Intanto, l’11 dicembre del 1930 i giornali ungheresi uscivano in edizione speciale riportando un comunicato ufficiale dell’Agenzia Telegrafica Ungherese, secondo cui il Reggente Ammiraglio Horthy aveva diretto una lettera al Ministro degli Esteri Walko, esonerandolo, a seguito della sua richiesta, dalla carica che già copriva da cinque anni a capo del Ministero degli Affari Esteri, ed una lettera al conte Giulio Karolyi, “Custode della Corona” e membro della Camera Alta, con cui lo nominava Ministro degli Affari Esteri d’Ungheria. Questo avvenimento procurava quantomeno stupore per il fatto che era capitato inaspettatamente, tanto più che il Paese, quantunque versasse in una situazione economica difficile, tutto sommato aveva dato dimostrazione di sapersi muovere con discreta abilità nelle manovre economiche così complesse tra Italia, Austria e Germania. Comunque sia, eventuali timori circa una revisione della condotta della politica estera ungherese in senso contrario a quello in cui era andata l’Ungheria, dovevano essere rapidamente fugati. Difatti nel febbraio del 1931, vale a dire appena due mesi dopo la nomina di Karolyi agli Esteri, il Conte Bethlen coglieva l’occasione per recarsi a Vienna. «L’organo principale del Ministro Schober, scriveva in un telespresso Guariglia a Grandi, il “Wiener Neueste Nachrichten” scriveva che per capire che cosa significa il Trattato di amicizia concluso con l’Ungheria bisogna innanzitutto dire chiaramente quel che esso non significa. Esso non significa l’inizio di un rinnovo degli antichi rapporti di reciprocità, che appartengono alla storia. Nessuno, cui Dio abbia dato raziocinio politico, pensa di far girare indietro la macchina della storia né su base costituzionale , né su base dinastica. Il Trattato di amicizia (che era stato appena firmato) non significa neanche che l’Austria voglia entrare nella pericolosa sfera delle costellazioni politiche sudorientali. Il giornale, passando ad esaminare i lati positivi del Trattato, rileva con compiacimento che Bethlen prima di venire in Austria è stato a Berlino ed osserva che la collaborazione economica austro-ungherese potrà essere veramente proficua soltanto quando vi parteciperà anche la Germania».86 Parte della stampa austriaca attribuiva questa visita al fatto che Bethlen, ritenuto uno strumento di Mussolini, sperava di attirare l’Austria nella sfera degli interessi italiani, senza però riuscirvi, essendo Schober troppo intelligente da lasciarsi abbindolare da Bethlen o da chi sta dietro di lui in Italia. Oltretutto conviene ricordare in questa sede che, certamente il pendolo della posizione politica austriaca non poteva oscillare ostentatamente verso la intesa italo magiara perché così facendo si sarebbe trovata immediatamente contrario il fronte politico ed economico di Belgrado e Praga. Il solerte Gueriglia tuttavia riportava anche i commenti della stampa tedesca alla visita in discussione. In particolare riportava che «la visita fatta nei giorni scorsi da Bethlen a Vienna non ha molto attirato l’attenzione di questa stampa, troppo assorbita da altre questioni di politica estera e molto più ancora da quelle di politica interna, per potervi dedicare più di una notizia abbastanza breve e non esorbitante, neppure nelle intitolazioni, dalle frasi stereotipate di “amicizia” e “riavvicinamento” austro-ungherese. Neppure i più decisi fautori dell’Anschluss hanno affacciato i soliti timori che un orientamento dell’Austria verso l’Ungheria possa di altrettanto farla allontanare dalla Germania».87 In particolare la “Suddendeutsche Zeitung” analizzava il fatto che il Trattato firmato a Vienna costituiva null’altro che un ampliamento di quello concluso nel 1923, in quanto sottoponeva al procedimento di conciliazione ed arbitrato non solo tutte le divergenze di carattere politico, ma anche quelle economiche e di vario genere. Circa il discorso del conte Bethlen, il quotidiano si prefigurava la possibilità che si verificassero accordi economici di larga portata ed ancora che, date le condizioni speciali dei due paesi e cioè essendo l’Ungheria spinta a cercare i suoi interessi nei Balcani, e l’Austria non potendo fare che da mediatrice tra l’Europa occidentale e quella sudorientale, la frontiera austro-ungherese veniva a costituire il punto di sutura sul quale doveva compiersi la conciliazione economica al di sopra degli interessi particolari che si intrecciavano strettamente. Da questo punto di vista il consolidamento delle relazioni tra questi due Paesi assumeva un’importanza fondamentale per l’Europa stessa, tanto da essere adeguatamente sottolineata. La Germania, si leggeva nei vari articoli della stampa, ne prendeva atto con viva soddisfazione non solo per i sentimenti di amicizia che il Popolo tedesco nutriva verso i due Paesi, ma anche - e vorremmo dire soprattutto - per il forte interesse che aveva alla loro prosperità economica, che unitamente ai vincoli storici, avevano favorito lo scambio di beni spirituali e materiali d’ogni genere tra la Germania e d il Sud-Est. Quanto detto si ritrovava validamente espresso in un messaggio segreto inviato da Arlotta a Grandi nell’aprile del 1931. A parte le conseguenze del grave disagio di cui soffriva il Paese per la crisi economica, il 1930 aveva segnato per l’Ungheria un periodo di relativa calma all’interno, cui faceva riscontro una notevole attività in politica estera. Difatti i frequentissimi contatti mantenuti dal Governo con l’estero e l’azione da esso svolta durante l’anno avevano migliorato le relazioni dell’Ungheria con tutti gli Stati ad eccezione della Cecoslovacchia. L’impressione generale che si ricava dallo studio dei documenti è che l’azione svolta dalla diplomazia magiara e dalla politica estera ungherese, avesse perso quei precedenti caratteri d’incertezza che le erano stati in qualche modo propri, diventando sempre più chiara, spedita ed incisiva, facendo sì che i risultati ottenuti influissero positivamente anche sulla politica interna. È dunque superfluo aggiungere che anche l’atteggiamento del Governo Ungherese verso l’Italia aveva guadagnato - se possibile - franchezza e cordialità e le relazioni tra i due Paesi si erano ulteriormente approfondite. Difatti anche nel 1930, la questione delle riparazioni , connessa all’altra degli optanti, aveva occupato il Governo e tenuta desta l’attenzione dell’opinione pubblica durante e dopo le note conferenze dell’Aja e di Parigi. Se le trattative, come già detto, si erano concluse vantaggiosamente per l’Ungheria, ciò era potuto accadere grazie soprattutto all’incondizionato appoggio concessole dall’Italia, con la firma degli accordi di Parigi, il 28 aprile. L’Ungheria aveva potuto così riacquistare la sua indipendenza finanziaria e liquidare, almeno in diritto, se non ancora di fatto, definitivamente il problema degli optanti che così gravemente intralciava la sua libertà interna ed internazionale. Ciò che però colpiva maggiormente, scorrendo gli avvenimenti di politica estera ungherese per il 1930, era l’intensa e spigliata attività dimostratasi attraverso contatti presi direttamente dai dirigenti la politica estera ungherese coi dirigenti la politica estera degli altri Paesi - e dunque non solo l’Italia - mediante continui viaggi e partecipazioni a conferenze internazionali. Il conte Bethlen, dopo le trattative personalmente condotte all’Aja, si era recato a Parigi (febbraio e poi marzo), a Roma (aprile), a Londra (giugno), a Venezia (ottobre), ad Angora(ottobre), a Berlino (novembre). Il Ministro degli Esteri Walko, dopo il suo ritorno dall’Aja, aveva visitato i Governi di Angora (marzo), Atene (maggio), e si era incontrato anche, in veste non ufficiale a Sofia con Liapceff ed a Vienna con Schober. Il Ministro del Commercio Bud aveva presenziato all’inaugurazione della Fiera di Bari in settembre, e si era recato a Roma in novembre per importanti trattative di carattere economico. In particolare con l’Italia, le relazioni erano state caratterizzate nel 1930 da una serie ininterrotta di avvenimenti favorevoli che avevano sensibilmente accentuato l’atmosfera di preesistente cordialità. L’anno era infatti cominciato con le manifestazioni di gratitudine per il Governo italiano, che per espresso volere di Mussolini, aveva inviato in Ungheria i suoi esperti per prendere preventivamente accordi in merito al problema delle riparazioni, assistendo la nazione amica validamente sia all’Aja che a Parigi, tanto da guadagnarsi l’unanime ringraziamento del Parlamento, della stampa e dell’opinione pubblica. Nel marzo, la solenne consegna del Collare dell’Annunziata a S.A.S. il Reggente aveva prodotto profonda impressione ed aveva avuto un’eco molto favorevole. Le accoglienze riservate al Ministro dell’Agricoltura e delle Foreste, On. Acerbo, e poi al Sottosegretario On. Lessona, valevano a dimostrare ancora una volta, al generale simpatia magiara verso l’Italia.
