CAPITOLO TERZO
L’INGEGNERE PREFETTO E MINISTRO
Vittorio Foa ricorda di avere avuto una gran paura la notte del 25 aprile del 1945, nella Milano liberata. L’ingegnere Riccardo L., prefetto designato del CLNAI sembrava disperso e si chiese a Foa di sostituirlo. Ma il povero Foa non sapeva nulla di amministrazione e non conosceva la città e per questo tirò un sospiro di sollievo quando alle cinque del mattino L. fu ritrovato con una squadra di partigiani. Il fatto è che gli azionisti del CLNAI erano preoccupati perché temevano di perdere i <<posto>> che gli accordi precedenti avevano assegnato di diritto al Partito d’Azione ricordando quell’episodio con una punta di amarezza , Foa scriverà : <<le lottizzazioni contro le quali ho poi protestato e protesto tuttora partivano proprio da noi, dall’antifascismo nel suo momento più militante quello dell’insurrezione conclusiva>>[1].
A proposito
di L. ricordando la sua straordinaria esperienza di prefetto della maggiore
città del nord, Foa ebbe a dire: <<era un ingegnere in senso pieno, dove
interveniva costruiva>>. Non a caso L. esordì dimostrando notevoli doti
di umanità: fece immediatamente cessare lo scempio di piazzale Loreto
affermando che la fucilazione era giusta ma non lo era certo infierire sui cadaveri,
e conscio del fatto che in quei giorni si sarebbero consumate vendette sempre più cupe emanò il 2 maggio un
decreto col quale sospendeva le fucilazioni arbitrarie[2].
Molti anni più tardi avrebbe dichiarato di essere uscito da quella terribile
esperienza <<con un senso di orrore per la violenza>> e di essere
sicuro che << novantanove su cento di quelli che hanno impugnato le armi
e sparato conservano l’orrore di quegli atti>>.
Fin
dall’inizio L. si rileva un politico
intransigente e ben deciso a fare conti fino in fondo col fascismo: il 30
aprile firma un mandato di cattura contro Pirelli, Donegani, Marinotti,
Treccani e altri industriali. Molti anni più tardi citando l’episodio L.
insisterà sul significato politico profondo del gesto affermando di non avere
spiccato mandati di cattura contro i <<portinai>> ma contro i
<<responsabili finanziari>>. In
realtà soltanto Donegani fu catturato (mentre Pirelli sfuggì per poco
alla cattura ma in realtà riuscì ad evadere servendosi di un mandato di
scarcerazione falso. Il nuovo prefetto
era convinto che “una rivoluzione se non è cambiamento della classe
dirigente, è niente” e che “anche la cosiddetta rivoluzione fascista era stata
soltanto una rivelazione perché non rappresentò nessun cambiamento dei rapporti
sociali di classe ma anche assicurò la continuità a una classe politica che
dopo una breve teorica resistenza passò armi e bagagli al vincitore”.
L’atteggiamento dell’ingegnere prefetto evidenzia bene il sogno e le illusioni
di quanti, soprattutto al nord, speravano di infrangere la “continuità
giuridica dello stato e consideravano l’appoggio dato al fascismo dal grande
capitale, dai grandi burocrati e funzionali dai dirigenti economici un motivo
più che sufficiente per eliminare la vecchia classe dirigente e sostituirla con
una nuova. La ricostituzione attorno alla DC del blocco politico-sociale
dominante stava già avvenendo: di lì a poco il deterioramento della situazione
internazionale e la crisi dell’alleanza antinazista avrebbero acceleralo questo
processo: Pirelli non avrebbe mai più rischiato di finire a San Vittore.
Il governo
della città in quei mesi presenta notevoli difficoltà: i sabotaggi e le
resistenze della burocrazia rendono difficile la vita a un prefetto espressione
della resistenza[3]. Nel
maggio del 1945 con un memorabile discorso alle autorità alleate L. lo
rivendica il ruolo e l’autonomia della resistenza: <<il popolo italiano
conosce le sue responsabilità e ne sopporta visibilmente le conseguenze ma
vuole che sia riconosciuto l’apporto che esso ha dato alla lotta comune (…). E’
con questo spirito che noi, assumiamo i poteri che intendiamo usare per la realizzazione dello scopo della nostra
vita, che è di creare un’Italia democratica capace di assumere il suo posto in
un Europa libera e in un mondo alla fine sottratto all’incubo della guerra e
dell’oppressione>>. E in questo spirito L. si rifiuta di giurare fedeltà
alle autorità alleate e chiarisce di sentirsi responsabile solo verso il CNL.
Ci si è chiesti se a Milano i rapporti con gli alleati fossero stati di
subordinazione o meno e L. ha cercato di rispondere a questa domanda affermando
che <<furono di reciproco rispetto>>. <<Questa era più una
illusione che una realtà>> ha scritto di recente Ginsborg[4].
Di certo Riccardo L. ce la mise tutta per risolvere i problemi della città
devastata tenendo conto il meno possibile degli input degli angloamericani. I
momenti di frizione non mancarono. La situazione alimentare della città
richiedeva per la sua gravità misure straordinarie:[5]
una di esse fu varata per la distribuzione del latte; il prefetto aveva deciso
di distribuirne 100 grammi al giorno,
anche allo scopo di impedire la speculazione sul formaggio venduto poi in
Svizzera. Per raccogliere il latte nelle cascine furono mobilitati perfino i pompieri
e il prefetto rinunciò alla scorta di benzina alla prefettura, finendo col
servirsi di una bicicletta .
Di fronte
al sabotaggio dei formaggi arriva a decretare il sequestro della Galbani:
<<Apriti cielo! Gli alleati mi mandarono a chiamare alla Montecatini dove
avevano il loro comando e ci fu una violenta scenata>>. Ricorderà lo
stesso L., <<Lei ritira il decreto perché noi non lo permettiamo>>
<<molto semplice, domani faccio un manifesto in cui dico che mi sono
dimesso perché gli alleati mi hanno impedito di distribuire il latte a
Milano>>. <<Il giorno dopo acconsentirono a firmare un decreto a
sei mesi[6]>>.
Altro
problema di grande momento era quello degli alloggi: il prefetto cercò di
risolverlo con moderazione il 24 maggio, nello spirito della resistenza decretò
che nell’assegnazione dei locali i patrioti avessero la precedenza[7].In
questo periodo dimostra un’abilità a fare compromessi senza rinnegare mai la
linea di fondo: ad esempio, quando il comando alleato chiederà l’imposizione
della moratoria dei pagamenti e la chiusura temporanea delle banche; L. è
convinto che il provvedimento a Milano sia del tutto inutile, dal momento che
non vi è alcuna corsa a prelevare denaro depositato e che una moratoria
danneggerebbe la ripresa economica. Dopo una lunga discussione in prefettura,
su proposta di un banchiere azionista, tale Reina, si arriva ad un compromesso
con gli alleati in base al quale è prevista la chiusura delle banche per due
giorni, sabato e domenica; insomma, la moratoria ci sarebbe stata ma nessuno se
ne sarebbe accorto
[8]. Il
nuovo prefetto riesce, inoltre, a comporre la vertenza sindacale tra i
braccianti e gli agrari (patto colonico del 22 giugno) allo scopo di evitare
tra l’altro, danni al raccolto. Mobilita partigiani ed operai, attraverso il
CNL di azienda e di quartiere e li autorizza a prelevare viveri dai depositi
militari, per organizzare mense e distribuire pasti ai più bisognosi. Con la
tenacia impone ai sindaci di comuni agricoli di conferire il grano all’ammasso.
Si rileverà un abilissimo mediatore nella stipula dei contratti di lavoro: il
16 maggio le mondine, grazie alla mediazione del prefetto ottengono un aumento
di salario da 80 a 130 lire al giorno più un Kg. di riso. Risolve
brillantemente la questione dell‘<<indennità di contingenza>>:il 2
maggio gli alleati e la commissione economica hanno imposto il blocco dei
salari e dei prezzi; i sindacati di fronte all’aumento dei prezzi chiedono il
conferimento di una indennità. Dopo quattro giorni di trattative in prefettura
la vertenza è risolta ma gli alleati ritardano la ratifica. Per ottenerla ci
vorrà uno sciopero generale, il primo dell’Italia liberata. Il 5 luglio da
Porta Vittoria all’Arena sfileranno 300.000 persone. Preoccupatissimo, il nuovo
presidente del consiglio Ferruccio Parri deciderà di incontrare L. ; e il
prefetto con insistenza ribadirà che: <<in questo momento gli interessi
generali si riassumono nella politica del governo e della resistenza>>;
avrà partita vinta.
