroviario ed un conto comune per i trasporti oltre confine, e con un comune regolamento di esercizio e di movimento nonché
g) alla costituzione di una Banca comune dei trasporti per le operazioni di transito, come fu creata, in misura ridotta, per Fiume, dopo gli Accordi di Nettuno, e come esiste in grande stile per le Ferrovie degli Stati della Germania»74, e dunque fossero state poste le prime basi di un tale accordo, fissando così il diritto dell’Italia all’iniziativa ed all’intervento in quanto Stato successore, nelle questioni dell’organizzazione economica degli Stati sorti dallo smembramento della Monarchia, si sarebbero potute avviare (era questo il nocciolo del pensiero di Grandi) le pratiche più complesse per un’eventuale combinazione doganale, convocando anche i rappresentanti del commercio e della navigazione dei territori interessati per completare ed aggiornare gli studi già effettuati nei riguardi dell’unione doganale. Non a caso proprio in quel periodo Loucheur si recava a Budapest e la sua visita era vista a Roma con una certa diffidenza. Nella sua conferenza, Loucheur, dopo aver esposto i precedenti che avevano condotto alle conferenze dell’Aja e di Parigi ed aver insistito sul fatto che, se si era potuti giungere in tali consessi, malgrado le così complesse e molteplici difficoltà da sormontare, ad una soluzione soddisfacente per le parti in causa, ciò era dovuto alla cooperazione tra le tre Grandi Potenze, Francia, Inghilterra ed Italia. In questa conferenza Arlotta rilevava altresì che Loucheur aveva esposto «innanzitutto i precedenti delle trattative dell’Aja e di Parigi per la soluzione del problema delle riparazioni orientali, ha posto in rilievo l’opera della delegazione ungherese ed i sacrifici delle tre Grandi Potenze, concludendo che l’Ungheria poteva ritenersi soddisfatta dei risultati ottenuti. Passò poi a dire che durante il suo viaggio nell’Europa Centrale ha avuto occasione di constatare che dovunque imperversa una gravissima crisi economica e soprattutto industriale (...) per cui la Francia, pur non essendo interessata direttamente alla crisi dell’Europa media, non può assistere con indifferenza alle difficoltà economiche di innumerevoli Stati d’Europa. Ecco perché Briand ha sentito la necessità di invitare i popoli d’Europa a cercare una soluzione che porti all’organizzazione dell’Europa di fronte all’organizzazione dell’America dalla quale con l’appoggio di molteplici esempi tratti dall’industria, dal commercio, dalla finanza e dai sistemi tariffari adottati, ha posto in rilievo tutta la necessità di una salda e compatta difesa».75
Prima però di qualsiasi intesa economica, occorreva chiarire le possibilità politiche, nel senso che Inghilterra, Italia, Francia e Germania dovevano stare a capo del movimento che si proponeva di sanare la crisi europea. A tal proposito Loucheur nel telegramma di Arlotta «respinge categoricamente le accuse apparse sulla stampa europea, secondo cui la Francia, attraverso la confederazione degli Stati d’Europa, tenderebbe ad assicurarsi l’egemonia sul continente».76 Secondo Preziosi, Regio Ministro italiano a Bucarest, «la visita del signor Loucheur poteva dare adito alle seguenti conclusioni:
1°) che col suo viaggio nei Balcani egli abbia voluto soppesare le probabilità di riuscita di un sistema di cooperazione economica degli Stati danubiani, sotto l’egida della Francia;
2°) che nella Capitale Magiara, facendo valere principalmente l’aiuto finanziario della Francia, egli cercherà di attirare l’Ungheria, sia pure solo sul piano economico, nella sfera degli Stati di questa parte d’Europa, ligi alla politica del Quai d’Orsay;