I viaggi del conte Bethlen a Roma (aprile) per rendere visita a Mussolini e la breve visita di Grandi a Budapest (giugno) avevano favorito gli scambi di vedute tra i dirigenti della politica tra i due Paesi , stringendo legami molto saldi. Proposte fatte dall’Italia per speciali intese nel campo economico erano state accolte col maggior favore, e le conversazioni in proposito continuavano a svolgersi in un’atmosfera assai propizia. Lo stesso Ministro del Commercio Bud si era recato in novembre a Roma assieme al Capo del Dipartimento Economico del Ministero degli Affari Esteri, dimostrando così l’importanza che il Governo magiaro annetteva al progetto. Il reciproco invio di numerose commissioni e persone allo scopo di trattare svariate questioni tecniche aveva facilitato i contatti tra le amministrazioni dei due Paesi e d’altronde personalità, conferenzieri, rappresentanze di vari gruppi e ceti, amichevoli gruppi sportivi, avevano quotidianamente mantenuto viva l’attenzione dell’opinione pubblica sull’Italia. A tal proposito andava ricordato anche il tentativo effettuato dal Conte Volpi per la penetrazione del capitale italiano per lo sviluppo della produzione e dell’impiego in Ungheria dell’energia elettrica. Ovunque in Ungheria si sottolineava il fatto che vi fosse un solo Paese col quale l’Ungheria non solo non aveva superfici di attrito, ma addirittura interessi convergenti e questo Paese non era che l’Italia. Quanto detto non doveva evidentemente risultare esagerato se era vero che in un discorso tenuto nel giugno del 1931, Bethlen cominciava a parlare di accordi regionali con l’Italia e l’Austria. Ma in che cosa consisteva questa soluzione regionale? «Consiste nel fatto che -diceva Bethlen nel suo discorso- gli stati industriali, che si dichiarano disposti ad un tanto, e gli stati agricoli che aderiscono ad un tale corso di idee, concludiamo un accordo doganale, negli ambiti del quale o dagli stati esportatori venga assunta su base contingentale una data quantità di grano ad un prezzo più alto del prezzo dei mercati mondiali, oppure agli stati esportatori venga dato un appoggio atto a raggiungere il medesimo risultato. Il valore di tale soluzione dipende dalla possibilità o meno di piazzare su tale base tutto il disavanzo dei prodotti dell’Ungheria. Perché se non si riesce a piazzare tutto il disavanzo o di questo si riesce a piazzarne solo una parte, ne rimane sempre un quantitativo che potrà essere piazzato solo al prezzo dei mercati mondiali, ciò che provocherebbe una pressione sui prezzi all’interno. Noi abbiamo concluso un accordo su base regionalistica con l’Italia e l’Austria, accordo che garantirà all’Ungheria la possibilità di piazzare in questi Paesi il suo grano ad un prezzo sensibilmente superiore alla parità mondiale. Se a ciò aggiungo la bolletta, che diamo agli agricoltori come un appoggio interno, si giungerà quasi al doppio del prezzo di 9 o 10 pengö al quintale che oggi domina i mercati mondiali. Se aggiungo poi che negli ambiti di tali accordi non abbiamo dimenticato il problema dell’esportazione del nostro bestiame, si vedrà che l’agricoltura ungherese non corre il rischio di sistemarsi unilateralmente sulla produzione di grano, ma che avrà numerose possibilità di piazzare sul mercato estero anche il nostro bestiame. Gli accordi con l’Italia e l’Austria hanno validità di un anno, essi costituiscono solo un primo passo sulla via che tutti i Governi avranno in avvenire il dovere di seguire. Questa è la base di questi accordi che spero potranno essere completati in avvenire con l’accordo con la Germania e la Cecoslovacchia, e difatti tali accordi offrono una base all’agricoltura ungherese di poter trovare in futuro il proprio tornaconto. Io non esito a dichiarare che se sarà necessario andremo fino all’unione doganale ».88 D’altra parte, la politica di necessità avviata da parte del gabinetto Bethlen, giustificava il progetto di legge sui poteri eccezionali affidati al Governo in materia finanziaria, ponendo un limite agli attacchi della opposizione, sia in materia finanziaria che in politica estera. Relativamente alla prima questione, il progetto di legge conferiva al Governo poteri eccezionali in materia finanziaria e prevedeva una commissione composta da 33 membri, col compito di assisterlo e di controllarlo in questo campo della propria attività. Compito di questa commissione sarebbe stato quello di difendere la politica finanziaria seguita da Bethlen negli ultimi sette anni, dimostrando che l’assai sensibile progressivo aumento della spesa statale, dal 1924 in poi, contro cui si accaniva lo spirito battagliero dell’opposizione, si riduceva, defalcando le somme devolute alla valorizzazione delle cartelle dei prestiti di guerra ed alle opere assistenziali, a soli 10.9 mil. di pengö in confronto al Bilancio del 1924, e cioè ad un equivalente dell’ 1.24% di esso.
Per quanto concerneva la politica estera, l’opposizione aveva imputato al Governo la responsabilità di non aver voluto o saputo far mantenere dalle Grandi Potenze la promessa fatta all’Aja nel dicembre 1929, di un prestito internazionale: il Conte Bethlen aveva chiarito la portata reale di tale promessa, invero assai vaga, aggiungendo che i prestiti ottenuti successivamente dalla Piccola Intesa, non avevano una base puramente finanziaria, ma bensì essenzialmente politica. Ma ciò che aveva fornito a Bethlen l’occasione di parlare della sua politica italiana, «è stata un’insinuazione del deputato democratico dell’opposizione, On. Carlo Rassay, secondo il quale l’orientamento del Presidente del Consiglio verso l’Italia, rispondendo a criteri troppo unilaterali, finirebbe per porre il paese nell’isolamento, in un momento in cui più che mai ogni appoggio giungerebbe opportuno e, in particolare, che il patto d’amicizia con l’Italia renderebbe difficile un conveniente accordo con la Francia e la creazione di una situazione più amichevole verso questo Paese»89. Il Conte Bethlen rispondeva a queste accuse, mettendo in rilievo i vantaggi generali dell’amicizia italiana, la quale, ben lontana dal porre l’Ungheria nell’isolamento, le aveva anzi consentito di uscirne; i vantaggi concreti dall’Ungheria ottenuti all’Aja e a Parigi nel gennaio dell’anno scorso in seguito all’appoggio italiano, durante i lavori preparatori e la conferenza per le riparazioni orientali (a tale riguardo ancora una volta andrebbe sottolineato come dall’analisi dei documenti risulti la riconoscenza personale e sincera del Conte e del suo Governo alla politica perseguita da parte italiana nei confronti degli ungheresi); ed infine veniva ribadito il concetto che il desiderabile miglioramento dei rapporti con la Francia, non era affatto compatibile con l’amicizia italiana, e che «mai è stata fatta da parte dell’Italia sotto alcuna forma, una qualsiasi allusione intesa a che l’Ungheria non mantenga buoni rapporti con la Francia»90. Anzi Bethlen, riferendosi alle note trattative con la Francia per una partecipazione dei banchieri francesi al prestito all’Ungheria di 6 milioni di sterline, si dichiarava disposto a questo avvicinamento, pur stabilendo in modo assoluto che a nessun interesse materiale l’Ungheria avrebbe dovuto sacrificare le sue aspirazioni nazionali ed i suoi lontani ideali politici.
E proprio in seguito alle forti sollecitazioni francesi, di cui questa offerta di prestito era evidente testimonianza, occorre segnalare la ripresa “concreta“ dell’iniziativa italiana a sostegno della causa magiara. In un rapporto riservatissimo inviato nell’agosto del 1931 da Arlotta a Grandi, si leggeva infatti «del vivo senso di gratitudine manifestato da questo Presidente del Consiglio in nome di tutto il Governo Ungherese, per la partecipazione decisa dall’Italia al prestito internazionale a scadenza breve, in favore dell’Ungheria, il cui negoziato è, almeno per la prima tranche di cinque milioni di sterline, pressoché ultimato»91. Arlotta aggiungeva che, indipendentemente dall’ammontare della quota che, nella situazione di difficoltà finanziaria in cui si dibatteva l’Italia, sarebbe stato possibile assumere su tale tranche, gli sembrava possibile constatare con soddisfazione come detto gesto, avente una grande importanza politica per i magiari, fosse stata apprezzata nel suo giusto valore, in quanto la presenza italiana in questa operazione di credito era valsa a dimostrare ancora una volta la persistente assistenza che veniva dall’Italia all’Ungheria, permettendo a Bethlen di controbattere con la prova dei fatti, l’insinuazione fatta circolare pubblicamente da parte dell’opposizione che sosteneva essere Parigi l’unica via di salvezza nelle difficili contingenze che attraversavano il paese. «Di tutto ciò mi ha dato prova di rendersi perfettamente conto il Conte Bethlen, nel nostro colloquio di ieri mattina, motivando egli stesso nel senso ora detto la sua particolare riconoscenza e manifestandomi spontaneamente il proposito - quando portai con lui il discorso su alcuni articoli abbastanza aspramente polemici apparsi proprio negli ultimi giorni nei principali fogli locali d’opposizione, sia demo-liberali che legittimisti. e tendenti evidentemente, sia pure sotto forma di contorti ragionamenti, ad incanalare l’opinione pubblica verso la presunta convenienza di una quasi completa dedizione economica alla Francia, anche a costo di sacrifici di altra natura - di far valorizzare anche meglio, a mezzo della stampa, la portata dell’intervento italiano»92.
Anche sulla stampa emergeva l’aiuto e l’appoggio fornito dall’alleato italiano: aiuto che veniva espresso non sotto forma di armi o appoggi diplomatici, bensì sotto forma di aiuti finanziari da parte di una grande Potenza all’alleata che versava in gravi angustie. «Nelle ultime sedute del Parlamento ungherese - rilevava il Pester Lloyd - fu ripetutamente sottoposto ad una severa critica l’intimo collegamento della politica estera ungherese ed italiana, venne messo in dubbio il valore internazionale di questo legame diplomatico ed infine si insistette per un riorientamento radicale della politica estera magiara. Non si vuol fare in questa sede l’analisi profonda della politica estera ungherese di questi ultimi cinque anni, tuttavia è innegabile che l’Italia abbia reso all’Ungheria, durante i recenti negoziati diplomatici, preziosissimi servigi, tanto nel campo diplomatico che in quello economico. Quest’amicizia perdura anche in un periodo di crisi come quello attuale. Anche l’Italia, come tutti i paesi europei, versa in gravi difficoltà finanziarie, Mussolini stesso ha accentuato questa verità nel suo ultimo discorso rivolto ai ministri tedeschi, e tuttavia il Governo italiano ha preso la deliberazione di partecipare all’opera di salvataggio del credito ungherese, del quale sono attualmente in corso trattative»93. Il quotidiano sottolineava lo sforzo compiuto dall’economia italiana, nell’accorrere in soccorso all’Ungheria, nonostante la non enormità dell’importo e comunque inferiore all’appoggio economico fornitole da Berlino. Molto positivo era comunque il giudizio del Pester Lloyd sui colloqui tenutisi a Roma qualche giorno prima tra Mussolini e il cancelliere Brünig, da cui si evinceva la reciproca volontà di rendere più intime e feconde le relazioni tra Roma e Berlino, dalla cui collaborazione nel campo economico e politico sarebbe derivato il consolidamento della solidarietà internazionale e soprattutto nuove ed importanti prospettive per il superamento della crisi ungherese.
Sembrava dunque che questa entende italo-tedesca potesse recare frutti anche per l’Ungheria, quando, del tutto improvvise ed inaspettate, in data 19 agosto, giungevano le dimissioni di Bethlen e del suo Gabinetto, con l’affidamento provvisorio del Governo al Conte Giulio Karolyi. «Ho detto “improvvisa” crisi - scriveva con la sua consueta chiarezza e precisione Arlotta a Grandi in un messaggio segretissimo - in seguito ad un’assai vivace discussione avvenuta la sera del 18 agosto in seno al Consiglio dei Ministri, e durante il corso della quale, secondo mia fonte attendibilissima, parecchi tra i principali membri del Gabinetto, dopo essersi scambievolmente palleggiata la responsabilità della assai difficile situazione finanziaria in cui è venuta a trovarsi l’Ungheria, avrebbero cercato di attribuirla interamente, con spiegabile suo vivo risentimento, a generica imprevidenza del Conte Bethlen. Il Conte Bethlen, a sua volta, pur senza farmi particolare menzione dell’andamento della citata discussione in Consiglio dei Ministri, mi ha persuaso, durante tale seduta, dell’opportunità di un suo “breve periodo di allontanamento per ragioni di necessario riposo personale” e per far sì che l’arduo compito dell’applicazione delle misure draconiane di economia già da lui predisposte e fatte votare dal Parlamento da lui stesso di recente fatto eleggere, potessero essere assunte e svolte da una mano ferma come quella del Conte Karolyi, del tutto indipendente da precedenti impegni, simpatie o amicizie personali all’interno»94. Dette dimissioni dell’uomo che aveva guidato l’Ungheria attraverso la sua difficile fase di transizione, certamente improvvise ed inaspettate, non dovevano tuttavia addebitarsi ad imposizioni politiche francesi seguite alla contrattazione di un importante prestito effettuato proprio in quel periodo. Certamente la Francia si era indotta a sovvenzionare finanziariamente l’Ungheria per incitarla a perseverare in quell’atteggiamento di maggiore cordialità nelle relazioni con i Paesi della Piccola Intesa, e soprattutto, d’accordo con l’Italia, ad opporsi ai tentativi di una possibile Zoll-Union austro-tedesca. Tuttavia, argomentava Arlotta, la Francia non aveva assunto un atteggiamento scorretto nei confronti dell’Italia, dimostrando, anzi, all’Ungheria di voler cercare una strada da percorrere assieme ad essa. Inoltre l’azione preventiva svolta dall’Italia per facilitare a Parigi e Londra le trattative coi banchieri francesi e la stessa partecipazione al prestito, avevano posto Roma in condizione di dimostrare ancora una volta, il proprio efficace appoggio alla causa magiara.