Tuttavia L.
ritiene che in questo momento i lavoratori non debbano boicottare la ripresa
delle normali attività finanziarie e a fine maggio presenzierà alla riapertura
della borsa di Milano. Non abbandonerà certo l’attività di economista e
politico: la tempra di politico illuminato keynesiano emergerà nel maggio del
’45, quando s’opporrà invano alla concessione
da parte del governo Parri del <<premio della liberazione>>
a quasi tutti i lavoratori dipendenti.
Esso
costituiva nei fatti una imposta straordinaria sul capitale in ragione del
numero dei lavoratori occupati; il governo avrebbe potuto ottenere la stessa
somma col prelievo fiscale e avrebbe dovuto investirla in opere pubbliche e
sociali, riducendo la disoccupazione e stimolando ulteriori investimenti da
parte dei privati.
Del resto
L. percepisce abbastanza chiaramente sia in questa circostanza che nel momento
in cui, nel giugno del ’46 si decide di erogare il premio della Repubblica, che
ciò corrisponde anche agli interessi degli speculatori che attendono di vendere
le merci accumulate. Si trattava, attraverso una politica di investimenti
produttivi e lungimiranti, di colpire i ceti
parassitari, più interessati ad un assistenzialismo fino a se stesso[9].
Frattanto si esauriva nel disinteresse generale l’esperienza governativa di un azionista, Ferruccio Parri. Paralizzato all’interno dallo scontro tra le sinistre (soprattutto gli azionisti) e la DC sul rinvio delle elezioni e sul ruolo dei CNL, il governo non fece praticamente nulla per mettere a frutto la pressione del vento del nord. Il governo era messo in difficoltà anche dai sabotaggi continui dell’apparato burocratico-amministrativo. Le destre approfittarono della situazione di debolezza del ministero per proporre la liquidazione del CNL. Alla fine di maggio il segretario liberale Cattanei affermava che la democrazia poteva essere basata soltanto sui <<suffragi liberi, diretti e segreti di tutti i cittadini singolarmente considerati >>.
Al primo
congresso del CNLAI tenutosi al Teatro Lirico di Milano alla fin e di agosto
del ’45 Cattanei prende per primo la parola chiarendo il suo pensiero: i CNL
devono diventare organi puramente consultivi e le decisioni all’interno di essi
vanno prese in base al principio della unanimità, in sostanza devono essere
liquidati. Intervenendo subito dopo L. insiste con rabbia sulla
<<funzione democratica in atto>> dei CNL: <<essi sono figli
della necessità>> e possono sventare i pericoli che il paese sta correndo
dopo le grandi speranze e le facili illusioni della Liberazione: <<C’è un
pericolo obiettivo di frattura tra Nord e Sud…C’è anche un certo pericolo di
frattura sociale tra le diverse classi produttive del paese>>. Solo i CNL
potranno assumersi l’impegno concreto di realizzare alcune aspirazioni popolari
come una Riforma agraria <<fondamentale per la ricostruzione democratica
dall’Italia>>.
IL
riferimento di L. alla Riforma agraria non è casuale dal momento che le
sinistre speravano che questo fosse uno dei primi obiettivi del governo Parri.
In realtà pare che Parri di fronte ad una esplicita richiesta di Palmiro
Togliatti in tal senso abbia risposto picche, col dubbio pretesto che nel caso
in cui il governo avesse dato inizio ad una vasta riforma agraria gli alleati
sarebbero intervenuti con la forza[10].
Ma al centro dell’azione dei CLN bisogna porre la lotta contro la
disoccupazione: <<Nessuno può essere lasciato senza lavoro>>
nemmeno i fascisti e i curati[11].
Un
testimone presente al dibattito congressuale commentò: <<esposte da L.
queste sono prospettive da apocalisse; Egli
scuote l’uditorio e prima di tutti se stesso con una energia senza
gesti, agitato dalla sola sua voce che gli disgrega le membra. Alla fine esce
curvo e insaccato nella giacca come un profeta nella pelle di capra>>[12].
Il primo settembre Parri si pronunciò in
definitiva contro queste posizioni:<<E’ evidente che i CNL devono
rispettare i limiti di responsabilità. La responsabilità di decisione è dello
Stato e dei suoi organi e non può essere frazionata>> Liberali e Democristiani potevano essere soddisfatti.
In realtà il governo era fortemente indebolito anche dalle incertezze del
partito di L. e del Presidente del Consiglio che a partire dal 1945 appare
chiaramente diviso in due tronconi, uno settentrionale e l’altro
centro-meridionale. Uno screzio tra Ugo La Malfa, ormai nettamente schierato per
una politica economica di centro (vedesi la sua proposta formulata proprio
nell’estate, imperniata sull’articolazione in <<due tempi >> della
politica economica), ed Emilio Lussu rende completamente inutile la discussione
tenutasi a Milano il 15 luglio tra i due tronconi dell’esecutivo: una mozione
finale preparata da L., Leo Valiani e Tristano Codignola non viene posta
neanche in votazione. Nella riunione dell’esecutivo Nazionale del 18-19 agosto
’45 la proposta di far procedere le elezioni politiche a quelle amministrative
viene approvata a larghissima maggioranza (19 voti a 6) nonostante la forte
opposizione di La Malfa. Ma in settembre la presa di posizione per conto della
DC del ministro degli esteri Alcide De Gasperi, e soprattutto, il
<<consiglio>> degli alleati inducono lo stesso Parri, che ha
sostenuto la posizione del suo partito, a cambiare intendimento.
Appare
evidente che il governo Parri ha i giorni contati. Le destre fanno di tutto
perché il vento del nord cessi mentre le sinistre abbandonano il silenzio il
partigiano Maurizio che già pensano di liquidare quanto prima[13].
A dire il vero sia Nenni che Togliatti fin dall’agosto avevano espresso in
varie occasioni un giudizio sostanzialmente negativo sull’attività di governo.
Nello
stesso tempo gli alleati appaiono in questi mesi seriamente preoccupati per la
situazione politica italiana. Si pone per la prima volta il problema
dell’appoggio alle forze moderate, anche clandestino, pur di arginare il
dilagare della <<capacità persuasiva>> della ideologia comunista[14].
Intorno
alla metà di settembre , come ricorda con estrema precisione Foa, giungono a
Roma Alterio, Spinelli, Moranti e Sereni preoccupati del logoramento del
governo Parri. Essi propongono la nomina di L. alla carica di ministro
dell’interno per preparare con lui la successione a Parri. L. rifiuta per
motivi di ordine personale (la moglie Hena non vuole trasferirsi nella
capitale) ma forse anche per motivi politici L. non vuole lasciare la carica di
prefetto perché teme che il suo successore non venga nominato dal CLN e cerca
garanzie in questo senso[15].
Probabilmente per lo stesso motivo ai primi di luglio aveva rifiutato la nomina
da parte dello stesso Parri alla Direzione generale delle PS. Una scelta,
secondo De Luna, operata <<nell’interesse del Partito d’Azione>>
che avrebbe indebolito l’azione del governo in un settore cruciale.