3°) che il signor Loucheur considera essere questo momento assai opportuno per tentativi del genere, e ciò non solo perché la soluzione delle riparazioni orientali è venuta a costituire una condizione favorevole per un riavvicinamento all’Ungheria da parte degli Stati limitrofi ma anche perché egli ritiene che l’Ungheria trovasi adesso in uno stato d’animo particolarmente propizio».77 u questi temi interveniva lo stesso Conte Bethlen, in un discorso tenuto a Debreczen nel giugno di quello stesso anno, definendo la portata per l’Ungheria degli accordi dell’Aja e valutando in maniera più generale la politica estera magiara. In particolare sul primo tema egli sosteneva che gli accordi dell’Aja «hanno risolto il problema delle riparazioni ed hanno risolto inoltre tutta una serie di problemi che erano sospesi tra noi ed i nostri vicini e da un decennio a questa parte rendevano difficile ed avvelenavano i nostri rapporti, rendendo impossibile quasi lo sviluppo di quella atmosfera che dal punto di vista della politica estera può essere detta normale».78 Tali problemi erano stati risolti, per cui era subentrato il momento in cui tra l’Ungheria ed i suoi vicini si stabilissero migliori rapporti. Questo però non bastava, perché se era vero che gli ungheresi si dichiaravano disposti ad una certa collaborazione economica, era vero altresì che una migliore atmosfera sarebbe subentrata solo alla soluzione dell’annoso problema delle minoranze ungheresi nei territori ormai perduti. Tuttavia Bethlen non intendeva assolutamente appoggiare posizioni di chiusura alle relazioni internazionali di cui invece il suo Paese aveva, come già detto, necessità. Particolarmente calorose risultavano essere le sue parole oltre che verso Roma, del tutto naturali, anche verso Berlino, la qual cosa non poteva non destare l’attenzione dei solerti funzionari d’ambasciata italiani a Budapest. Difatti nel telespresso che Guariglia inviava al ministero degli Esteri a Roma si riportava che «il Lokal Anzeiger porta un’intervista concessa dal Capo del Governo ungherese subito dopo essere giunto a Berlino il 22 (novembre) sera. Alla domanda su quali possibilità egli vede di estendere anche al campo politico ed economico le relazioni esistenti tra il Reich e l’Ungheria, Bethlen ha risposto di aver accettato con tanto maggior piacere l’invito del Governo tedesco, in quanto è convinto che la sua visita non solo servirà a rinsaldare i vincoli di amicizia tradizionale tra i due Paesi, ma anche le relazioni economiche, in maniera soddisfacente tra i due Paesi. Inoltre la sua visita fornisce occasione per parlare coi principali uomini di Stato tedeschi circa le questioni politiche interessanti i due Paesi per giungere ad una maggiore collaborazione anche su questi punti».79 Ad una seconda interrogazione circa i rimedi contro la crisi dell’agricoltura, che in forza della crisi mondiale si faceva sentire pesantemente anche in Ungheria, Bethlen aveva ricordato che «già il Trattato del Trianon, privando l’Ungheria dei suoi principali sbocchi, ha duramente provato il Paese, che è prevalentemente agricolo. Ciò ha provocato già a suo tempo dei provvedimenti a favore dell’Agricoltura, specialmente quella produttrice di cereali. Dato però che il protezionismo agricolo prevalente in tutto il mondo ha reso insufficienti quelle misure, ne sono state necessarie delle altre. Così il Governo ha appoggiato i progetti di collaborazione agricola con gli Stati confinanti».80 In buona sostanza, il Conte Bethlen sperava di poter avere al riguardo delle conversazioni con gli uomini di Stato responsabili in modo da concedere all’agricoltura ungherese delle mitigazioni alla crisi che attraversava. Per quanto poi concerneva gli obiettivi della politica estera ungherese nonché le relazioni con l’Italia ed i suoi confinanti, Bethlen rispondeva che «le nostre aspirazioni sono rivolte costantemente a rimuovere, mediante i mezzi pacifici previsti dai Trattati di Pace, le gravi ingiustizie commesse contro l’Ungheria. Come nel passato, così per il futuro, l’Ungheria intende collaborare con tutti i Paesi che abbiano obiettivi consimili, e che siano decise ad appoggiare quelle aspirazioni in base alla esistente comunanza di destino. Per quanto riguarda i nostri vicini, le nostre relazioni con l’Austria sono animate da sincera amicizia. Cogli altri Paesi, il Governo ungherese aspira al mantenimento di relazioni corrette. Non occorre dire che le relazioni dell’Ungheria coll’Italia sono calde e cordiali: naturalmente sono chiacchiere tendenziose tutte quelle che vogliono far credere ad una alleanza segreta ed aggressiva dei nostri Stati. Con gioia abbiamo stretto la mano amichevole che ci offriva Mussolini, ed apprezziamo il fatto che egli, nella lotta politica che conduce a difesa degli interessi del suo Paese, sappia anche appoggiare energicamente e sinceramente i giusti postulati ungheresi».81