Dall’analisi dei documenti trattati risultava dunque che, all’inizio del 1931, la situazione interna politica ed economico-finanziaria dell’Ungheria presentava i caratteri fondamentali della crisi dell’anno precedente, con gli stessi problemi, rimasti, dopo laboriosi tentativi, quasi insoluti. D’altra parte, la relativa esiguità del precedente raccolto granario, la crisi delle industrie locali, non così salde da poter opporre un valido baluardo agli influssi della depressione economica generale, mettevano il Paese di fronte a tre questioni fondamentali: quella agricola, (crisi di produzione ma soprattutto di esportazione); quella finanziaria, (consistente soprattutto nel deficit della Bilancia dei pagamenti, in conseguenza delle rimesse fatte e dovute all’estero per il servizio interessi dei differenti prestiti a più o meno breve scadenza contratti sia dallo Stato, che dalle varie Banche private ungheresi per i bisogni dell’industria e del commercio locali); quella occupazionale. Le difficoltà del momento e le divergenze delle opinioni sui mezzi da esperire per porvi riparo, provocarono sin dai primi mesi del 1931 nei partiti politici, qualche tendenza disgregatrice. Così il Blocco nazionale che si stringeva attorno al Governo Bethlen, e che era costituito dal Partito Unico di Governo, dal Partito cristiano-nazional-sociale e dalla grande maggioranza del gruppo dei cosiddetti “Piccoli proprietari”, mostrava già qualche falla che, destinate a conseguenze molto più gravi senza l’abile intervento di Bethlen. Ma se aveva avuto successo la sua mossa di mantenere la solidarietà del Partito cristiano-nazional-sociale, non altrettanto successo aveva avuto il suo tentativo di impedire la secessione dell’altro gruppo fiancheggiatore, quello appunto dei “Piccoli Proprietari”.Questi rappresentavano gl’interessi di una classe agricola media, sorta in seguito al processo di divisione della proprietà terriera nella regione del Bassopiano tra il Danubio ed il Tibisco, e da una quarantina di anni esercitavano in peso abbastanza rilevante nella vita economica e sociale del Paese, occupando un posto intermedio tra il grande latifondismo capitalistico ed il proletariato agricolo. L’opera del leader Stefan Szabò de Nagyatàdi, alla stessa stregua di come avevano fatto Radic in Jugoslavia e Maniu in Romania, era riuscita ad imprimere a questa classe la coscienza della propria importanza come fattore sociale e politico. I “Piccoli Proprietari” si erano orientati al principio del ‘31 in maggioranza verso l’opposizione, ritenendo i partiti governativi troppo conservatori per innalzare il livello della loro classe di fronte alla supremazia soverchiante del latifondo ed incapaci di rompere l’ordinamento, ancora quasi feudale, della grande proprietà. Anche questo partito addebitava a Bethlen le stesse responsabilità di cui lo accusavano gli altri partiti dell’opposizione, e quindi: le spese eccessive fatte per le opere pubbliche in generale; l’insufficienza, nonostante il considerevole sviluppo dei lavori pubblici, dei provvedimenti per fronteggiare la disoccupazione che era salita, secondo i dati dei documenti ufficiali, da 30.000 a 70.000 operai industriali; la resistenza del Governo ad estendere a tutti i collegi elettorali il “voto segreto” (privilegio riservato solo a Budapest, nei centri industriali, e nelle città di Szeged e di Debreczen). D’altro canto, Bethlen, in un discorso polemico tenuto il 15 giugno agli elettori del suo collegio elettorale di Debreczen, difendeva l’opera svolta dal suo Partito e dal suo Governo, dimostrando come la crisi che colpiva l’Ungheria non fosse che un riflesso del disagio economico generale, e come i mezzi per porvi riparo rientrassero solo in piccola parte nelle facoltà del Governo e del Paese, dovendo essi ricercarsi nelle eventuali possibilità di concludere accordi economici con le Nazioni vicine, e facendoli dipendere, in un senso più vasto, dalla collaborazione regionale tra Stati che economicamente si completassero.
Intanto il 6 giugno il Conte Bethlen leggeva alla Camera il decreto col quale il Capo dello Stato, Ammiraglio Horthy, scioglieva il Parlamento; terminava così, dopo quattro anni e mezzo di attività, la prima Legislatura della nuova Ungheria postbellica, e dicesi prima perché dal ‘21 al ‘27 non vi era stato in Ungheria un Parlamento vero e proprio, ma bensì un’Assemblea Nazionale con funzioni di Costituente.
La vita della nuova Assemblea, iniziata nel secondo semestre del ‘31, non poteva essere caratterizzata da speciale attività legislativa, in quanto proprio intorno all’epoca del suo nascere si intensificava in modo assai minaccioso la gravità della situazione economica del Paese. Gli eventi precipitavano: l’improvviso acuirsi della crisi finanziaria, culminante con il provvedimento della chiusura temporanea di tutti gli istituti bancari del Paese e dell’interruzione di ogni operazione finanziaria, richiedeva da parte delle sfere dirigenti quella prontezza ed agilità di decisione che sembrava non potersi realizzare attraverso la complessa procedura parlamentare. Né può dirsi che in questa circostanza l’opposizione avesse avuto un ruolo responsabile e maturo, abbandonandosi - soprattutto da parte dei socialisti e dei democratici - a recriminazioni sterili, sollevando vecchie questioni di principio. L’opposizione legittimista batteva sul punto che la responsabilità dei disagi dovevasi alla riluttanza del Conte Bethlen ad estendere ad altri Paesi e soprattutto alla Francia, la cerchia dei propri orientamenti politici. Ciò nonostante, il 15 luglio, la maggioranza soverchiante di cui disponeva allora il Governo, aveva messo il Conte Bethlen in grado di presentare e fare approvare alla Camera una legge eccezionale che attribuiva al Governo poteri assoluti in materia finanziaria. Ovviamente, come si rileva anche dall’analisi dei documenti, la battaglia per l’approvazione di tale provvedimento era stata quanto mai aspra: si trattava infatti di superare non soltanto l’avversione di tutti i gruppi politici d’opposizione indistintamente, ma anche le preoccupazioni costituzionali di alcuni elementi dello stesso Partito Unico di Governo, nonché di qualche elemento della Camera Alta, che paventavano una menomazione delle garanzie parlamentari. Alla fine dei dibattiti la vittoria era rimasta al Governo, e la legge, il 7 agosto, veniva approvata dalle due Camere.
Mentre il Conte Bethlen dava così la netta sensazione di intraprendere una seria azione a difesa dell’economia e della finanza nazionale, con direttive parallele consistenti, nel campo interno, nell’adozione di severi provvedimenti bancari, e nel campo internazionale, soprattutto nel sollecitare presso i grandi mercati finanziari del mondo il collocamento di un ragguardevole prestito in sterline, l’opinione pubblica del Paese, e si può dire anche dell’estero, restava colpita dalla notizia improvvisa ed inaspettata delle dimissioni del suo Gabinetto (19 agosto). Causa occasionale di questo colpo di scena era stata una assai vivace discussione avvenuta la sera avanti in seno al Consiglio dei Ministri, durante il corso della quale, parecchi tra i principali membri del Governo stesso, avevano attribuito al Presidente la piena responsabilità della crisi dell’Ungheria.
In realtà la causa era un’altra. I sacrifici imposti alle varie classi sociali del Paese in seguito all’annuncio della necessità di adozione da parte del Governo di provvedimenti finanziari draconiani, apparivano in quel momento ancora più aspri per la convinzione, a ragione o a torto diffusasi, che la responsabilità dei mali che avevano suggerito l’adozione di tali provvedimenti, risalisse soprattutto agli stessi membri del Gabinetto Bethlen, specie al Conte Klebelsberg, Ministro dell’Istruzione Pubblica, ed al signor Scitovszky, Ministro dell’interno, la cui larghezza in materia di investimenti in opere pubbliche, era stata spesso spunto di aspre polemiche parlamentari. Di qui la sfiducia di poter ridare al Gabinetto la popolarità ed il prestigio occorrenti in un simile momento, mediante la semplice sostituzione dei membri più duramente criticati, e la susseguente decisione dello stesso Bethlen di cedere ad altra personalità, legata sì alla tradizione della sua politica, ma libera da precedenti impegni, simpatie ed amicizie personali, l’arduo compito dell’applicazione rigidissima delle misure indispensabili (rigorosa economia nelle spese, riduzione degli stipendi a tutti i funzionari, aumento sensibile delle imposte dirette ed indirette) ad attivare ogni tentativo di restaurazione finanziaria anche semplicemente parziale, nonché il peso di raccogliere sulle proprie spalle, della inevitabile impopolarità derivante dall’applicazione delle misure stesse.
Quanto poi alla insinuazione ampiamente diffusa in vari circoli e nella stampa di molti Paesi, che le medesime dimissioni fossero conseguenza di pressioni politiche o finanziarie estere, va detto che andava senz’altro esclusa, e lo stesso dicasi di eventuali cospirazioni legittimiste, data la relativa forza del gruppo parlamentare.
