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CAPITOLO TERZO

L’INGEGNERE PREFETTO E MINISTRO

Vittorio Foa ricorda di avere avuto una gran paura la notte del 25 aprile del 1945, nella Milano liberata. L’ingegnere Riccardo L., prefetto designato del CLNAI sembrava disperso e si chiese a Foa di sostituirlo. Ma il povero Foa non sapeva nulla di amministrazione e non conosceva la città e per questo tirò un sospiro di sollievo quando alle cinque del mattino L. fu ritrovato con una squadra di partigiani. Il fatto è che gli azionisti del CLNAI erano preoccupati perché temevano di perdere i  <<posto>>  che gli accordi precedenti avevano assegnato di diritto al Partito d’Azione ricordando quell’episodio con una punta di amarezza , Foa scriverà : <<le lottizzazioni contro le quali ho poi protestato e protesto tuttora partivano proprio da noi, dall’antifascismo nel suo momento più militante quello dell’insurrezione conclusiva>>[1].

A proposito di L. ricordando la sua straordinaria esperienza di prefetto della maggiore città del nord, Foa ebbe a dire: <<era un ingegnere in senso pieno, dove interveniva costruiva>>. Non a caso L. esordì dimostrando notevoli doti di umanità: fece immediatamente cessare lo scempio di piazzale Loreto affermando che la fucilazione era giusta ma non lo era certo infierire sui cadaveri, e conscio del fatto che in quei giorni si sarebbero consumate  vendette sempre più cupe emanò il 2 maggio un decreto col quale sospendeva le fucilazioni arbitrarie[2]. Molti anni più tardi avrebbe dichiarato di essere uscito da quella terribile esperienza <<con un senso di orrore per la violenza>> e di essere sicuro che << novantanove su cento di quelli che hanno impugnato le armi e sparato conservano l’orrore di quegli atti>>.

Fin dall’inizio L. si rileva  un politico intransigente e ben deciso a fare conti fino in fondo col fascismo: il 30 aprile firma un mandato di cattura contro Pirelli, Donegani, Marinotti, Treccani e altri industriali. Molti anni più tardi citando l’episodio L. insisterà sul significato politico profondo del gesto affermando di non avere spiccato mandati di cattura contro i <<portinai>> ma contro i <<responsabili finanziari>>. In  realtà soltanto Donegani fu catturato (mentre Pirelli sfuggì per poco alla cattura ma in realtà riuscì ad evadere servendosi di un mandato di scarcerazione falso. Il nuovo prefetto  era convinto che “una rivoluzione se non è cambiamento della classe dirigente, è niente” e che “anche la cosiddetta rivoluzione fascista era stata soltanto una rivelazione perché non rappresentò nessun cambiamento dei rapporti sociali di classe ma anche assicurò la continuità a una classe politica che dopo una breve teorica resistenza passò armi e bagagli al vincitore”. L’atteggiamento dell’ingegnere prefetto evidenzia bene il sogno e le illusioni di quanti, soprattutto al nord, speravano di infrangere la “continuità giuridica dello stato e consideravano l’appoggio dato al fascismo dal grande capitale, dai grandi burocrati e funzionali dai dirigenti economici un motivo più che sufficiente per eliminare la vecchia classe dirigente e sostituirla con una nuova. La ricostituzione attorno alla DC del blocco politico-sociale dominante stava già avvenendo: di lì a poco il deterioramento della situazione internazionale e la crisi dell’alleanza antinazista avrebbero acceleralo questo processo: Pirelli non avrebbe mai più rischiato di finire a San Vittore.

Il governo della città in quei mesi presenta notevoli difficoltà: i sabotaggi e le resistenze della burocrazia rendono difficile la vita a un prefetto espressione della resistenza[3]. Nel maggio del 1945 con un memorabile discorso alle autorità alleate L. lo rivendica il ruolo e l’autonomia della resistenza: <<il popolo italiano conosce le sue responsabilità e ne sopporta visibilmente le conseguenze ma vuole che sia riconosciuto l’apporto che esso ha dato alla lotta comune (…). E’ con questo spirito che noi, assumiamo i poteri che intendiamo usare per  la realizzazione dello scopo della nostra vita, che è di creare un’Italia democratica capace di assumere il suo posto in un Europa libera e in un mondo alla fine sottratto all’incubo della guerra e dell’oppressione>>. E in questo spirito L. si rifiuta di giurare fedeltà alle autorità alleate e chiarisce di sentirsi responsabile solo verso il CNL. Ci si è chiesti se a Milano i rapporti con gli alleati fossero stati di subordinazione o meno e L. ha cercato di rispondere a questa domanda affermando che <<furono di reciproco rispetto>>. <<Questa era più una illusione che una realtà>> ha scritto di recente Ginsborg[4]. Di certo Riccardo L. ce la mise tutta per risolvere i problemi della città devastata tenendo conto il meno possibile degli input degli angloamericani. I momenti di frizione non mancarono. La situazione alimentare della città richiedeva per la sua gravità misure straordinarie:[5] una di esse fu varata per la distribuzione del latte; il prefetto aveva deciso di distribuirne 100  grammi al giorno, anche allo scopo di impedire la speculazione sul formaggio venduto poi in Svizzera. Per raccogliere il latte nelle cascine furono mobilitati perfino i pompieri e il prefetto rinunciò alla scorta di benzina alla prefettura, finendo col servirsi di una bicicletta .