L. ,
tuttavia, appare fin dall’autunno cosciente della definitiva sconfitta della
resistenza nel norditalia. Un documento d’importanza fondamentale è la lettera
scritta all’amico Giovanni Speranzini da Milano il 7 novembre, in cui per la
prima volta, L. parla di rivoluzione mancata. La delusione scrive L. occorre che non si traduca in una mentalità
rinunciataria e passiva. Non vi sono prospettive per l’esperienza rivoluzionaria,
ma all’azione rivoluzionaria deve seguire <<l’azione riformatrice>>
non <<riformista>> in modo da pervenire il più rapidamente
possibile alla riforma delle strutture dello Stato. È in quel momento che, come
commenta la Colarizi <<il riformismo rivoluzionario diventa un’idea forza
su cui innestare attraverso una elaborazione via via modificatesi in armonia
alle diverse fasi della vita politica italiana lo sforzo continuo per la
definizione, la conquista e la costruzione della società socialista>>. Da
quel momento, venuta meno, date le condizioni politiche e militari le
possibilità per lo sviluppo dell’esperienza rivoluzionaria, l’obiettivo
fondamentale dell’attività politica del L. diventa quello della riforma di
struttura, che in questa fase avrebbero
portato alla nascita di una società realmente democratica. In questo momento
per L. (siamo a pochi mesi dalla fine della guerra) questa strategia può essere
attuata facendo ricorso ai CLN uno strumento adatto ad una mobilitazione
permanente di massa.
Il problema
principale è la nascita di una vera democrazia in Italia per la quale è
necessaria che <<il più gran numero possibile di lavoratori di tutti i
ceti sia interessato politicamente ed economicamente ad uno stato democratico,
al punto che tutti si sentano minacciati quando la democrazia è in
pericolo…>>.
Nel
volontarismo di questo documento
traspare tutta l’anima azionista di L. anche se i capisaldi della
politica qui indicati (e cioè le riforme) rivelano già un’impostazione
radical-socialista: risoluzione del divario Nord-Sud in nome dell’unità di
classe; riforma agraria e riforma profonda dell’apparato burocratico-statale;
controllo pubblico dell’apparato industriale e finanziario; lotta alle
intromissioni clericali nella vita sociale e politica[16].
Nonostante i buoni propositi L. non appare fiducioso sull’attuazione di queste
riforme: rammenta a Speranzini che <<della vecchia struttura italiana
prefascista e responsabile del fascismo fanno parte anche i partiti
tradizionali>> e che <<anche nei partiti più estremisti esistono
elementi reazionari. La <<sordida
preoccupazione di salvare il salvabile>> da parte della destra, le preoccupazioni massimalistiche
del PSIUP, le <<malintese preoccupazioni unitarie del PCI>> sono un
sintomo evidente della necessità di superare il vecchio sistema per potere, da
un lato consolidare le istituzioni democratiche, dall’altro introdurre una
serie di riforme profonde.
In questo intervento c’è una presa di coscienza
del <<raffreddamento della lava incandescente>>, cioè della fine
delle capacità propulsive della stagione rivoluzionaria del Nord Italia. Del
resto, in quei giorni, si consolida il fronte moderato e si conclude
definitivamente l’esperienze di un’azionista alla guida del governo del paese.
Il 24 novembre,
infatti, Parri dà le dimissioni: l’iniziativa del PLI avallata dalla DC avrebbe
garantito la continuità delle strutture amministrative che nei mesi precedenti
avevano bloccato ogni attività riformatrice di Parri, ora descritto da Carlo
Levi come un <<crisantemo sopra un letamaio>>.
Tuttavia la
nomina a Presidente del Consiglio di Alcide De Gasperi in una prospettiva tutto
sommato ancora favorevole alla sinistra non appare, in questa fase, come una
svolta fondamentale nella storia d’Italia. Nenni e Togliatti si rallegrarono
per il controllo che sono riusciti ad ottenere del ministero dell’interno,
attraverso un socialista, in vista delle elezioni e per la definitiva
affermazione dei partiti antifascisti di massa (per la prima volta Presidente
del Consiglio è il leader di uno di essi) ma non percepiscono affatto che il
monopolio DC è destinato a durare per gli anni a venire[17].
Gli azionisti partecipano mal volentieri al nuovo governo: esso appare al
Partito d’Azione come <<una combinazione social-cattolica, con i
comunisti in posizione immediatamente seguente e con direzione cattolica,
qualcosa di mezzo, quindi, fra l’accordo
dei tre partiti di massa, vagheggiato dai comunisti, e il blocco
cattolico-socialista operante in Francia e in Austria, una coalizione
<<punitiva>> per l’azionismo …>>. L. è designato dal partito
per il ministero dei trasporti e si dichiara immediatamente contrario alla
partecipazione[18].
Attaccato da Lussu non molto tempo dopo
durante un congresso del partito, per essere entrato nel governo, L. ricorderà
di essersi rifiutato di accettare la carica e di essere entrato nel Governo
<<sono per una questione di disciplina[19]>>.
Superate le resistenze dei familiari si trasferisce nella capitale in via
definitiva il 15 dicembre, diventando così un politico attivo a livello
nazionale: nello stesso tempo riesce a sventare la manovra della DC che in
ossequi al vecchio motto <<promoveatur ut amoveatur>>intende
rimuoverlo dalla carica prefettizia nella capitale del nord, dove ha ormai assunto,
in quanto espresso dalle forze di sinistra del CLNAI un preciso peso politico.
Riuscirà ad ottenere l’esaudimento della richiesta avanzata dal CLN il 14
dicembre, cioè che il nuovo prefetto fosse espressione delle forze democratiche
locali
[20].
Come
prefetto Riccardo L. aveva dimostrato di non voler indulgere a quel
<<massimalismo d’impronta demagogica assai diffuso nel clima
dell’epoca>>[21],
ma di riuscire a dare risposte concrete e pragmatiche a bisogni concreti: seppe
mettere a frutto questa esperienza per elaborare nuove proposte di riforma.
<<La mia esperienza>> scrive il 28 agosto ’45 sul Corriere Lombardo
<<mai conferma che l’istituto prefettizio è da sopprimere. Questo del
resto è uno dei postulati del mio
partito. E una istituzione napoleonica, antidemocratica. […] noi vogliamo
piuttosto una organizzazione regionale incaricata di garantire il rispetto
della legge nazionale ed eletta in loco. È questa la condizione essenziale per
la democratizzazione del paese e per la riduzione dell’apparato burocratico>>.
Inutile dire che queste parole non avranno alcun seguito . Ettore Trailo,
ultimo prefetto milanese espressione della Resistenza e del CLN sarà destituito
con lo scoppio della <<guerra fredda e l’estromissione delle sinistre del
Governo; l’istituto prefettizio sarà uno strumento valido ed efficiente nella
mani del ministro Scelba per condizionare fortemente dal centro la vita
democratica a livello locale.
L. reggerà
il dicastero dei trasporti per pochissimo tempo; appena sei mesi, non
basteranno per rimettere in sesto le maggiori linee, per ordinare nuove vetture
e carri, per far tornare il sistema ferroviario alla quasi normalità[22]
. Al centro del suo progetto di
ricostruzione porrà le grandi trasversali, cercando di mitigare i fermenti
localistici che premevano soprattutto allo scopo di riattivare linee minori[23].
In sede
collegiale il ministro si occuperà, però, con determinazione di politica
economica-finanziaria: durante la seduta del consiglio dei ministri dell’11
gennaio ’46 si batterà strenuamente per il cambio della moneta proposto dal
ministro comunista delle finanze Mauoro Scoccimarro. In
effetti la proposta risaliva al governo Parri ed era approvata dal
vecchio liberale Marcello Soleri, allora ministro del tesoro. In seguito alla
morte di Soleri il nuovo ministro Ricci e il rappresentante della Confindustria
nella Consulta nazionale Epicarmo
Corbino si erano opposti al cambio.
Indubbiamente
la nomina a ministro del tesoro del governo De Gasperi dello stesso Corbino
rappresentò un elemento di debolezza per il piano Scoccimarro. In sostanza il
progetto fu accantonato nell’<<indifferenza>> di De Gasperi e le
sinistre accettarono il ricatto velato <<o cambio della moneta a rinvio
delle elezioni>>[24].
In seguito L. rievocando quella riunione accuserà di <<opportunismo per
motivi elettorali>>i comunisti; racconterà a Gambino che sostanzialmente
i comunisti accettarono le critiche della destra al progetto, in base alle
quali il cambio delle monete avrebbe colpito i piccoli e medi imprenditori
[25].
Ma questa convinzione risaliva già a quell’epoca, tanto è vero che nel giugno
del 1947,in un discorso alla Costituente L. lamenterà che <<l’On.
Scoccimarro ha fatto una sua politica ed essa è stata sabotata, ma non per
questo il suo partito ha messo in crisi il governo>>[26].