Si giungeva così, il 24 agosto, alla costituzione di un nuovo Governo sotto la presidenza del Conte Giulio Karolyi. Già all’indomani dell’insediamento di questo Gabinetto, come risulta dalla lettura dei succitati documenti, risultava chiaro che la fisionomia dello stesso non differiva sostanzialmente da quello precedente, ed una nuova ed importante conferma di ciò, per la parte concernente i rapporti con l’Italia, si aveva subito, allorquando il nuovo Presidente del Consiglio, nella seduta del 27 agosto, teneva a confermare pubblicamente davanti all’Assemblea legislativa che il suo Governo si sarebbe mantenuto fedele alla tradizione della più stretta e cordiale amicizia con l’Italia. Questo fattore rimaneva per i magiari una costante necessaria per la ricerca di del proprio equilibrio economico. L’attribuzione ad altri Paesi confinanti di ricche zone industriali, aveva fatto di questa Nazione un’entità economica essenzialmente unilaterale. L’industria non risultava essere particolarmente sviluppata, e comunque, tali organismi industriali erano artificiosamente mantenuti nella quasi totalità dei casi con successive somministrazioni di crediti da parte di banche locali, spinte a ciò dallo stesso Governo; ma le banche stesse erano costrette a loro volta, per seguire questa politica, a ricorrere a prestatori esteri, e le imprese locali così sovvenzionate venivano in definitiva a costituire - data l’impossibilità di assorbimento all’interno di tutto il prodotto industriale e la quasi assoluta mancanza di mercati esteri di collocamento - delle vere e proprie immobilizzazioni di capitale con assai grave pregiudizio della liquidità delle posizioni degli istituti finanziari impegnatisi.
Inoltre occorreva tenere ben presente, per avere chiaro il quadro finanziario dell’Ungheria che, l’industria era in parte collegata con l’agricoltura e quindi tributaria di essa. In una simile situazione, esposta, per forza di cose e per mancanza di compensazioni interne, a tutte le ripercussioni sfavorevoli della crisi mondiale, si verificava nel 1931 la duplice aggravante di un raccolto granario assai esiguo ( 17 milioni e mezzo di quintali invece dei 23 dell’anno precedente ) e la discesa del prezzo di esportazione del grano al livello del prezzo internazionale fissato dalla concorrenza americana e dalle ripercussioni del dumping russo. Di qui un evidente inaridimento di questo principale cespite dell’attivo della Bilancia commerciale: inoltre la diminuzione della quantità dei prodotti agricoli esportati - eccezion fatta per il granoturco, il cui raccolto era stato simile per quantità a quello dell’anno precedente - le esigue rimesse degli emigranti, i relativi benefici delle entrate turistiche, non erano tali da correggere sensibilmente lo squilibrio. «Oltre a ciò , anche la Bilancia dei pagamenti, già passiva fin dal 1930, peggiorò per il fatto che la Bilancia commerciale, i cui residui attivi avevano potuto l’anno precedente equilibrarne in gran parte il deficit, non è stata in grado nel 1931 di offrire tale compensazione; circostanza, questa, assai sfavorevole per un Paese che ogni anno deve far fronte al servizio dei suoi debiti esteri - a breve ed a lunga scadenza - assicurandone interessi ed ammortamento»99.
Se peraltro la crisi agricola poteva in definitiva ritenersi la ragione basilare della grande crisi finanziaria che travagliava il Paese, altre circostanze di ordine interno ed internazionale contribuivano ad aggravarla: la politica protezionistica attuata nelle relazioni ceco-ungheresi; l’alto costo dei capitali che ne rendeva più difficile il movimento e la negoziazione e non ultima la finanza eccessivamente liberale di alcuni rami importanti della pubblica amministrazione,«portavano il deficit di Bilancio, per l’anno finanziario 1930/31 a 116.9 milioni di Pengö»100.
Per studiare la possibilità di sopperire al grave difetto di divise estere, cui la Banca Nazionale ungherese non riusciva più a provvedere coi mezzi a sua disposizione, era stato inviato a Budapest fin dal mese di giugno, il signor Charron, fiduciario della Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea, per studiare la possibilità di accogliere la richiesta un prestito estero da effettuarsi contro la cessione di Buoni del Tesoro ungherese, da un Sindacato Internazionale di Istituti bancari. Occorreva intervenire d’urgenza e con misure radicali atte ad impedire l’esodo di capitali, che stava assumendo proporzioni di vera fuga, e trovare il modo di guadagnar tempo. In questa occasione si stabiliva «in una memorabile seduta notturna del Consiglio dei Ministri, la chiusura di tutti gli istituti bancari per tre giorni, il 14, il 15 ed il 16 luglio. Un decreto ministeriale apparso nel frattempo, faceva obbligo alle banche di effettuare i rimborsi, dal 16 al 23 dello stesso mese, solo entro i limiti del 5% delle somme depositate e per un ammontare massimo di 1000 Pengö. Ciò allo scopo di evitare la necessità di emissione di valuta cartacea e di poter salvare il valore aureo dei depositi e dei crediti esteri, allontanando la minaccia dell’inflazione»101.
Adottati i primi provvedimenti più urgenti, il Governo Karoly tentava di intensificare l’opera di difesa, svolgendola nel campo interno ed in quello internazionale. Relativamente ai provvedimenti di ordine interno, nell’agosto veniva approvata dal Parlamento una legge che conferiva al Governo poteri eccezionali in materia finanziaria e che prevedeva l’istituzione di una Commissione costituita da 33 membri, col compito di assisterlo e controllarlo in questo campo della propria attività. Le principali misure adottate da questa Commissione riguardavano innanzitutto il campo fiscale: aumento di imposte e tasse, istituzione di un’imposta del 10% sui redditi dei proprietari di case, riduzione degli stipendi dei funzionari di Stato, riduzione delle pensioni, riduzione straordinaria del Bilancio della Pubblica Istruzione. Altre importanti misure invece riguardavano il settore economico-finanziario: come la limitazione della libertà di disporre delle somme depositate in conti correnti non vincolati; la costituzione di un Sindacato di garanzia per sostenere le banche bisognose e pericolanti; la proibizione di esportare al disopra dei 300 pengö per individuo, valute e valori sia ungheresi che straniere; obbligo di denuncia da parte dei cittadini magiari dei loro debiti all’estero, nonché delle divise estere da essi possedute. Per quanto concerneva poi la difesa dell’agricoltura, si cercava di provocare benefiche ripercussioni indirette sulle classi agricole, con la legge relativa al controllo dei cartelli industriali, nonché una seconda legge che modificava i sistemi di applicazione della “bolletta”. Il congegno della “bolletta”, che risaliva al 1930, consisteva nella concessione di un premio di 3 pengö per ogni quintale di grano acquistato, posto a carico dell’acquirente ed a beneficio del produttore, per il caso in cui il grano venisse consumato nel Paese. Se invece il grano veniva esportato, l’acquirente aveva diritto, all’atto dell’esportazione, di ottenere dal Governo il rimborso di questa specie di tassa di consumo. Si raggiungeva così lo scopo di alzare il prezzo del grano all’interno, lasciandone per altro inalterato il relativo prezzo internazionale. Successivamente, con legge del 31 luglio, il sistema veniva leggermente modificato, nel senso che il tasso della “bolletta” veniva elevato da 3 a 10 pengö per ogni quintale di grano acquistato e consumato nel Paese. Va detto che tale sistema non aveva la pretesa di sanare o migliorare la situazione agricola del Paese, quanto piuttosto di realizzare all’interno con metodi, sia pure indirettamente fiscali, un rialzo del prezzo del grano e tacitare così, seppur parzialmente, le lamentele dei produttori, grandi e piccoli proprietari, che costituivano la classe economicamente più ragguardevole del Paese. Contemporaneamente il Governo svolgeva parallele trattative all’estero, le uniche, forse, adatte a poter garantire il concorso degli elementi materiali più indispensabili alla soluzione della crisi. I fini da realizzare nell’immediato riguardavano innanzitutto la concessione di un credito che consentisse all’Ungheria di colmare il fabbisogno immediato di divise estere, ammontante (secondo i dati rilevati dai documenti economici del Tesoro ungherese dell’epoca), a 7 milioni di sterline. Si trattava inoltre di prolungare i crediti a breve scadenza, alla liquidazione dei quali, anche con la concessione del suddetto prestito, il Paese non avrebbe potuto provvedere da solo. Difatti, in seguito ai negoziati condotti dal Conte Bethlen da Walko in Francia ed Inghilterra, e con l’intervento dell’Italia attraverso l’impegno personale di Grandi, veniva concluso e firmato il 16 agosto a Parigi un prestito all’Ungheria per una prima tranche di 5 milioni di sterline, contro garanzie di Buoni del Tesoro ungherese a 18 mesi. A tale tranche la Francia partecipava per l’ammontare di 2.800.000 di sterline, l’Italia per 200.000, la Svizzera per 200.000 e l’Olanda per 100.000. Per la parte restante (1 milione e 600.000 sterline), provvedeva un sindacato di banche ungheresi. Se non veniva così interamente coperto il fabbisogno di divise estere, si concedeva tuttavia alla finanza ungherese un momento di respiro.
Va sottolineato altresì che mentre si svolgevano le delicate trattative per il prestito, il Governo magiaro veniva informato del sopralluogo da parte del Comitato Finanziario della Società delle Nazioni per chiarire la reale situazione finanziaria del Paese. Detto Comitato Finanziario, presieduto da Fulvio Suvich, figura che destinata ad assumere notevole importanza nella politica estera fascista di lì a qualche anno, si recava effettivamente a Budapest per l’analisi dell’economia magiara. La relazione del Comitato, resa pubblica il 27 ottobre, non poteva che confermare il difficile momento economico del Paese, e concludeva consigliando il Governo a non fondarsi sulla eventualità di nuovi prestiti, ma a ricercare invece i mezzi per uscire da quella crisi sia nella realizzazione di economie interne, sia traendo partito dalla conclusione di opportuni accordi economici con gli Stati vicini. Tradotto in parole più semplici, il Comitato Finanziario invitava il Governo magiaro ad ammorbidire la propria posizione di rigidità politica nei confronti di Paesi come la Cecoslovacchia e la Romania, dai quali avrebbe potuto ottenere concreti vantaggi commerciali, seppur ciò doveva comportare la modifica della propria posizione sulla questione revisionistica.
Nel prendere atto di tale relazione, il Consiglio della Società delle Nazioni, su proposta dello stesso Comitato Finanziario, nominava un suo esperto finanziario presso il Governo di Budapest nella persona di Tyler, noto conoscitore dei problemi finanziari locali, per essere stato a suo tempo collaboratore del Commissario finanziario della Società delle Nazioni in Ungheria.
Certamente la situazione economica non era felice, né era semplice modificare questa tendenza negativa. Il Governo era però riuscito a mantenere sotto controllo l’inflazione, ed era riuscito altresì ad ottenere il prolungamento dei crediti ungheresi in Francia ed Inghilterra, preparando il terreno per la conclusione degli accordi “Stillhalte”. L’esito favorevole di queste trattative consentiva al Governo di emanare il 23 dicembre un decreto che fissava una moratoria di un anno per il pagamento in valuta straniera dei debiti pubblici e privati ungheresi all’estero, fatta eccezione per il servizio interessi del prestito del 1924 della Società delle Nazioni, quello della Cassa Comune e quello dei Buoni del Tesoro del 1931. L’anno 1931 si chiudeva con due accordi conclusi nel dicembre con Svizzera ed Austria per la costituzione di stanze di compensazione (clearing), intese a facilitare la liquidazione dei debiti e dei crediti commerciali dei due Paesi contraenti.