Detto questo va però aggiunto che il Conte Bethlen riservava parole dolci anche al suo interlocutore tedesco, sostenendo che «in Ungheria si è seguita con la massima attenzione ed ammirazione quanto il popolo tedesco ha fatto per la sua ricostruzione nel Dopoguerra».82 D’altronde non era seriamente dubitabile che tra i due Paesi in questione vi fossero punti di contatto «e che il “parallelismo” della politica estera tedesca e di quella ungherese ha già dato più volte buoni frutti, ad es. nella soppressione dei controlli militari, e potrà darne in avvenire, per es. sulla questione delle Minoranze. Ciò ha reso perfino superflua la stipulazione di particolari accordi internazionali tra la Germania e l’Ungheria. Il principale obiettivo delle due Nazioni è il riacquisto della piena libertà d’azione, con mezzi pacifici, ed il ristabilimento della parità giuridica dei Popoli nella vita internazionale. (...) Ritornando ai legami culturali che esistono già da secoli tra la Germania e l’Ungheria, ha detto che essi sono la parte più caratteristica nelle relazioni tra i due Paesi, citando la minoranza tedesca in Ungheria, che forma una parte molto apprezzata dello Stato tedesco e mantiene fino fra le pareti domestiche la simpatia per la lingua, l’individualità, il germanesimo. Passando poi alle relazioni economiche, ha detto che quanto sono chiare le linee dei rapporti politici e culturali, altrettanto indeterminate sono quelle future della vita economica. Comunque, nei più importanti circoli economici dell’Ungheria è stato manifestato il desiderio che i legami economici tra i due popoli siano adattati agli amichevoli legami politici esistenti. Tutta l’economia ungherese risente duramente il cambiamento intervenuto nella politica economica tedesca del Dopoguerra. Pur tenendo conto delle necessità dell’Agricoltura tedesca, tuttavia esistono misure che l’Ungheria risente come proibitive, ed il Popolo ungherese chiede pertanto che anche l’Ungheria faccia una politica economica mirata esclusivamente ai suoi interessi. Bethlen ha espresso il voto che il contatto immediato coi principali uomini di Stato tedeschi favorisca l’aspirazione a creare tra i due Paesi, pur con tutte le difficoltà esistenti, dei rapporti economici tali, che giovino egualmente all’interesse collettivo».83
Con queste parole, Bethlen non faceva che andare incontro a quelle che erano le aspirazioni tedesche, tese a far sì che le relazioni basate sui comuni ideali politici e culturali trovassero espressioni sempre più forti anche nel campo economico. «Si può quindi sperare che - era la risposta del Cancelliere Brüning a Bethlen - malgrado le differenze di struttura economica, si possa trovare una conciliazione dei giusti interessi anche su questo campo, data la sicurezza che esiste una buona volontà».84
A conclusione dei suoi incontri politici con i rappresentanti della Nazione tedesca, Bethlen teneva alla Radio un dialogo con il Dr. Fritz Klein, Direttore della Deutsche Allgemeine Zeitung ed oriundo transilvano. Anche in questa sede venivano ripetuti i temi sulla reciprocità delle visioni politiche ed economiche nonché sui persistenti legami culturali che legavano Berlino a Budapest e viceversa. Tuttavia in questo intricato intreccio diplomatico teso a migliorare sempre più le relazioni con Berlino, era ben chiaro che gli ungheresi dovessero fare il possibile per mantenersi buono anche l’alleato italiano, che al momento costituiva il perno più importante della costruzione magiara volta a ricostruirsi una propria precisa identità internazionale. Ben gradite risultavano dunque essere tutte quelle occasioni in cui i rappresentanti ungheresi si trovavano di fronte i propri colleghi italiani e tedeschi coi quali evidentemente risultava possibile imbastire nove trame di quel vecchio gioco di alleanze e strategie politiche ed economiche. Proprio in una di queste occasioni, vale a dire ad una colazione offerta dal Ministro di Ungheria a