Bisogna,
però, ricordare che il neanche il Partito d’ Azione si pose il problema di
spaccare la compagine governativa e un documento di politica economico
finanziaria ed elaborato il 9 febbraio dal CC del partito abbandonava in via
definitiva e si limitava a sostenere ancora l’imposta progressiva sul
patrimonio.
Lo stesso
L. in un articolo su <<Italia libera>> il 5 giugno avrebbe scritto
che <<ormai è troppo tardi per il cambio della moneta, troppo tardi per
iniziare una finanza straordinaria>>. Tuttavia continua a non essere
d’accordo con questa decisione, come rivelano gli accesi interventi del periodo
successivo alla Costituente
[27].
Di recente è emersa su tutta la questione un’interpretazione più convincente :
la posizione delle sinistre fu indebolita prima di tutto da una concezione
economica assai diffusa secondo la quale <<il cambio>> e le
<<imposte>> avrebbero bloccato la ripresa della produzione, mentre
l’inflazione non avrebbe subito una brusca riduzione; questa concezione era ben
impersonata da Corbino, <<economista di tendenze liberali>> e
godeva di fortissimi sostegni in Italia ed all’estero. Ma soprattutto il
progetto fallì perché << ogni forza politica temeva o sperava che
eventuali cambiali sul futuro sarebbero state protestate di lì a poco nelle
elezioni politiche>>e prevaleva la concezione tradizionale del nostro
paese della fiscalità, secondo la quale
le tasse non sono una forza di investimento in funzione di spese che
interessano tutta la collettività ma piuttosto un male necessario, sottratto
furtivamente a masse recalcitranti, mentre ogni proposta di imposta
straordinaria è sempre punitiva nei confronti di determinati strati sociali e
prelude inevitabilmente a rotture di alleanze, alienazioni del sistema
politico>>[28].
Con il
trascorrere degli anni apparirà sempre più chiaro a L. che la rinuncia al
cambio della moneta è stata una scelta fondamentale da parte della classe
dirigente, in grado di condizionare fortemente il processo di ricostruzione
economica in senso democratico del paese
[29].
Nei primi
mesi del 1946 L. non abbandona affatto l’intensissima attività politica. A Roma
dal 4 all’8 febbraio si tiene il primo congresso del Partito d’ Azione, che
determina il superamento definitivo della esperienza azionista con una vera e
propria esplosione del partito dilaniato dai contrasti interni; i germi della
disintegrazione si erano posti da tempo[30].
Durante il
congresso il ruolo e la figura di L. emergono con forza. Già dal novembre
precedente l’energico prefetto era divenuto uno dei maggiori dirigenti del
partito che fa capo principalmente al Foa. Foa
Parri e L. sono i maggiori artefici del progetto della
<<sforbiciata alle ali>> tesa a formare una maggioranza all’interno
del partito, senza l’estrema destra di Salvatorelli e l’estrema sinistra di
Lussu, più disponibile sul piano dei contenuti verso La Malfa ma, comunque,
decisa ad escluderlo dal nuovo organigramma del partito. Si delinea una
segreteria per F. Parri e un esecutivo di cui fanno parte oltre a L. Cannetta,
Valiani , Garosci, Foa. Per realizzare 2questo progetto L. si colloca al
<<centro>>; il suo, come sottolinea De Luna, <<fu un discorso
da segretario del partito>> un colpo alla botte… attacca Lussu in quanto
la sua formula del partito unico dei lavoratori la si capisce in Inghilterra
dove la differenziazione sociale non è così larga come in Italia mentre
<<l’esistenza di una mentalità antartica fa si che il nazionalismo è
ancora oggi una minaccia e una minaccia seria>>. Nello stesso tempo
attacca anche il leader della destra liberalsocialdemocratica U. La Malfa
perché
<<egli pensa che la classe politica sia formata dal personale del governo, di personale dello stato; e questo non è vero perchè la classe dirigente è formata dagli elementi attivi e direttivi di tutti gli strati della direzione dello stato che non sono soltanto nel governo ma che sono i sindacati, i partiti, i CLN. È lì che dobbiamo trasformare la classe dirigente>>.
La situazione parziale di arretramento del movimento riformatore richiede che il partito si dia un apparato e una linea politica di difesa.
<<dobbiamo salvare le condizioni per permettere alla
marcia progressiva della democrazia di riprendersi grida L., e <<il
partito deve porre delle condizioni molto precise per la sua partecipazione al
governo>>
L. riafferma che il Partito d’Azione non può non essere il partito della <<riforma strutturale dello stato>> e può incalzare De Gasperi e la DC per una politica più avanzata, sulla base, ad esempio di una riforma agraria, ma soltanto ponendo condizioni precise al sostegno dato al governo.
Da un lato
il Nostro condannava le trattative che avevano portato alla formazione del
governo, così come erano state impostate da La Malfa <<senza discutere la
liquidazione dei prefetti politici>> dall’altro l’impostazione classista di Lussu che avrebbe alienato le simpatie dei
ceti medi al Partito d’Azione[31].
Scendendo dalla scaletta del microfono al termine del discorso, L. mormora a
Cadignola: <<la segreteria del partito è nelle mie mani>>.
Tuttavia, il congresso si conclude con un vero e proprio colpo di scena: il
ritiro di Parri e La Malfa, preludio alla secessione è alla fondazione del
Movimento Democratico Repubblicano, con il quale portano via l’intera ala
<<liberale>> del partito condannano, privandola del loro appoggio la
mozione di L. alla sconfitta: la sinistra di Cadignola e Lussu ottiene 120.000
voti contro i 70.000 di L. . Quella di Lussu è una vittoria di Pirro: <<i
vincitori del congresso erano consapevoli>> secondo De Luna <<del
duro prezzo pagato per la loro vittoria, tanto da sentirsi psicologicamente
vinti>>. Il Partito d’Azione era diventato scriveva Cannetta, un partito
con una minoranza di centro senza che vi siano le destre e una direzione di
sinistra la politica del centro>> un partito senza futuro. Il 24 giugno
L. avrebbe assunto la segreteria del partito, diventandone, come fu osservato,
l’<<osservatore testamentario>>.
Subito dopo
il congresso il dibattito politico si incentra sul problema della costituente.
Molti anni dopo L. ricorderà che il fatto che la costituente
Il Partito d’Azione imposta la sua campagna elettorale per il 2 giugno proprio sulla necessità di <<ricostruire la normale dialettica parlamentare nella costituente>>.
Nel
maggio-giugno 1946 L. dirigerà il <<Giornale di Mezzogiorno>>
impegnandosi a fondo per la repubblica e le riforme. Dalle colonne del
quotidiano chiederà che il nuovo governo abbia una politica: fuori dalla paralizzante
e mortifera forma dell’unanimità>> e sostiene la formazione di un governo
delle sinistre, un governo democratico che affronti le questioni più urgenti e
introduca riformi, impossibili ad attuarsi nel quadro di una collaborazione con
le forze moderate[33].
Nell’editoriale
del 31 maggio intitolato <<Responsabilità>>, criticava le
<<mistica della costituente>> e osservava che <<la legge che
indice la costituzione è stata lasciata deliberatamente vaga nei limiti e
incerta nei poteri>>. L’assemblea doveva essere <<lenta e veloce
insieme>> ossia lenta e ponderata nel fare la nuova costituzione e veloce
nell’affrontare i problemi del paese. Soprattutto a sinistra alle coraggiose
proposte di L. si rispose negativamente: sull’UNITA’ commentando gli esiti congressuali Togliatti
con tono professorale aveva scritto che <<la politica è una cosa seria e
non bisogna lasciarla fare alle <<creature>> come a Napoli chiamano
i ragazzi>>. In realtà la linea generale della politica del PCI e del PSIUP
era ancora saldamente ancorata alla
formula tripartitica.
Le elezioni
del 2 giugno ’46 ratificarono sul piano elettorale la catastrofe azionista:
sette deputati eletti, tra cui Foa e L. , cui bisogna aggiungere Lussu e
Mastino per il partito Sardo d’Azione,
un risultato che <<rafforzava le tendenze centrifughe e gli
scoraggiamenti tendenze alle quali la dirigenza del partito rispondeva con una
radicalizzazione delle posizioni politiche[34].