L’obiettivo economico finanziario, cioè la preoccupazione e la cura di ricercare in altri Paesi, mercati di assorbimento delle proprie esportazioni e Governi o Enti e gruppi disposti a concedere crediti, aveva segnato durante tutto il 1931, la principale direttrice -come si è visto- di tutta la politica estera magiara. Tale obiettivo, di ordine precipuamente economico, e le immediate finalità ad esso relative, avevano fornito al Paese lo stimolo per indirizzare lo sguardo anche a terreni politici nuovi, che fino a poco tempo prima sarebbero stati ritenuti assolutamente impercorribili, sfuggendo ai politici magiari anche il semplice concetto di collaborazione. Era questo il motivo per cui erano migliorati palesemente i rapporti con Parigi e sembravano esserlo anche quelli con Bucarest, mentre verso il dicembre del ‘31, una iniziativa del Governo di Praga poteva lasciare ammettere perfino la possibilità di un certo riavvicinamento con la Cecoslovacchia. Se questo era vero, era altresì certo che l’Ungheria non intendeva assolutamente deviare dalla linea politica seguita fino a quel momento di fronte alla questione revisionistica, rinunciando così all’affermazione delle proprie aspirazioni nazionali. Era insomma questa relativa contraddizione tra le finalità economiche immediate e le più lontane finalità politiche che rendeva particolarmente delicata la posizione dell’Ungheria di fronte alla Piccola Intesa e soprattutto alla Francia che di questa intesa ne era la garante. Chiari, per contro, e senza attriti, si erano mantenuti per tutto il ‘31 i rapporti con Roma, caposaldo dell’attività magiara nel campo delle relazioni internazionali. Tuttavia, ciò che creava preoccupazioni serie negli ambienti politici romani, era la sensazione che, gli sforzi fatti nell’attuazione di una politica filo-magiara dovessero risultare alla fine vanificati -o parzialmente modificati- dal fatto che sempre più l’Ungheria tendeva ad assicurarsi appoggi politici e militari dall’Italia ed appoggio economico dalla Francia che, come sottolineava l’incaricato d’affari a Budapest, De Astis, era l’unica Potenza realmente in grado di aiutare Budapest. Ed in effetti Roma si rendeva perfettamente conto di tale rischio, tant’è che in diverse relazioni inviate da Guariglia, Direttore generale per l’Europa ed il Levante, a Grandi si faceva presente il fatto che non conveniva più all’Italia ritardare oltremodo di prendere una presa di posizione sicura allo scopo di prevenire le azioni altrui; occorreva invece assumere la direzione stessa delle trattative che altrimenti si sarebbero svolte senza l’Italia, nella peggiore delle ipotesi sotto l’egida dell’azione franco-ceca e nella migliore tra gli stessi Stati interessati, in mezzo ai quali l’Italia avrebbe figurato al più come successore dell’Austria. D’altra parte, va riconosciuto che le proposte francesi di riorganizzazione economica dell’area danubiano-balcanica non erano di difficile realizzazione, stante il fatto che qui la crisi economica e politica aveva colpito più che altrove e dunque più forte era sentita l’esigenza di una grande Potenza a cui affidarsi per la soluzione di tutti i problemi. Alcune di queste problematiche, per rimanere su un piano concreto, potevano essere affrontate subito, ed intendiamo riferirci all’unione nel campo doganale e ferroviario. In particolare l’unione nel campo doganale , già studiata nel 1922, risultava più difficile da realizzarsi dell’unione nel campo ferrroviario. Dunque le autorità italiane decidevano di differire lo studio del problema dell’unione nel campo doganale ad un secondo tempo, - dimostrando forte miopia politica - e solo nell’eventualità in cui anche altre Potenze avessero cominciato ad affrontare questo tipo di discorso. Ma nemmeno le trattative per portare avanti un discorso di collaborazione sui trasporti in generale avevano un impulso deciso. Effettivamente negli anni seguenti il Trattato d’Amicizia Italo-Ungherese del 1927, il Governo italiano prima con Mussolini, poi con Grandi agli Esteri aveva spinto più decisamente per raggiungere concreti accordi commerciali con i magiari, trattando però - si ha l’impressione dallo studio dei documenti - sul piano di potenza politica più che economica.
È forse questa la ragione per cui più frequenti contatti dalla fine del 1930 in poi, si ha la sensazione di una svolta nelle relazione tra i due Paesi. Va dato atto a Grandi di essere stato, in un certo senso, il promotore di questa politica, se era vero che in più di un messaggio inviato al ministro italiano a Budapest, Arlotta, si comunicava l’intenzione del Governo italiano di promuovere ed accettare la conclusione di accordi atti a garantire nell’orbita dell’economia di qust’area in questione, lo sviluppo della produzione e del commercio. Per Grandi, insomma, occorreva concretizzare e rendere sempre più incisiva la penetrazione economica di Roma, per renderla oltretutto tangibile agli occhi, non solo del popolo italiano ed ungherese, ma dell’Europa intera. Sottolineava ancora l’urgenza una duratura e reale libertà dei traffici, dei commerci e dei transiti, regolando uniformemente le condizioni di trasporto e di esercizio delle imprese ferroviarie e di navigazione, in modo da rendere agevoli gli scambi commerciali tra Italia, Ungheria ed Austria. Come precedentemente detto, Grandi ed i suoi collaboratori economici, erano consapevoli del fatto che non si poteva seriamente pensare ad un incremento dei commerci e delle relazioni economiche con i magiari se prima non si regolavano - tramite accordi e convenzioni - l’aspetto dei trasporti in generale. Realizzare questo programma significava raggiungere un doppio risultato; consolidare gl’interessi italiani nei Balcani e soprattutto in Ungheria; rintuzzare i tentativi di penetrazione economica francese nella medesima area geopolitica. Una valida base nelle trattative economiche tra i due Stati si realizzava proprio alla fine del 1930, allorquando Italia, Austria ed Ungheria, si riunivano per discutere dei cosiddetti “Progetto Brocchi” (dal nome del loro ideatore). Si trattava di creare negli Stati contraenti un Istituto di credito per il traffico import-export, in grado di concedere anticipazioni e sovvenzioni a condizioni e tassi d’interesse mitissimi. Tecnicamente si trattava di promuovere il concorso dei singoli Stati che avrebbero dovuto devolvere a detto Istituto una percentuale del prodotto del dazio doganale per determinati articoli in modo da consentire praticamente l’affluenza sul mercato della merce agli stessi prezzi praticati qualora i dazi relativi non fossero esistiti, o fossero notevolmente ridotti. In calce alla realizzazione di questo Istituto, si conveniva di stabilire favorevoli accordi ferroviari, concernenti tariffe per transiti e scambi internazionali, condizione indispensabile per il giusto funzionamento dell’Istituto stesso. Dall’analisi dei documenti economici risultava chiaramente come, la rinuncia ai dazi sui quantitativi di grano, ferro, ghisa, carta, andava però a vantaggio dell’Ungheria ed Austria, per cui per l’Italia si trattava di realizzare Accordi aventi solamente importanza politica, rivelandosi essi controproducenti sotto il profilo economico.
Ma proprio mentre si stava lavorando per la realizzazione di questi Accordi, sopraggiungeva all’improvviso un fatto nuovo destinato ad appassionare ed eccitare le cancellerie europee e l’opinione pubblica generale, intendiamo riferirci cioè al pactum de contraendo tra Germania ed Austria allo scopo di giungere ad una futura unione doganale. Inizialmente il Governo magiaro aveva assunto una posizione di attesa, aspettando che si chiarisse la portata di tale accordo, ma con una tendenza sotterranea in favore delle aspirazioni austro-tedesche, in quanto si ravvisavano soprattutto gli estremi di una situazione contraria alla Piccola Intesa. Inoltre, parte rilevante della stampa e della opinione pubblica voleva ricercare in questa iniziativa uno spunto importante fondato sulla dichiarata estensibilità del progettato accordo doganale ad altri Stati, per lo studio di combinazioni economiche nuove, interessanti anche per l’Ungheria. Ma col passar del tempo, la resistenza opposta al progetto da parte delle Potenze occidentali, l’influenza esercitata in tal senso anche dalla diplomazia francese, nonché il sopravvento di un certo scetticismo sulla reale possibilità di un’estensione dell’accordo anche ad altri Stati, determinavano infine anche sulle autorità magiare una presa di posizione contraria al progetto stesso. Ma non minore scetticismo trovava in questi ambienti il “controprogetto Briand”, soprattutto per la parte concernente la situazione agraria dell’Europa centro-orientale, ed il tentativo di regolare l’esportazione granaria dei Paesi di questa zona con l’adozione di misure preferenziali. Alla fine del marzo del 1931 sembrava infatti che la conferenza granaria di Roma, alla quale il Governo Ungherese annetteva naturalmente grossa importanza inviandovi l’allora Ministro degli Esteri Karolyi, lasciasse intravedere la speranza che, data l’entità relativa della produzione granaria dei paesi dell’Europa centro-orientale in confronto alla produzione mondiale, le grandi Nazioni transoceaniche avrebbero consentito a che venissero concesse ai Paesi economicamente più deboli delle condizioni preferenziali. Ma anche a tale riguardo il punto di vista ungherese evolveva nel senso dell’opportunità di evitare sia la realizzazione della Zollunion austro-tedesca, sia quella del controprogetto francese. L’Ungheria rimaneva convinta della possibilità di limitarsi alla ripresa delle trattative già in corso per la conclusione di accordi economici detti del “Semmering”, dal nome della località austriaca dove venivano parafati il 19 luglio. Detti Accordi che dovevano essere il necessario preludio alla conclusione degli Accordi Brocchi, erano ispirati al concetto di agevolare la reciproca esportazione di merci tra Italia, Austria e, appunto, Ungheria, mediante facilitazione di credito ai rispettivi esportatori, da concedersi secondo determinate proporzioni.
Purtroppo però alle parole non sempre seguivano i fatti e quelle posizioni di vantaggio che l’Italia aveva acquisito politicamente ed economicamente nei confronti della Francia in relazione all’area danubiana subivano forti scossoni data l’incostante politica di appoggio che Roma forniva all’Ungheria e agli Stati limitrofi. In particolare, relativamente all’importazione di bestiame in Italia, fonte di importanti entrate per le asfittiche casse finanziarie magiare, a Roma si studiavano delle limitazioni che andavano contro la sostanza degli accordi conclusi tra i due Paesi e contro quella volontà di divenire leader nelle relazioni coi magiari. Difatti in relazione ad un carico di bestiame già partito da Budapest alla volta di Milano, il Ministero degli Esteri inviava un telespresso al Ministero dell’Agricoltura, degli Interni, a quello delle Corporazioni nonché alla Regia delegazione italiana in Budapest specificando le seguenti istruzioni:
«1-tollerare le eccezioni per i vagoni in viaggio e contrattati stabilendo una data oltre la quale tale agevolazione non sarà più concordata;
2 - consentire la mattazione dei 300 buoi che si trovavano a Milano;
3 - respingere la richiesta del 40%»102.