Berlino, presenti Brüning, Curtius, il Nunzio Apostolico, l’Ambasciatore di Turchia, ed alti personaggi militari tedeschi, Bethlen coglieva l’occasione per intrattenere Guariglia sul notevole miglioramento dei rapporti tra i due Governi di Roma Berlino, esprimendo altresì il parere che la Germania si liberasse dalle pendenze internazionali che ancora l’opprimevano, per poter fissare successivamente la propria politica internazionale. D’altra parte era chiaro che il Governo del Reich intendesse mantenere la piena libertà di movimento senza legarsi ad alcuno, ma era evidente che la corrente portava decisamente la Germania verso l’Italia, cosa che gli ungheresi vedevano con estremo favore. Anche Curtius era dello stesso avviso e di sua iniziativa - così riporta nel suo telegramma Guariglia - «si è dimostrato un po' più loquace del consueto sul tema dei rapporti tra Italia e Germania. Egli ha constatato che la politica estera dei due Governi si è oramai instradata su due linee che corrono, per ora, parallelamente, ma che hanno forte tendenza a convergere, un giorno, verso un punto di comune difesa. Egli non solo non intende ostacolare lo sviluppo di questo movimento ma anzi, senza impazienze, desidera favorirlo. Soltanto chi gli rende difficile l’attuazione di questo suo intento sono i nazionalisti socialisti ed i partiti di destra col gridare, come fanno, ai quattro venti, la convenienza per la Germania di un’alleanza con l’Italia. Ciò lo compromette e rende molto sospettoso il Governo di Parigi».85
Forse era proprio questa la ragione che aveva fatto spostare di qualche mese la conclusione di trattati commerciali tra Germania ed Ungheria, dati per imminenti. Von Kanya a tal proposito si era dichiarato molto soddisfatto dei risultati raggiunti da un punto di vista politico, meno da quelli economici. Certamente occorre registrare che sotto la pressione del Cancelliere Brüning e del Ministro degli Esteri Curtius, il Ministro dell’Agricoltura del Reich aveva abbandonato la posizione assolutamente negativa presa contro i desideri del Governo e gli interessati ungheresi per quanto riguardava l’importazione in Germania di un certo numero di suini ungheresi. Tuttavia, sia per preparare l’opinione pubblica tedesca, sia per valutare quale fine avrebbero avuto gli accordi commerciali con la Polonia - che erano stati conclusi ma non ancora ratificati e dei quali dunque non si poteva ancora calcolare la portata - era stato combinato che le suddette trattative commerciali tra Germania ed Ungheria dovessero slittare ancora di qualche mese prevedendosi la conclusione per il marzo dell’anno successivo. Per completezza d’esposizione va detto che secondo quanto risulta dall’analisi dei documenti storici relativi ai trattati commerciali ungaro-tedeschi, tra le ragioni per le quali il Governo tedesco avrebbe voluto rimandare il negoziato commerciale vi sarebbe stata anche quella di premere con concessioni commerciali doganali sul Governo ungherese per ottenere compensi sul campo politico, tanto più che si prevedeva che per quell’epoca sarebbero maturati alcuni avvenimenti che avrebbero dovuto portare alla direzione della cosa pubblica del Reich un Governo monocolore e più attivo. Se queste erano le premesse, appare evidente la soddisfazione da parte della diplomazia magiara per gli evidenti risultati politici raggiunti -impossibili fin quando al potere in Germania rimaneva Stresemann ed il partito democratico socialista- constatandosi cioè che non solo nella questione del disarmo e della revisione dei trattati, ma anche nella futura sistemazione dell’equilibrio continentale europeo, la Germania e l’Ungheria avrebbero trovato in un accordo potenziale e formale la migliore garanzia per la salvaguardia dei propri multiformi interessi politici ed economici.
20 ASMAE. A.E., Promemoria del Delegato commerciale italiano a Budapest riportato in telegramma n. 1453/572. Durini di Monza a Mussolini.
21 Ivi.
22 Ivi.
23 Ivi.
24 ASMAE. A.E., Ufficio Trattati. Protocollo n. 20231. Roma. 19.7.1928. Martelli a Mussolini.
25 ASMAE. AIE. Direzione Generale delle Dogane. Protocollo n. 2493. Roma. 9.7.1928. Il Ministro delle Finanze a Mussolini.