Gli
azionisti, sottolineando il carattere <<compromissorio>> della
formula politica del secondo governo De Gasperi, si astenevano sul voto di
fiducia[35]perché
convinti della impossibilità di risolvere i problemi più scottanti
dell’economia e della ricostruzione sulla base di un mero accordo di vertice,
tra forze politiche eterogenee dai disegni politici nettamente contrastanti.
Del resto
la vittoria elettorale democristiana, sostenuto dall’intervento massiccio della
chiesa e dalle inframmettenze degli alleati, in un clima di acceso
anticomunismo (Churchill aveva pronunziato il discorso sulla <<cortina di
ferro>> a Fulton il 5 marzo) rendeva meno incisiva la presenza al governo
delle sinistre già egemonizzate dal PCI e indebolite dalla paralisi del PSIUP.
Insomma il
secondo governo De Gasperi appariva al segretario nazionista come
l’ennesimo tassello del capolavoro
moderato democristiano. Tuttavia al di là di una proposta generica per una
repubblica presidenziale che limitasse le prevaricazioni dei grandi partiti
sulla volontà del parlamento, delle critiche all’<<opposizione
indiretta>> del PCI, della polemica con Togliatti e De Nicola non si
elaborava un progetto alternativo chiaro alla formula del
<<tripartito>> e si imitava La Malfa, che si proponeva di
<<ridurre dall’esterno, le tendenze
contrarie e dispersive presenti nel governo>>. La critica feroce
al progetto di amnistia di Togliatti inizia nelle ultime sedute di governo, dal
18 al 24 giugno quando L. Cianca e Bracci (gli altri due azionisti al governo)
chiedono invano di eliminare espressioni come <<elevata
responsabilità>> e <<sevizie particolarmente efferate>> .
Termini poi utilizzati dalla magistratura per amnistiare molti criminali
fascisti. Foa ricorderà che l’amnistia sembrò a molti antifascisti <<non
un segnale di forza, di sicurezza del sistema politico, ma un compromesso
discutibile con un passato ancora minaccioso>>[36].
Ancora una volta la polemica contro la scandalosa applicazione della legge
Togliatti rivela che di fronte agli elementi di continuità tra il regime
fascista e quello democratico-repubblicano non tutti, e L. fra questi, rimasero
in silenzio.
L.
interviene per la prima volta alla costituente il 19 luglio con un discorso
critico nei confronti del programma di governo ma <<tutto tenerezza per
le sinistre>> come sottolinea ironicamente Nenni[37].
Pur augurandosi che il governon no fallisca, afferma che il problema centrale è
quello della disoccupazione e della lotta all’inflazione. Tuttavia coerente con
le scelte rigorose di matrice keynesiana che caratterizzano in questo momento
il suo pensiero economico condanna aspramente l’erogazione di un <<premio
della Repubblica>> a tutti i lavoratori dipendenti. Analogamente si era
opposto al premio della liberazione del maggio ’45. Ritiene preferibile un prelievo fiscale <<una vera
e propria imposta sulla occupazione della manodopera>> di uguale importo
che lo Stato avrebbe potuto reinvestire in opere pubbliche o in <<servizi
sociali organizzati>>[38].
Analoghe
posizioni e prospettive L. aveva espresso in un articolo su <<Italia
libera>> il 5 luglio in cui invitava a fare <<una politica finanziaria che incoraggi i capitali imboscati a rifluire
nel ciclo produttivo>>. Per far questo sappiamo di dover ingoiare molti
rospi; ingoiamoli cioè limitiamo alla misura tecnicamente possibile le imposte
straordinarie e personali (…).
Si tratta
per L. di fare ciò che Lenin fece con la NEP per salvare la rivoluzione. LO
Stato ha in mano l’IRI… aggiunge che deve finalmente decdersi a fare una sua
politica economica e divenire lo strumento dello Stato per la pianificazione
del settore industriale e creditizio. L’intervento dello Stato non può non
riguardare il settore dei lavori pubblici: come Keynes insegna, occorre creare
un <<esercizio volontario del lavoro>> per le attività edilizie ma
contemporaneamente si può rinunciare al blocco dei fitti e al blocco dei
licenziamenti. Questa è la ricetta per la ripresa[39].
Le esigenze
della ricostruzione richiedono quindi per il segretario azionista una soluzione
di tipo keynesiana, ma in questo momento a capo di un troncone
socialisteggiante sopravvissuto alla scissione azionista, riconosce la esigenza
di una certa pianificazione conseguibile attraverso le attività che già fanno
capo allo Stato.
Avrebbe
avuto modo di ribadire le proprie posizioni in occasione della cosiddetta
<<Crisi Corbino>> iniziata quando il Ministro del Tesoro il 2
settembre si dimette con un conseguente rimpasto del governo. Il ministro
liberale era stato nei mesi precedenti il principale obiettivo della protesta
popolare a causa della sua politica liberista e a causa dell’inflazione che era
bruscamente salita al 35%[40].
Nel
discorso del 18 settembre alla costituente L. criticò la politica del ministro
dimissionario, fondata sul debito
fluttuante che aveva finito col creare una dura concorrenza <<tra tesoro
e industria per l’uso del risparmio>>. In sostanza la ricostruzione stava
avvenendo a spese della povera gente, L. intuisce che le speranze della destra economica si
fondono su di un prestito estero che consenta di trovare i mezzi necessari ad
aumentare la spesa pubblica. In realtà occorre affrontare la impellenti
necessità dell’erario e dare spazio con decisione al riformismo, tornando alle
proposte delle sinistre, ovvero al cambio della moneta e dell’imposta sul
patrimonio. La proposta deve avere un carattere <<fiscale>> più che
<<statistico>>; il cambio va abbinato a un grande prestito a
ridottissimo tasso di interesse, in modo da offrire ai detentori di carta
moneta l’opzione fra il prestito dello Stato a queste condizioni e la
decurtazione. La proposta Lombardiana ha una valenza politica ben precisa:
<<non dobbiamo rassicurare solamente i ricchi>> aggiunge
<<dobbiamo rassicurare anche i poveri. Non c’è edificio politico che
regga senza una vasta base di consenso popolare …sacrifici si ma per
tutti>>[41].
Frattanto i
socialisti offrono a L. come <<tecnico>>il dicastero lasciato da
Corbino. L. subordina l’accettazione ad almeno tre condizioni specifiche:
unificazione del ministero delle finanze e del tesoro per potere centralizzare
la gestione dei mezzi fiscali; l’istituzione di un <<comitato di piano
(che includa i ministri del tesoro dell’industria e della agricoltura)
>>; <<un adeguamento
salariale>>. La richiesta di L. ha chiara valenza politica e punta, come
chiarirà in seguito, a porre fine <<alla dittatura economica attribuita
al ministero del tesoro>> e a superare la paralisi della direzione
economica del governo dovuta in gran parte alla spartizione dei ministeri
economici tra i vari partiti della coalizione, spartizione che corrisponde ad
una logica di <<sfere d’influenza>>. L. rifiuta la <<proposta>>
dopo che il governo attraverso Rodolfo Moranti, si è limitato ad impegnarsi per
<<un’applicazione dilazionata delle sue indicazioni e questo rifiuto si
traduce sul piano politico parlamentare nel voto contrario, espresso da Alberto
Cianca il 26 settembre del Partito d’Azione al rimpasto governativo. Più in là
L. avrebbe giustificato questa presa di posizione anche con la necessità di non
esporre al <<trasformismo>> il suo partito; <<e trasformismo,
nell’etica P. d’A. significava il peccato che non si può perdonare>>[42].
Nell’autunno
del ’46 troverà ancora l’occasione per rivendicare a un certo riformismo
estraneo a un impostazione radicalmarxista e nello stesso tempo all’opzione
liberista pura nel processo di ricostruzione, un certo spazio, attraverso una
lettera aperta alla CGL, allora sindacato unitario in cui il Partito
d’Azione ha il 3-4 % dei voti[43].