Ovviamente la Legazione d’Ungheria aveva mosso vive rimostranze al suddetto provvedimento e ad altri analoghi emanati da organi italiani che limitavano ed intralciavano l’importazione del bestiame magiaro, ritenendo inaccettabili le rimostranze italiane sulle presunte condizioni di malattia del bestiame in questione (tubercolosi) e definendo detti provvedimenti contrari alla lettera ed allo spirito del Trattato di Commercio e della Convenzione Veterinaria italo-ungherese. Tuttavia il Ministero dell’Agricoltura, interessatosi al riguardo, si era espresso in senso nettamente contrario all’accoglimento delle richieste del Governo ungherese, né pareva disponibile a lasciare margini di trattativa per venire incontro al danno che stavano subendo le ditte ungheresi interessate. Va sottolineato comunque che contemporaneamente erano in corso presso il Ministero delle Finanze le pratiche per concedere all’Ungheria l’anticipo della somma di 15.000.000 di lire affinché il governo ungherese regolasse, mediante le somme stesse, il debito che aveva assunto verso la Fiat per importanti forniture già eseguite e provvedesse al pagamento di quelle restanti. «A tal uopo il Ministero delle Finanze autorizzerebbe l’Istituto Nazionale dei Cambi od altro Ente a scontare i buoni del Tesoro che il Governo ungherese emetterebbe per la somma corrispondente a 15.000.000 di lire»103. Tuttavia non si poteva certo definire questo un aiuto sostanziale, tant’è che il Ministro degli esteri magiaro, Walko, nella dichiarazione che teneva alla commissione parlamentare per gli affari esteri appena un mese dopo l’emissione di questa circolare, riproponeva l’ormai rituale gratitudine per l’amicizia italiana, ma implicitamente ne sottolineava i limiti dell’appoggio economico. Difatti, venendo a parlare del problema della Collaborazione con gli Stati danubiani che la crisi economica di quegli anni aveva posto in forte evidenza, dichiarava che l’Ungheria intendeva mantenere assolutamente la propria indipendenza, ma poiché una più stretta intesa con gli altri Stati costituiva essa stessa un problema eminentemente economico, da qualunque parte giungevano proposte soddisfacenti gl’interessi ungheresi, esse avrebbero trovato accoglienze favorevoli. «È convinzione unanime dell’opinione pubblica ungherese - aveva ribadito il Ministro - che l’isolamento economico significa deperimento, e che pertanto solo una opportuna collaborazione, col rispetto dei reciproci interessi, può ridestare la vita economica del paese»104. Walko ribadiva il concetto che molte delle difficoltà nello sviluppo di una moderna economia nascevano per il suo paese dal fatto che non era stato ancora regolato il problema dei debiti internazionali e che pertanto era necessario aggiornare il campo delle relazioni commerciali con gli altri Stati confinanti e comunque vicini. A proposito della Germania, il Ministro aveva affermato che, qualora fosse stato applicato integralmente il trattato di commercio ungaro germanico, vi sarebbe stata la possibilità di sviluppare sensibilmente l’esportazione, ed i traffici dei due Paesi avrebbero avuto modo di raggiungere uno svolgimento normale (cosa che in effetti già stava avvenendo ed anzi si sviluppavano sempre più). Relativamente alla Francia, la stipula del trattato commerciale supplementare, avrebbe offerto nuove possibilità all’esportazione di grano ungherese in questo paese, e questa sarebbe stata un ulteriore minaccia all’interscambio commerciale tra Italia e Ungheria, tantopiù che l’aiuto che la Francia aveva offerto all’Ungheria nelle ore difficile della crisi economica era stata ampiamente sottolineata dal Ministro. Certamente anche con Roma era stato concluso un accordo il quale-proseguiva Walko- si proponeva di rendere «più facile e più intenso il traffico di merci tra i due Paesi. Il grano ungherese fino alla misura di due milioni di quintali verrebbe a godere secondo tale accordo di notevoli facilitazioni. Difficoltà finanziarie e di divise hanno impedito che l’accordo fosse finora realizzato. Considerata però la cordiale e sincera amicizia che sussiste tra i due Paesi, si può sparare che esista la possibilità che l’accordo entri in vigore in maniera che i suoi vantaggi possano essere goduti già nella prossima stagione d’esportazione»105.Da qui il discorso si allargava agli accordi clearing che andavano assumendo un’importanza sempre più grande negli accordi economici dell’epoca, soprattutto in seguito all’adozione di molti Stati di politiche autarchiche. Walko era cosciente degli svantaggi derivanti dalla conclusione di tali accordi sia nel traffico commerciale interno, sia dal punto di vista della situazione finanaziaria internazionale; ma era fuori di dubbio che l’Ungheria non avrebbe potuto garantire la propria esportazione senza la conclusione di detti accordi. D’altronde garantire esportazioni all’Ungheria non era solamente nell’interesse di questo Paese, quanto poi era interesse degli stessi creditori esteri. Ragion per cui ci si attendeva un maggior sviluppo di questi accordi, soprattutto con l’Italia, la Francia, l’Inghilterra, il Belgio e la Romania, oltre a quelli già conclusi con Austria e Svizzera.
Risulta evidente il barcamenarsi economico di questo Paese, in una situazione in cui ragioni di ordine economico e politico generale, gli avevano impedito di raggiungere un proprio equilibrio internazionale. Walko ancora ritornava sul concetto che, l’attribuzione ad altri Stati di ricche zone industriali, aveva fatto di questa Nazione un’entità economica essenzialmente unilaterale. L’apparato industriale del Paese, per altro abbastanza inadeguato a sorreggere al fabbisogno interno, risultava artificiosamente tenuto in vita, nella quasi totalità dei casi, con successive somministrazioni di crediti da parte di banche locali, spinte a ciò dagli stessi Governi; ma dette banche erano state costrette, per seguire questa politica, a ricorrere a loro volta a prestatori esteri e le imprese locali così sovvenzionate erano venute a costituire (data l’impossibilità di assorbimento all’interno di tutto il prodotto industriale e la quasi assoluta mancanza di mercati esteri di collocamento), delle vere e proprie immobilizzazioni di capitale con assai grave pregiudizio della liquidità delle posizioni degli istituti finanziarii impegnatisi. Come se non bastasse, a questa situazione generale già a tinte fosche, si aggiungevano le voci di una probabile crisi del Gabinetto Karolyi a causa, oltre che della difficile situazione economica, anche dei contrasti provocati dalle recenti disposizioni prese dal Governo in materia d’aumento d’imposte e di riduzione degli stipendi dei funzionari di Stato. Le stesse voci venivano smentite dagli interessati, ma erano sicuramente spie di un malumore sempre più dilagante.
A favore del Governo si esprimeva - in sede di discussione bilancio alla Camera dei Deputati - il Conte Bethlen, il quale esprimeva la sua piena adesione al Ministro delle Finanze e, attraverso lui, al Governo per le recenti misure attuate, in grado di garantire l’equilibrio di Bilancio ed a ridurre le spese di 150 milioni di pengö circa, ed a mantenere il valore della valuta nazionale verso l’estero. Non si dichiarava sorpreso dal fatto che l’opposizione avesse tentato tutte le strade per convincere l’opinione pubblica che la grave crisi economica fosse causata dall’incapacità del precedente Governo, perché era naturale che un Governo decennale attirasse su di sé odii ed invidie, facendo cadere un’infinità di speranze. Piuttosto era rimasto sorpreso dal fatto che nell’autunno dell’anno precedente, allorché si era recato a Budapest il Comitato Finanziario della Società delle Nazioni per esaminare la situazione del paese, esso era incorso, nel suo rapporto, in un difetto d’omissione, non esponendo chiaramente le cause della situazione economica dell’Ungheria e aveva accennato, a questo proposito ad una «“personalità molto in vista della Società delle Nazioni” (alludeva evidentemente al Vice-segretario generale, signor Avenol) alla quale egli, a richiesta, avrebbe dato consigli circa la possibilità di un miglioramento della situazione attraverso una cooperazione internazionale e circa la necessità che all’Ungheria fossero concesse facilitazioni nel pagamento degli interessi sui suoi debiti esteri. Quella personalità gli avrebbe risposto che “il mondo non era ancora abbastanza maturo per prestare subito effettivo ascolto ad argomenti del genere”»106. Soltanto dopo appunto un anno (quando cioè Bethlen stava parlando) il Comitato Finanziario della Società delle Nazioni aveva riparato alla sua omissione. La relazione pubblicata in occasione di tale riunione veniva completamente a smentire, con un’esposizione chiara e precisa delle vere cause della crisi europea in genere e di quella dell’Ungheria (Bulgaria e Grecia) in particolare, le affermazioni dell’opposizione, secondo cui l’attuale situazione ungherese sarebbe dovuta agli errori commessi dal precedente Governo. Il Conte Bethlen aveva poi continuato occupandosi del problema della riorganizzazione dei sistemi commerciali. A tal proposito aveva rilevato la difficilissima situazione creata dai Trattati di pace. «Dopo l’applicazione dei trattati di pace - aveva detto - l’Ungheria era stata costretta a lottare contro una forte concorrenza. In Cecoslovacchia, in Austria ed anche in Germania si era destata una tendenza molto favorevole allo sviluppo delle possibilità agricole dei rispettivi paesi, e ben presto era diventato evidente che in questi Paesi il sistema capitalistico non poteva essere mantenuto con metodi socialisti. Erano subentrati i Partiti, i quali avevano sostenuto gl’interessi particolari dei propri membri; era sopraggiunto il crollo dei prezzi, gli Stati agricoli avevano acquistato in minore quantità i prodotti industriali. L’esportazione industriale dell’Austria, Germania e Cecoslovacchia risultava diminuita e si era giunti alla attuale situazione europea, della quale l’Ungheria ne subiva le conseguenze»107. Logica conclusione di tutto questo discorso risultava essere per Bethlen il porre su diverse basi il sistema commerciale, ossia ammettere che il sistema economico instaurato dai trattati di pace postbellici era fallito, e quindi non rimaneva che ricorrere alla revisione. L’aver posto questa questione all’ordine del giorno - sosteneva Bethlen - era uno dei rilevanti meriti del Progetto Tardieu. L’altro suo merito era quello di aver constatato che il problema non poteva essere risolto per mezzo della Nazione più Favorita, bensì occorreva ricorrere al sistema preferenziale. Terzo merito era quello di aver rilevato che, accanto ai rimedi economici occorreva provvedere a quelli finanziari. In particolare Bethlen passava ad esaminare fino a che punto tale progetto, che metteva in gioco anche forti interessi italiani e francesi, risultasse adatto a far scomparire le difficoltà economiche magiare. «Un anno e mezzo fa ebbe luogo una conferenza a Bucarest - proseguiva il Conte Bethlen - bisogna constatare con rincrescimento che il progetto Tardieu non ha fatto sua la proposta avanzata dalla conferenza stessa. In essa, gli Stati agricoli avevano chiesto delle preferenze da tutti quegli Stati che potevano essere considerati mercati naturali dei loro prodotti agricoli, vale a dire anche dei mercati italiano, svizzero, tedesco e francese. È da registrare con dispiacere che il progetto Tardieu non ha fatto proprio tale proposta, alla quale erano interessati anche gli Stati della Piccola Intesa, e che esso invece intenda restringere il sistema preferenziale a cinque Stati »108. Dopo aver constatato che il medesimo progetto contemplava la concessione, da parte degli Stati al di fuori dei cinque direttamente interessati, di certi contingenti, Bethlen continuava il suo discorso affermando che l’Ungheria aveva assolutamente bisogno del mercato italiano, tedesco, francese e svizzero: per cui il Progetto poteva corrispondere agli interessi magiari soltanto dopo che vi fossero state apportate talune modifiche, ma quella essenziale doveva essere che occorreva concedere la preferenza a tutti gli Stati considerati in Europa mercati naturali degli Stati agricoli.