26 Rapporto del delegato italiano alla Commissione per le Riparazioni a Mussolini n.8556. Parigi. 22.2.1928.
27 Ivi.
28 Ivi.
29 ASMAE. A. P. Telegramma n. 1253/52. Roma. 12.3.1928. Mussolini a De Astis.
30 ASMAE, A.P. Rapporto inviato da Durini di Monza a Mussolini. Budapest 9.4.1928.
31 Ivi.
32 Ivi.
33 ASMAE. A.P. Telegramma n. 3007. Budapest 21.11.1928. Durini di Monza a Mussolini.
34 ASMAE. A.E. Rapporto n.138 Ris.mo SEGRETO. Budapest 10.4.1029. Oxilia all’Ufficio s.m. Regia Aeronautica 1° Rep. Operazioni- 3^ Div.Informazioni, e per conoscenza a Mussolini.
35 ASMAE. A.E. Promemoria n. 223666. Roma. 30.4.1929. Guariglia a Oxilia.
36 Ivi.
37 ASMAE. A.E. Telespresso n. 27859/827. Roma. 23.5.1929. Mussolini al Ministero dell’Aeronautica.
38 ASMAE. A.P. Relazione sulla situazione politico-militare in Ungheria. Budapest. 1.12.1928-31.1.1929. Regio Addetto Militare Ten. Col. Oxilia a Mussolini.
39 Ivi.
40 Ivi.
41 ASMAE. A.P. Intervista rilasciata da De Astis a Miklos Virag del quotidiano ungherese “8 Orai Ujsag”. Budapest. 26.12.1929.
42 Ivi.
43 Ivi.
44 Ibidem.
45 ASMAE. A.P. Kobor: “Nuove Relazioni”, articol.o tratto dal giornale “Ujsàg”, del 7.2.1930. inviato da Arlotta a Mussolini.
46 Ibidem.
47 ASMAE. A. P. Kobor: “Orientamento Tedesco”. Articolo tratto dal quotidiano “Ujsàg” del 17.1.1930, inviato in un telegramma dell’11.2.1930 da Arlotta a Mussolini.
48 ASMAE. A.P. Telegramma n. 380/125. Budapest. 5.2.1930. Arlotta a Mussolini.
49 Ibidem.
50 ASMAE A.P. Miklos Kàtai “Le nuove vie della politica estera italiana” tratta dal giornale “Magyarsàg” del 7.3.1930, inviata in un telegramma dell’11.3.1930 da Arlotta a Mussolini.
51 Ivi.
52 Documenti Diplomatici Italiani. Vol VII n. 55.
53 D.D. Vol.IX n. 55.
56 Ivi.
57 Ivi.
58 D.D. Vol. IX n. 63.
59 Ivi.
60 Ivi.
61 Ivi.
62 D.D. Vol. IX n.228.
63 D.D. Vol. IX n.266.
64 ASMAE. A.P. Telegramma n. 1752/229. Budapest 9.4.1930. Arlotta a Grandi.
65 Ivi.
66 D.D. Vol. IX n. 233.
67 Ivi.
68 D.D. Vol. X n. 51.
69 ASMAE A.P. Messaggio Riservato Confidenziale n. 2236/413. Budapest 3.5.1930. Arlotta a Grandi.
70 ASMAE. A.P. Memoriale spedito da Grandi ad Auriti ed Arlotta. Roma. 23.5.1930.
71 Ibidem.
72 Ivi.
73 Ivi.
74 Ivi.
75 ASMAE. A.P. Telegramma n. 2943/507 inviato da Arlotta a Grandi . Budapest. 3.6.1930.
76 Ibidem.
77 ASMAE. A.P. Telegramma n. 541 inviato da Preziosi alle delegazioni italiane di Parigi, Vienna, Budapest, Praga e Belgrado. Bucarest. 6.6.1930.
78 Discorso di Bethlen a Debreczen. 6.7.1930.
79 ASMAE. A.P. Telespresso n.242259/853 spedito da Guariglia al Ministero degli Esteri a Roma. Budapest, 23.11.1930.
80 Ibidem.
81 Ivi.
82 Ibidem.
83 Ivi.
84 Ivi.
85 ASMAE. A. P. Telegramma n. 3696/1911 spedito da Guariglia al Ministro degli Affari Esteri Grandi a Roma. Berlino., 23.11. 1930.