Nella lettera L. denuncia i pericoli del tripartismo e la necessità di un impegno forte del sindacato, al di
fuori delle logiche di partito per la risoluzione del problema centrale che è
quello della disoccupazione: per questo critica certe rigidità sindacali come
il voler mantenere ad ogni costo il blocco dei licenziamenti nelle industrie
depresse <<blocco che si traduce in un aumento del rendimento del lavoro,
in un aumento del costo di produzione e inevitabilmente conduce ad un aumento
del rendimento del lavoro, in un aumento della disoccupazione nello stesso
settore considerato, in quanto provoca necessariamente il fallimento o, ciò che
fa lo stesso, l’accollamento del passivo allo Stato, e in tutti gli altri
settori delle produzioni perché aumenta i prezzi dei materiali forniti a tutte
le altre industrie e attività>>. Le masse povere e disoccupate del
Mezzogiorno sarebbero chiamate a pagare con un aumento nel prezzo dei generi
alimentari la protezione assicurata a una ristretta cerca di operai
(<<povero privilegio ma sempre privilegio>>).
L. critica
anche la politica annonaria e degli alloggi: il calmiere dei prezzi, per essere
efficaci doveva essere inquadrato in <<ben altro sistema di provvedimenti
economici, ad esempio la riduzione dell’eccessivo potere di acquisto che
provoca il rialzo dei prezzi, mediante imposte. Il blocco degli affitti
indiscriminato riduce la mano d’opera nell’edilizia:
<<oggi la realtà impone non già soltanto un’azione, ma una vera e propria politica
sindacale e fa della confederazione, se essa si rende conto dei suoi compiti
storici, il massimo organismo politico del paese…>>.
Il problema essenziale è quello del controllo pubblico delle aziende economiche realizzate non attraverso i consigli di gestione, organismi compromissori o di collaborazione di classe, ma sotto l’<<iniziativa>> e <<il patrocinio>> del sindacato stesso. Il controllo pubblico consentirà ai lavoratori di impedire la dilapidazione del profitto, per garantirsi che esso sia <<profitto risparmio>> indirizzato nella situazione attuale ad arginare la disoccupazione e non ad aumentare i consumi di lusso dei ceti abbienti, queste proposte si inquadrano nel tentativo di realizzare l’idea di un controllo sociale degli investimenti, proprio perché L. avvertiva che la ricostruzione postbellica stava avvenendo secondo i meccanismi soliti, orientati al massimo profitto dei privati. Nella fase di immobilismo politico, c’è la consapevolezza che le proposte possano essere attuate soltanto grazie al sostegno delle masse, e quindi del sindacato. Per questo di fronte alla sterilità della politica dei partiti L. rivendica al sindacato un <<ruolo politico>> su scala nazionale che dia un peso alla proposta di un partitino ormai inesistente. In questa fase si affaccia anche l’idea di una programmazione economica attuabile prima che con l’incremento della spesa pubblica, attraverso il controllo degli investimenti privati.
Frattanto
si rafforzavano all’interno del P. d’A. le tendenze fusioniste, tutte rivolte
al PSIUP, soprattutto dopo l’8 settembre, quando Parri e La Malfa decisero di
entrare nel PRI. Il CC nel mese di settembre auspicava una politica unitaria
delle forze di sinistra, <<indispensabile>> per l’azione di
<<emergenza>> e di <<ricostruzione>>.
L.
commentando i risultati del CC scriveva su <<Italia Libera>> che <<postulato>> politico del
partito rimaneva la << formazione di quel grande partito di sinistra
scevro dalla tabe parlamentistica, riformistica e trasformistica, libero da
arcaiche pregiudiziali dottrinarie>>. La prospettiva di un socialismo
moderno e democratico non allettava certo il PSIUP, che il 25 ottobre aveva
ratificato il patto di unità d’azione col PCI e che ormai nell’imminenza del
congresso, era dilaniato da contrasti interni. Tuttavia L. riconoscendo valide
entrambe le tesi che si sarebbero confrontate durante il Congresso, quella
saragattiana di evitare lo scivolamento verso destra dei ceti medi e quella
nenniana di evitare l’isolamento della classe operaia, auspica verso la fine
dell’anno, che queste due <<tendenze>> possano chiarirsi e
sommarsi, trovando una unità sul problema del governo[44].
Gli
azionisti tentano di fare tutto ciò che è possibile per evitare la scissione
saragattiana che si consuma a Palazzo Barberini e il 9 gennaio considerandola
<<una catastrofe per tutto lo schieramento democratico>>[45].
I tentativi di Lussu e di L. di sanare la contrapposizione tra le due
anime del socialismo italiano si
spiegano con l’intento di creare un nuovo spazio politico per l’eresia
socialisteggiante dell’azionismo residuo.
L. punta
alla costruzione di un nuovo partito socialista riformatore che si ponga alla
guida del governo sia in alternativa alle forze moderate sia al PCI[46].Ma
come ha osservato Tartaglia >>tutto il discorso azionista si ridusse in
breve tempo ad una proclamata opera di unificazione del socialismo italiano
senza che questo discorso fosse accompagnato da un progetto politico con
possibilità di successo>>. All’indomani della scissione L. manifesta,
intervistato dal <<Giornale d’ Italia>> preoccupazioni per
l’anticomunismo <<inconcludente quanto virulenti>>del nuovo partito
<<la cui persistenza liquiderebbe come partito legato alle masse lavoratrici>>.
Ma in particolare la riedizione degasperiana del tripartito, dopo il rientro
del Presidente del Consiglio dal suo viaggio negli USA, spinge gli azionisti ad
una apertura di credito verso il PSI nel momento in cui tutti e due i partiti
vanno all’opposizione.
Il
documento approvato il 27 gennaio dal CC invita il partito di Saragat <<a
mettersi con il Partito d’Azione medesimo alla testa della dura ma necessaria
lotta volta a dare alla Repubblica e all’Europa un forte partito socialista per
la costruzione della democrazia>>. Silvio Negro scrive al proposito sul
Corriere della Sera del 29 gennaio:
<<Questa
notte gli uomini del Partito d’ Azione hanno deciso in sostanza di sopprimere
la loro ditta sociale per entrare, non si sa se in corpo o alla spicciolata nel
partito dei socialisti autonomisti>>.[47]
In realtà le cose non erano così semplici: in seno al partito si erano manifestate due tendenze contrapposte, una favorevole alla fusione col PSLI, rappresentata da Valiani e Codignola e l’altra da L. e Foa, assai guardinga verso il nuovo partito e più attenta alla evoluzione del PSI. Ecco perché L. sente il bisogno di ridimensionare l’esito del CC in una <<lettera ai compagni (30 gennaio 1947)>> invita il PSLI <<a chiarire la propria politica in vista di un eventuale accordo>> accordo condizionato da quello che il PSLI farà per caratterizzarsi o per convincersi che insieme ad esso si potrà creare un forte e moderno partito di socialismo democratico animato da autentico spirito rivoluzionario e non dei classici partiti moderati anche se truccati da fraseologie estremiste>>. L. insisteva sulle potenzialità future del partito:
<<si è puntato>> scriveva >>verso una formazione designata come quella più capace di divenire, anche a nostro mezzo, quello che attualmente non sono né l’uno né l’altro tronco del partito socialista (…) un partito, cioè, moderno, democratico, autonomo, che si batta per una rivoluzione democratica da operare nella struttura dello stato e nella classe politica dirigente>>.
Nell’uno o
nell’altro caso l’apporto della componente ex azionista sarebbe stato
indispensabile[48].
Le
trattative avviate con Saragat a partire da gennaio furono però un fallimento
completo: l’impostazione politica e programmatica del Partito d’ Azione non fu
nemmeno presa in considerazione. Iniziava il processo di avvicinamento della
socialdemocrazia alla DC e alle altre forze moderate in crescendo di tensioni
all’interno e sul piano internazionale. Al II° congresso del partito che si
tenne al Teatro Valle di Roma dal 31 marzo al 2 aprile 1947 L., nel suo
intervento, risponde negativamente alla domanda se il PSLI è il Partito
Socialista: per la prima volta si orienta con decisione verso il PSI, la cui
capacità di autonomia è stata provata <<dal recentissimo voto sull’articolo
7>> mentre afferma che molte forze socialiste autonome restano fuori dal
PSLI, il quale ancora <<non rappresenta tutta l’area socialista>>.