Relativamente agli inconvenienti del Progetto Tardieu, il Conte Bethlen aveva dichiarato che «qualora l’Italia ritenesse opportuno aderire al Progetto, non solo non otterrebbe vantaggi, ma verrebbe a trovarsi di fronte la concorrenza industriale cecoslovacca su mercati che finora dominava da sola»109. Il tutto poi a Roma doveva essere messo in considerazione con il fatto che questo Progetto rappresentava un’ulteriore tentativo di puissance economica e politica francese in questa delicata area danubiano-balcanica, per cui sarebbe stato più opportuno ostacolare questo Piano anziché favorirne la realizzazione.
Proprio per queste ragioni, Bethlen si rivolgeva all’Assemblea ed al Governo affinché l’Ungheria, la quale aveva bisogno dei mercati italiano, francese, tedesco e svizzero, non rinunciasse alla propria libertà di iniziativa, «altrimenti, qualora tale possibilità fosse esclusa, per noi non rimarrebbe che un’intesa tra Italia, Austria ed Ungheria. Non rimarrebbe che tale soluzione, che corrisponderebbe pienamente ai nostri interessi economici e politici. Chiedo perciò al Governo di preparare la via a tale cooperazione, dato che il progetto Tardieu richiederà evidentemente lungo tempo prima di giungere ad una qualche soluzione, e se la situazione dovesse rimanere quale essa è per un lungo tempo ancora, l’Ungheria non potrà sostenere il grave peso degli oneri che incombono»110. Fin qui Bethlen. Tuttavia la situazione all’interno dell’Assemblea non era certamente tranquilla soprattutto dopo che in importante membro dell’opposizione, il marchese Pallavicini, aveva preso la parola, denunciando -tra l’altro- le incertezze nella politica di appoggio dell’Italia all’Ungheria. Secondo Pallavicini non era possibile che l’Ungheria si fosse poste alle dipendenze di una Grande Potenza (aggiungendo “qualunque essa sia”). L’indipendenza del Paese doveva rimanere intatta: citava poi il Conte Giulio Andrassy, che nel 1927 aveva scritto, a proposito dell’amicizia con l’Italia «che essa non poteva servire ad un intervento di quest’ultima nei nostri affari interni. Non so a cosa pensava precisamente il Conte Andrassy, ma il passato regime ha creato una specie di falso fascismo, senza disporre delle capacità di Mussolini»111. Secondo Pallavicini, già Andrassy aveva reso attenta l’Ungheria sul grave errore che avrebbe commesso se, per far piacere all’Italia, avesse svolto una politica antifrancese; ciò che egli aveva scritto nel 1927, valeva per Pallavicini pienamente anche oggi. Pallavicini faceva notare altresì che l’Ungheria manteneva ottimi rapporti sia con Roma che con Berlino, benché soprattutto da quest’ultima non avesse ricevuto vantaggi concreti, e riteneva che il progetto Tardieu, bollato da Bethlen come inaccettabile, fosse il primo pubblico riconoscimento dell’insostituibilità dei trattati di pace e nel contempo dell’intollerabilità della situazione economica degli stati danubiani, derivante dall’applicazione dei trattati stessi. Di conseguenza il piano Tardieu si prospettava come un ottimo tentativo di riunire gli stati danubiani per discutere quanto si sarebbe dovuto fare per riparare a tale situazione. «Tuttavia -faceva notare- il progetto Tardieu è stato ostacolato proprio dalle due Grandi Potenze, l’Italia e la Germania, sulle quali intende appoggiarsi Bethlen. Ora, entro un prevedibile periodo di tempo, è impossibile svolgere della politica estera senza o contro la Francia. Il progetto italo-germanico forse potrà essere buono se portasse ad una rifioritura economica, ma non potrà essere realizzato, perché la Francia non permetterà che l’Italia o qualsiasi altra Grande Potenza abbia il predominio nella valle danubiana»112. Pallavicini si chiedeva se potevano esserci vantaggi nella politica commerciale.«Avevamo un accordo con l’Italia relativo all’esportazione di 10 milioni di quintali di grano di fronte ai quali l’Ungheria avrebbe dovuto acquistare prodotti industriali. L’Italia non ha mai acquistato da noi un tale contingente granario. Ora, la situazione è ancora peggiorata. Abbiamo concluso con l’Italia un accordo disgraziato, abbiamo rinunciato ad una parte dell’accordo preferenziale relativo all’acquisto dei 10 milioni di quintali di grano, per ottenere delle facilitazioni nel campo dell’esportazione del bestiame, ad onta delle quali l’esportazione stessa è continuata a diminuire, perché non abbiamo la possibilità di acquistare i prodotti industriali italiani previsti dall’accordo»113.
Mentre si discuteva di queste problematiche, il momento difficile delle relazioni italo-ungheresi veniva confermato dal telespresso che, nel giugno del ‘32 Ciancarelli inviava al Ministero delle Corporazioni, in esso si specificava che era stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale un lungo elenco di merci per le quali «l’importazione in Ungheria sarà d’ora in poi soggetta a preventiva richiesta di speciale permesso che rilascerà il Ministero per il Commercio. Tra le 200 voci circa del suddetto elenco interessano particolarmente l’Italia gli agrumi, i fiori, il riso lavorato, i filati, i tessuti di cotone, la lana, la seta greggia, i pneumatici ecc.»114. Secondo Hedervary e Nickl, i responsabili dei dicasteri del commercio e dell’economia magiari, detti provvedimenti si erano resi necessari in conseguenza della nota difficile situazione economica del Paese, ma soprattutto per migliorare la propria base di partenza in vista della ripresa di trattative commerciali con la Cecoslovacchia e della necessità di trovare subito un consolidamento sulla posizione con l’Austria. Certamente dovevano senz’altro considerarsi come esclusi tutti i contingenti previsti dagli Accordi Brocchi, tuttavia non era affatto vero che da questo provvedimento sarebbero scaturiti reali e concreti vantaggi per l’esportazione italiana, trattata preferenzialmente (secondo le parole degli interlocutori magiari) quanto piuttosto delle limitazioni, trattandosi in buona sostanza di un provvedimento restrittivo.
Intanto nelle già inquieta situazione politica ungherese, ecco aggiungersi nell’ottobre del ‘32 un ulteriore elemento di incertezza: la crisi improvvisa del Gabinetto Karolyi e la salita al potere del generale Gömbös. Nelle dichiarazioni ufficiali, il Ministro degli Esteri Puky subito si affannava a chiarire che era intenzione del nuovo Governo mantenere i più calorosi rapporti d’amicizia, sia nel campo politico che in quello economico, con l’Italia, ma desiderava altresì precisare che «il nostro sincero affetto per la Nazione Italiana non può essere ritenuto un ostacolo perché l’Ungheria mantenga i migliori rapporti anche con le altre Grandi Potenze. Constatiamo con soddisfazione che incontriamo una comprensione sempre più intensa da parte della Francia e questo fatto potrà contribuire allo sviluppo delle reciproche relazioni dei due Paesi. Conformemente ai nostri desideri, sono buoni anche i nostri rapporti con la Germania»115.
Questo ed altri aspetti ancora erano al centro del discorso che Gömbös teneva per la prima volta alla Camera dei Deputati il 12 ottobre. Partiva dalle problematiche relative alla lotta di classe asserendo che una delle ragioni della crisi interna - ma non solo - stava nella lotta tra capitale e lavoro, che non aveva trovato ancora una sistemazione definitiva, benché la socialdemocrazia in Ungheria dovesse essere combattuta così come si era fatto in precedenza. il Generale sottolineava poi che, altri punti di forte conflittualità internazionale, stavano, a suo dire, nel nuovo ordine internazionale creato nel dopoguerra, che aveva portato all’isolamento dei singoli Stati; nonché (e qui tornava il “tormentone” che, unico tra tutti riusciva a mettere d’accordo tutti i partiti politici, di destra e di sinistra, di Governo e di opposizione) nel voler mantenere inalterati i trattati di pace, sorti in un’atmosfera che non corrispondeva più al pensare europeo. Occorreva, in buona sostanza, rivedere questi trattati di pace, in quanto, recando una palese disparità di diritti, contribuivano a creare un’atmosfera di tensione che certamente non giovava alla causa della pace. In politica estera si agganciava a quanto dichiarato qualche giorno prima dal Ministro Puky, aggiungendo che l’Ungheria doveva svolgere una politica est-europea di respiro più ampio. Importante tal scopo mantenere le linee di politica fondamentali fin lì adottate, vale a dire amicizia con Roma (a tal proposito annunciava la propria intenzione di recarsi colà in visita ufficiale per incontrare il Duce), che però non poteva escludere relazioni forti da un punto di vista politico ed economico anche con Francia e Germania. A proposito del viaggio di Gömbös a Roma, si legge nel telegramma spedito da Colonna allo stesso Mussolini (che aveva preso in mano direttamente gli Esteri dopo l’allontanamento di Grandi) che Gömbös «intende attribuire la massima importanza alle questioni economiche, perché è sua convinzione che il fulcro dei problemi nazionali è costituito dall’esportazione agricola. Appunto perciò è scopo principale della sua visita a Roma quello di chiarire opportunamente le questioni economiche per far sì che, ritornato in patria, il suo Governo potesse prendere decisioni corrispondenti agli interessi reali del Paese»116. Intanto, per accogliere il Generale, dimostrando le migliori buone intenzioni italiane, il Ministero delle Finanze trasmetteva una importante nota al Sottosegretario di Stato per gli Esteri, Suvich, a proposito di quel prestito di 15 milioni all’Ungheria per metterla in grado di sistemare il suo debito verso la Fiat, nella quale si comunicava che si era stabilito di avvalersi come intermediario «per l’operazione di cui trattasi, tra Italia ed Ungheria, del Banco di Napoli, che trovasi già in ottimi rapporti con l’Ungheria, perché disimpegna per suo conto il servizio di cassa del prestito consolidato proveniente dagli arretrati dei debiti pubblici prebellici. Il Banco di Napoli, riceverà dal Tesoro i 15 milioni e li terrà a disposizione del Governo Ungherese per corrisponderli alla Fiat nel modo che dal Governo stesso gli verrà indicato. I rapporti, poi, tra Tesoro e Banco saranno regolati da una convenzione segreta, dalla quale dovranno far parte integrante le condizioni del prestito, e cioè l’interesse, il periodo e la decorrenza dell’ammortamento»117.
Gömbös si avvicinava a questa tappa italiana, rivendicando i punti fondamentali della sua politica interna ed internazionale. In politica interna, egli intendeva trasformare il Partito dell’Unione da strumento del Conte Bethlen strumento al proprio servizio, tra l’altro modificando il nome del partito in Partito dell’Unione Nazionale. Intendeva inoltre ridurre ancor più il ruolo dell’opposizione, rafforzando per converso, la propria base extraparlamentare appoggiandosi alla “Tesz”, ossia ad una sorta di confederazione di tutte le associazioni e corporazioni nazionali ungheresi, ed infine sua intenzione era quella di introdurre in Ungheria «un Fascismo Magiaro, pensando anche al sistema corporativo per l’eliminazione dei conflitti di classe. Tutti questi dettagli lasciano intendere che Gömbös persegue uno scopo che si allontana e si differenzia dal programma di tutti i precedenti Governi ungheresi e rappresenta una grossa novità»118. In politica estera il Generale si dichiarava convinto assertore dell’intesa italoungherese; ma da ciò non si doveva arguire che questa intesa fosse popolare in Ungheria come qualche anno prima, «ove la gente semplice apertamente e gli uomini politici a quattr’occhi, rimproveravano all’Italia il tradimento del 1914, considerato come la causa principale della rovina della Monarchia, nonché le più recenti disattese promesse di aiuto economiche. Ciò non impedisce un matrimonio di convenienza con Roma, ma costituisce un elemento di giudizio circa la possibilità di durata degli amichevoli rapporti fra i due paesi: comunque è sentimento generale in Ungheria che l’Italia deve pagare a prezzo alto l’amicizia ungherese, che ricerca soltanto per risolvere più facilmente la questione croata e si ritiene nei circoli bene informati che Gömbös nel suo imminente viaggio a Roma dirà chiaramente che l’Ungheria ha bisogno non di amichevoli discorsi e parole ma di aiuti effettivi e pratici»119. Il problema era però che Gömbös, oltre a questo bagaglio di incertezze che si portava dietro nel suo rapporto con Roma, era oltretutto sincero amico ed ammiratore della Germania. Aveva stretti rapporti con la Reichswehr, e spesso, secondo le note ufficiali, alti ufficiali tedeschi si recavano in Ungheria, ove si trattenevano per lunghi periodi, destando l’allarme dei fidi funzionari regi italiani a Berlino e a Budapest. In particolare in Ungheria si aveva parecchia simpatia per il Cancelliere tedesco von Papen, in quanto si sperava in un orientamento chiaro e deciso verso destra in Germania, cosa che avrebbe avvicinato i due Governi. Questo quadro era oscurato solo dall’ombra dei rapporti commerciali tra i due paesi, in quanto se la Germania avesse continuato a perseguire la sua politica di contingentamenti commerciali, rovinosa per l’Ungheria, si sarebbe estraniata il favore del popolo magiaro, che invece cominciava a vedere in Berlino un potenziale primario partner politico e soprattutto commerciale. Viceversa qualcosa cominciava a cambiare nei confronti di Parigi. Se difatti Bethlen nell’ultimo periodo, e Karolyi nel suo breve Governo, avevano spinto per un’apertura di dialogo e collaborazione con Parigi, confortata anche dal notevole prestito francese, Gömbös intendeva mantenere con essa rapporti assolutamente formali e non guidati da vedute speciali, in quanto il Generale non desiderava prestiti ma piuttosto il risanamento economico del Paese attraverso le proprie forze, inserito in un’area politica i cui epigoni dovevano essere Berlino e Roma. «Perciò - era questa la conclusione a cui era giunto l’incaricato d’affari a Vienna - egli non ha, come Dolfuss in Austria, l’assoluto bisogno di sforzarsi di intendersi con la Francia. Questa riserva verso la Francia ha piuttosto peggiorato i rapporti con la Cecoslovacchia e non si parla più ormai di un regolamento amichevole delle questioni tra i due Paesi, mercé concessioni territoriali in Slovacchia di cui tanto si discorreva or non è più di un anno, all’epoca del Governo Karolyi»120.
La visita di Gömbös a Roma veniva esaltata come un ennesimo attestato di grande amicizia e di rispetto tra due Paesi e due grandi popoli; col leader magiaro che esaltava l’opera svolta da Mussolini, capace di creare un’Italia ed un italiano nuovi, e col Duce che elogiava il nuovo spirito che animava l’Ungheria, grazie al suo Capo, che avrebbe portato detto paese fuori dal tunnel della crisi in cui si era venuto a trovare. I due Capi di Governo avevano preso in esame la situazione politica generale e le questioni interessanti particolarmente i due Paesi. Avevano inoltre esaminato la possibilità di incrementare ulteriormente le relazioni economiche esistenti, cercando di superare quegli attriti, mai dichiarati però, dovuti al fatto che gli ungheresi chiedevano aiuti economici maggiori (oltreché appoggi politici), mentre il Duce si barcamenava per ottenere il massimo vantaggio - l’espansione economico politica nell’area danubiano –balcanica, sfruttando l’Ungheria come testa di ponte - col minimo sforzo, prevalenti appoggi politici su concreti aiuti economici. Tuttavia nel corso di tale visita si provvedeva alla creazione di una Commissione Mista italo-ungherese per intensificare gli scambi commerciali tra i due Paesi, stabilendo nel dicembre successivo vi fosse la prima riunione della Commissione, mentre nel frattempo si provvedeva a firmare le seguenti convenzioni inerenti a problemi finanziari derivanti da trattati di pace:
« Convenzione con cui si dà esecuzione definitiva agli Accordi del 27 marzo 1924 e del 21 maggio 1927 su debiti e crediti e della Convenzione del 27 marzo 1927 per la liquidazione dei beni dei sudditi ungheresi in Italia;
2 - Convenzione che regola la questione relativa ai depositi della Cassa Postale di Risparmio d’Ungheria di proprietà dei cittadini italiani residenti a Fiume;
3 - Accordo che regola le rendite d’infortunio a carico della Cassa Nazionale di Assicurazioni operaie d’Ungheria per ciò che riflette gl’infortuni avvenuti a Fiume e quelli accaduti nel territorio dell’attuale Ungheria;
4 - Protocollo concernente la predetta Convenzione;
5 - Convenzione sui contratti d’assicurazione stipulati dalla Prima Società d’Assicurazioni di Budapest con cittadini italiani delle nuove provincie;
6 - Protocollo concernente la predetta Convenzione;
7 - Convenzione tra Italia ed Ungheria sul Tribunale Arbitrale Misto, costituito applicazione all’art.239 del Trattato del Trianon;
8 - Protocollo concernente le cessazione del predetto Tribunale Arbitrale Misto italo-ungherese;
9 - Protocollo relativo alle cause tra lo Stato Ungherese e lo Stato Italiano e altre cause iniziate innanzi al T.A.M.;
10 - Dichiarazioni concernenti la Villa d’Arco;
11 - Protocollo sugli anticipi fatti durante la Guerra dal Governo italiano ai sudditi italiano per rendite a carico d’Istituti ungheresi d’assicurazione contro gl’infortuni;
12 - Dichiarazione concernente i debiti dell’antico fisco austroungherese e del fisco ungherese;
13- Accordo relativo alle questioni finanziarie»121.
86 ASMAE. A.P. Telespresso n. 204761 spedito da Guariglia a Grandi. Budapest 11.2. 1931.
87 ASMAE. A.P. Telespresso n. 205247 spedito da Guariglia a Grandi. Roma 16.2.1931.
88 ASMAE. A.P. Telegramma n. 3245 spedito da Arlotta a Grandi. Budapest. 16.6.1931.
89 ASMAE. A.P. Telegramma n. 5608/689 spedito da Arlotta a Grandi. Budapest. 4.8.1931.
90 Ivi.
91 ASMAE. A.P. Telegramma riservatissimo n. 5639/709, spedito da Arlotta a Grandi. Budapest, 9.8.1931.
92 Ivi.
93 Ibidem.
94 ASMAE. A.P. Rapporto segretissimo n. 5929/770 spedito da Arlotta a Grandi. Budapest, 22.8.1931.
99 ASMAE. A.P. Allegato al T.P.N° 1966/273, spedito da Arlotta a Grandi. Budapest, 20.3.1932.
100 Ivi.
101 Ivi.
102 ASMAE. A.P. Telespresso n. 200799 spedito dal Ministero degli Esteri al Ministero dell’Agricoltura (direzione generale). Roma, 11.1.1932.
103 ASMAE. A.P. Circolare del Ministero degli Affari Esteri indirizzata al Ministro degli Esteri. Roma, 13.1.1932.
104 ASMAE. A.P. Telegramma n. 990/147 spedito da Arlotta al Ministero degli Affari Esteri. Budapest, 11.2.1932.
105 Ivi.
106 ASMAE A.P. Telegramma n. 3477/524 spedito da Arlotta al Ministero degli Affari Esteri. Budapest, 5.5.1932.
107 Ivi.
108 Ivi.
109 Ibid.
110 Ivi.
111 Ibid.
112 Ivi.
113 Ibid.
114 ASMAE A.P. Telespresso n.218678 spedito da Ciancarelli al Ministero delle Corporazioni. Roma, 16.6.1932.
115 ASMAE. A.P. Telegramma n. 7417/1034 spedito da Colonna al Ministero degli Affari Esteri. Budapest, 9.10.1932.
116 ASMAE. A.P. Telegramma n. 8144/1164 spedito da Colonna a Mussolini. Budapest, 8.11.1932.
117 ASMAE. A.P. Nota riservata personale n.20 spedita da Fay a Suvich. Roma 15.10.1932.
118 ASMAE. A.P. Teleposta n.4579/433 spedito dal Regio Console Generale a Vienna a Mussolini. Innsbruck, 16.11.1932.
119 Ivi.
120 Ibidem.
121 ASMAE. A.P. Telegramma n.1234/R-C spedito dal Ministero degli Esteri alle Regie Ambasciate e Delegazioni d’Europa. Roma, 30.11.1932.