L’ordine
del giorno finale del congresso ribadisce il principio del dialogo con tutte le
forze interessate ad un progetto di <<unificazione socialista>> e
definisce i punti programmatici su cui trattare con tutti (autonomia rispetto
al PCI; <<unità d’azione>> con i comunisti, solo in presenza di
nuovi rapporti di forza favorevoli ai socialisti; rifiuto della diarchia DC-PC
e progetto di <<un governo di sinistra a direzione socialista >>[49].Tutti
i principali esponenti del partito votano la mozione congressuale ma
l’equidistanza tra PSLI e PSI (sono presenti al congresso sia Saragat sia Lelio
Basso) e soltanto formale: nel successivo CC del 29 giugno L. si dimette da
segretario sostituito da Cianca. Contribuisce alla decisione la constatazione
che <<finire in un partito completamente parlamentarizzato, e privo di
radici autentiche nel movimento operale voleva dire da un lato la negazione di
tutto il patrimonio politico azionista, dall’altro la reviviscenza di un
modello di <<partito di elitès >> la cui esperienza era stata
drammaticamente e sfortunatamente vissuta proprio dal Partito d’Azione>>[50].
Frattanto si conclude il processo di logoramento della alleanza tra le maggiori
forze politiche in concomitanza con l’esplodere delle tensioni internazionali.
Alla
costituente L. continua a sostenere la sua battaglia per le riforme: l’11
febbraio criticando l’esito della crisi del secondo governo De Gasperi afferma
che <<nessuna discussione programmatica si è affrontata>> e delinea
quelli che sono gli spazi di intervento del governo, perché dimostri di
<<essere effettivamente un governo di sinistra o almeno di centro
sinistra, a questo proposito difende l’IRI che <<nato male, nel corso
della sua vita è diventato una bella donna, uno strumento utile>> per
guidare uno sforzo di razionalizzazione e di riconversione delle industrie che
necessariamente richiederebbe un intervento dello Stato in alcuni settori. Dopo
aver invocato per l’ennesima volta che si proceda al cambio della moneta
propone la nazionalizzazione dell’industria elettrica. Da quel momento in poi,
questa proposta sarà un <<chiodo fisso>> di L.
[51].
Grazie alla determinazione, oltre che di L., anche di La Malfa e Giolitti , il
2 gennaio veniva promulgato un decreto che costituiva l’ente per la
elettrificazione in Sicilia (ESE) attraverso il quale, in una regione
arretrata, si sperimentava il modello rooselvettiano della Tennessee Valley
Authority . Sotto la presidenza di R. L. l’ente cercò di spezzare il monopolio
privato della SGES (Società Generale Elettrica), essendo concessionario de iure
di tutte le acque pubbliche, realizzò otto centrali e sei grandi dighe e
ottenne un abbassamento dei prezzi sul mercato dell’energia della regione.
Dopo la
svolta moderata del ’47 e grazie all’impegno del governo regionale Restivo la
SGES riuscirà a riconquistare le posizioni perdute, interrompendo il dinamismo
del nuovo ente ma qualcosa di quel tentativo riformista e anticipatore rimase : un progetto per la
trasformazione irrigua della piana di Catania, che negli anni a venire avrebbe
favorito in senso positivo l’evoluzione del paesaggio agrario
[52].
Nello
stesso tempo L. inizia una dura polemica
con il PCI, in particolare dopo il voto sull’art. 7 della Costituzione.
<<La politica del PCI>> scrive in quei giorni, <<è impegnata
a coprirsi verso destra, essa non si preoccupa perché non teme di scoprirsi a
sinistra>>. Compito storico delle sinistre è di costruire una società
diversa ed alternativa. <<Il PCI è democratico, onesto, c’è da fidarsi di
esso, solo che non si può delegarvi per comodità o fiacchezza, le finalità che invece sono
specifiche delle sinistre>>[53].
Da quel momento l. inizierà un lavoro, volto a promuovere attraverso la
<<piccola intesa>> dei partiti democratici ( P. d’A, PSDI, PRI) un
governo alternativo, che includa anche PCI e PSI ma garantisca nell’ambito
della sinistra una chiara egemonia delle forze socialiste e democratiche. Di
qui l’asprezza della polemica con il governo tripartito, accusato di oscillare
<<senza bussola tra due politiche
diverse, sterilizzandole entrambi>>[54].
Di qui anche la richiesta a Nitti,
presidente incaricato dopo le dimissioni di De Gasperi, di una politica
economica riformatrice, garantita dalla presenza di uomini della
<<piccola intesa alla guida dei ministeri economici. Il tentativo di
Nitti fu affossato da Saragat, ma Nitti comprendeva bene che dietro le sue
resistenze vi erano quelle della DC. Il
governo di unione nazionale patrocinato da Nitti (che avrebbe dovuto includere
anche PCI e PLI) era ormai impossibile a realizzarsi: si apriva la strada
all’egemonia moderata nella vita politica italiana. L., però attacca Nitti alla
Costituente il 20 giugno perché comprende che il suo tentativo avrebbe salvato
la forma ma non la sostanza:
<<Quando noi domandavamo a Nitti precisazioni sulla
politica economica finanziaria Nitti taceva sorridendo, e questo ci mise in
grave sospetto…>>
Insomma, L.
ritiene che soltanto una scelta programmatica ben precisa a favore delle
riforme avrebbe rappresentato un’alternativa chiara del tripartito. Nel suo
discorso ritorna sull’importanza dell’IRI, che si stava rivelando sempre più
come <<l’unico strumento per la politica sociale che abbia il
governo>>[55].
In realtà
l’affossamento del tentativo di Nitti non porterà, come riteneva L. in quei
giorni ad una riedizione del tripartito ma ad una svolta moderata di lungo
periodo senza più l’avallo di Togliatti e di Nenni.
Nel settembre
questo esito della crisi sarà più chiaro e le sinistre inizieranno un processo di ricomposizione tra
loro. A metà mese PCI, PSI, e P d’A aderiranno ad una comune mozione di
sfiducia contro il <<cancelliere>> De Gasperi e il suo governo di
centro destra. L’opposizione di sinistra, scrive L. il 13 settembre, deve darsi
un piano di lotta, beninteso nel quadro degli istituti democratici non
vanamente e stoltamente agitatorio e irresponsabile, in sostanza un programma
di governo da attuare il giorno in cui ottenesse la maggioranza[56].
Da quel momento L. si oppone alla logica dei blocchi militari, una logica
d’oppressione che finisce con l’appiattire la vita politica interna, mero
riflesso della situazione internazionale.
Sull’Italia
socialista rifiuta questa logica e invita a non percorrere le vie greca o
polacca
<<non
è lecito escludere il partito numeroso e dotato di notevole presa
sull’elettorato dal terreno democratico… tanto varrebbe ricacciarlo nella
illegalità>>[57].
Nello stesso tempo ribadisce la propria contrarietà alla egemonia del PCI su tutta la sinistra e propone un accordo tra tutte le forze all’opposizione del quarto ministero De Gasperi. Non è possibile la dialettica democratica cristallizzando la divisione del paese in due fronti perché
<<Lo
Stato non si conquista ne coi sistemi di violenza ne coi sistemi dei blocchi;
lo Stato si amministra e si organizza e sul modo di organizzarlo e di
amministrarlo che vertono le divergenze legittime in questa assemblea e sono
lecite le discussioni>>[58].
La posizione Lombardiana e il suo progetto di una terza forza laica e socialista con la <<piccola intesa>> era destinata al fallimento. La logica dei blocchi manderà le due principali forze della sinistra all’opposizione a tempo indeterminato mentre PSLI e PRI entreranno nell’area di governo L. ne prendeva atto e il 20 ottobre decideva di confluire nel PSI dopo aver posto fine all’esistenza giuridica del P d’A. Nella <<dichiarazione di confluenza>> Lombardi sottolineava che <<esistono due partiti e due politici PCI e PSI, che possono o no coincidere e infatti non coincidono come nel caso del cominform>>. Ribadendo i valori dell’autonomia L. continuerà la lotta nel partito di Nenni per un socialismo autonomo che nel solco dell’azionismo realizzasse il suo sogno, quello di una nuova democrazia[59].
[1] Cfr. V. FOA: <<IL Cavallo e la torre>>, Torino, 1991, pp.149-150
[2] Cfr. C. ZIVIANI PANCIAMORE: <<Il CNL della L. a >>, in La resistenza in L. a a cura di Loris Rizzi, Firenze, 1981.
[3] R. L. , I problemi del potere nella Milano liberata in La Resistenza in L. a, Milano, 1965, passim
[4] Cfr. GINSBORG, op. cit. pag. 89.
[5] Cfr. TORTORETO,Le condizioni economiche di Milano nel 1945 e la politica del CLNAL in<< Rivista storica del socialismo>>, luglio- settembre 1958.
[6] Cfr. L intervista, cit. ac Stajano.
[7] Cfr.
M. BACCALIN PUNZO,Il CNLdella città di
Milano e sobborghi in la Resistenza in Lombardiana. cit.
[8] BANFI, op. cit., pag. 365.
[9] Cfr. TORTORETO, op. cit., pag. 23-24.
[10] Cfr. GINSBORG, op. cit., pag. 118.
[11] Ivi, pag. 116.
[12] Cit. in TORTORERO, op. cit. pag. 26.
[13] Cfr. LEPRE, op. cit., pag. 64-70; DE
LUNA, op. cit., pag. 340-345.
[14] Cfr. F. BARBAGALLO, <<Classe Nazione e Democrazia: la sinistra in Italia dal 1944 al 1956>>, in Studi storici, n° 2/3, 1992. Alla fine di agosto il segretario di Stato James Byrnes comunica a Parri che il governo degli USA desidera che in Italia si tengano le elezioni amministrative.
[15] Cfr. V. FOA: <<Il cavallo e la torre>>, cit. , pp. 186-187.
[16] Confr. Scritti politici di R.L. a cura di S. COLARIZI, Venezia, 1978, pag. 8-13.
[17] Cfr. BARBGALLO, <<La formazione dell’Italia democratica>> in Storia dell’Italia repubblicana: la costruzione della democrazia, Torino, 1994, pag. 65.
[18] Cfr. DE LUNA, op. cit., pag. 345.
[19] Cfr. G. TARTAGLIA: I congressi del partito d’azione, Roma, 1984, pag. 342.
[20] Cfr. M. BACCALINI PUNZO, op. cit. , pag. 128. Nel settembre ’45, va ricordato L. era entrato nella consulta nazionale, prendendo parte ai lavori ma senza intervenire nei dibattiti.
[21] Cfr. COLARIZI: L. , op. cit., pag. 340.
[22] Cfr. BANFI , disc. cit, pag. 365.
[23] Cfr. il suo discorso sul bilancio del ministero dei trasporti del 18 aprile 1956 che si trova in atti della C. d. D. Il legislatura, pag. 25229 e seg., in cui L. ricordò che in quei mesi << delegazioni delle diverse regioni venivano a patrocinare cose assurde meschine e stravaganti. Per noi allora era più facile resistere di quanto non sia stato in seguito. C’era di fronte a noi la necessità impellente di ricostruire prima di tutto le grandi longitudinali e le grandi trasversali: e ciò bastò a tenere indietro i postulanti…>>.
[24] Cfr. GINSBORG:Storia d’Italia,op. cit., pag. 123-125.
[25] A. GAMBINO:Storia del dopoguerra, dalla liberazione al potere Dc,Bari, 1975, pag.118-119.In queste dichiarazioni L. rileva anche <<lo scarso peso politico dimostrato in questa circostanza dal P. d’. A.
[26] Cfr. GINSBORG:Storia d’ Italia, op. cit. , pag. 123-125.
[27] Cfr. AURELI, disc. cit., pag.340.
[28] MARIUCCIA SALVATI:<<Amministrazione pubblica e partiti>>in Storia dell’Italia Repubblicana, cit., pp. 456-457.Anche gli azionisti dunque come i comunisti non difesero il progetto per questo motivo.
[29] Tredici anni dopo nella relazione introduttiva di un convegno dell’ industria pubblica L. affermava: <<in quel momento la classe dirigente italiana rinunciò a servirsi in modo coerente sia della politica globalista sia della politica intervezionista diretta (…) e fece trovare la struttura italiana di fronte ad una situazione che forse in forma non eccessivamente paradossale, definirsi di alternativa tra un capitalismo povero di capitali e un dirigismo povero di poteri. Se c’era un paese nel quale proprio la insufficienza e la povertà dei capitali esigeva una politica dirigista provvista di reali poteri questo era l’Italia, appunto per la carenza di capitale.
[30] Cfr. Sulla cronaca dettagliata di questo congresso DE LUNA, op. cit., pag. 347-359.
[31] Cfr. interv. Di R. L. al I° congresso del P. d. A. in TARTAGLIA , op. cit., pag. 29-30.
[32] Cfr. R. L. : riforme erivoluzione dopo la seconda guerra mondiale in Quazza: <<Riforme e Rivoluzione nella storia contemporanea, Torino, 1977, pag. 312.
[33] Cfr. TORTORETO: op. cit., pag. 29-30.
[34] Cfr. DE LUNA, op. cit., pag. 354. Il successivo Consiglio Nazionale evidenziava la ripresa delle correnti autonomistiche all’interno del partito ed eleggeva alla unanimità R. L. segretario quasi a testimoniare una ritrovata continuità con tutta la vicenda precongressuale.
[35] TARTAGLIA, op. cit., pag. 400.
[36] Cfr. FOA: Il cavallo…op. cit., pag. 56.
[37] Cfr P. NENNI: Diari 1943-1956, Milano, 1981, pag. 246.
[38] Cfr. MAFAI, op. cit. pag. 28.
[39] Ivi pag. 35.
[40] Cfr. LEPRE, op. cit. , pag. 76.
[41] R. L. , <<Rassicurare i poveri>>, in atti della costituente, pag. 489 –00.
[42] Cfr. TORTORETO: La politica, cit. , pag. 35.
[43] Cfr. R. L. ,Lettera aperta alla CGL in <<Italia Libera>>. 25 ottobre 1946.
[44] <<I socialisti, scrive L. su Italia Liberia, il 20 dicembre>>, devono porsi il problema della effettiva direzione del governo e avere il coraggio di porsela non in termini di palingenesi sociale ma di reale, sana e ordinaria amministrazione diretta a salvare il paese dal marasma e dalla dissoluzione>>.
[45] DE LUNA, op. cit., pag. 359.
[46] Sull’Italia Libera il 9 gennaio 1947 propone ai socialisti l’ipotesi di porsi come partito di governo su un programma chiaramente riformatore.
[47] Cit. in TORTORETO, pag. 37.
[48] Cit. in TORTORETO,pag.37.
[49] Cfr. per il discorso di L., TARTAGLIA, op. cit., pp. 442-457.
[50] Cfr., DE LUNA, op. cit., pag. 364. Infatti la scissione si era rivelata un mero fatto parlamentare dal momento che 52 su 115 parlamentari alla costituente avevano lasciato il PSI, mentre al congresso della CGl la corrente socialdemocratica aveva ottenuto 38 mila voti rispetto ai 2 milioni del PCI e al milione del PSI.
[51] AURELI, cit. pp. 336-338; SALVATI, cit., pag.449.
[52] G. BARONI: Stato e Mezzogiorno(1943-60) in Storia dell’Italia Repubblicana, Torino, 1994, pp. 404-405.
[53] Cfr. R. L. <<dopo il voto sul concordato>> in <<L’Italia Libera>>, 28 marzo 1947.
[54] Governo d’unione sacra? In <<L’Italia Libera>>, 8 maggio 1947.
[55] Cfr. disc. di L. alla costituente del 20 giugno 1947.
[56] R.
L. <<Opposizione e governo>>
sull’Italia Socialista.
[57] Cfr. <<Ne vie greche ne vie polacche>> in L’Italia socialista, 25 settembre 1947. In Polonia e in Grecia la <<logica>> dei blocchi era prevalsa e aveva portato alla fine della democrazia.
[58] Cfr.
Intervista pubblicata dall’Italia
socialista dell’11 ottobre ’47.
[59] Per il documento finale firmato da L. , cfr. TORTORETO, op. cit. pag. 49.