Di fronte al sabotaggio dei formaggi arriva a decretare il sequestro della Galbani: <<Apriti cielo! Gli alleati mi mandarono a chiamare alla Montecatini dove avevano il loro comando e ci fu una violenta scenata>>. Ricorderà lo stesso L., <<Lei ritira il decreto perché noi non lo permettiamo>> <<molto semplice, domani faccio un manifesto in cui dico che mi sono dimesso perché gli alleati mi hanno impedito di distribuire il latte a Milano>>. <<Il giorno dopo acconsentirono a firmare un decreto a sei mesi[6]>>.

Altro problema di grande momento era quello degli alloggi: il prefetto cercò di risolverlo con moderazione il 24 maggio, nello spirito della resistenza decretò che nell’assegnazione dei locali i patrioti avessero la precedenza[7].In questo periodo dimostra un’abilità a fare compromessi senza rinnegare mai la linea di fondo: ad esempio, quando il comando alleato chiederà l’imposizione della moratoria dei pagamenti e la chiusura temporanea delle banche; L. è convinto che il provvedimento a Milano sia del tutto inutile, dal momento che non vi è alcuna corsa a prelevare denaro depositato e che una moratoria danneggerebbe la ripresa economica. Dopo una lunga discussione in prefettura, su proposta di un banchiere azionista, tale Reina, si arriva ad un compromesso con gli alleati in base al quale è prevista la chiusura delle banche per due giorni, sabato e domenica; insomma, la moratoria ci sarebbe stata ma nessuno se ne sarebbe accorto [8]. Il nuovo prefetto riesce, inoltre, a comporre la vertenza sindacale tra i braccianti e gli agrari (patto colonico del 22 giugno) allo scopo di evitare tra l’altro, danni al raccolto. Mobilita partigiani ed operai, attraverso il CNL di azienda e di quartiere e li autorizza a prelevare viveri dai depositi militari, per organizzare mense e distribuire pasti ai più bisognosi. Con la tenacia impone ai sindaci di comuni agricoli di conferire il grano all’ammasso. Si rileverà un abilissimo mediatore nella stipula dei contratti di lavoro: il 16 maggio le mondine, grazie alla mediazione del prefetto ottengono un aumento di salario da 80 a 130 lire al giorno più un Kg. di riso. Risolve brillantemente la questione dell‘<<indennità di contingenza>>:il 2 maggio gli alleati e la commissione economica hanno imposto il blocco dei salari e dei prezzi; i sindacati di fronte all’aumento dei prezzi chiedono il conferimento di una indennità. Dopo quattro giorni di trattative in prefettura la vertenza è risolta ma gli alleati ritardano la ratifica. Per ottenerla ci vorrà uno sciopero generale, il primo dell’Italia liberata. Il 5 luglio da Porta Vittoria all’Arena sfileranno 300.000 persone. Preoccupatissimo, il nuovo presidente del consiglio Ferruccio Parri deciderà di incontrare L. ; e il prefetto con insistenza ribadirà che: <<in questo momento gli interessi generali si riassumono nella politica del governo e della resistenza>>; avrà partita vinta.

Tuttavia L. ritiene che in questo momento i lavoratori non debbano boicottare la ripresa delle normali attività finanziarie e a fine maggio presenzierà alla riapertura della borsa di Milano. Non abbandonerà certo l’attività di economista e politico: la tempra di politico illuminato keynesiano emergerà nel maggio del ’45, quando s’opporrà invano alla concessione  da parte del governo Parri del <<premio della liberazione>> a quasi tutti i lavoratori dipendenti.

Esso costituiva nei fatti una imposta straordinaria sul capitale in ragione del numero dei lavoratori occupati; il governo avrebbe potuto ottenere la stessa somma col prelievo fiscale e avrebbe dovuto investirla in opere pubbliche e sociali, riducendo la disoccupazione e stimolando ulteriori investimenti da parte dei privati.

Del resto L. percepisce abbastanza chiaramente sia in questa circostanza che nel momento in cui, nel giugno del ’46 si decide di erogare il premio della Repubblica, che ciò corrisponde anche agli interessi degli speculatori che attendono di vendere le merci accumulate. Si trattava, attraverso una politica di investimenti produttivi e lungimiranti, di colpire i ceti  parassitari, più interessati ad un assistenzialismo fino a se stesso[9].

Frattanto si esauriva nel disinteresse generale l’esperienza governativa di un azionista, Ferruccio Parri. Paralizzato all’interno dallo scontro tra le sinistre (soprattutto gli azionisti) e la DC sul rinvio delle elezioni e sul ruolo dei CNL, il governo non fece praticamente nulla per mettere a frutto la pressione del vento del nord. Il governo era messo in difficoltà anche dai sabotaggi continui dell’apparato burocratico-amministrativo. Le destre approfittarono della situazione di debolezza del ministero per proporre la liquidazione del CNL. Alla fine di maggio il segretario liberale Cattanei affermava che la democrazia poteva essere basata soltanto sui <<suffragi liberi, diretti e segreti di tutti i cittadini singolarmente considerati >>.

Al primo congresso del CNLAI tenutosi al Teatro Lirico di Milano alla fin e di agosto del ’45 Cattanei prende per primo la parola chiarendo il suo pensiero: i CNL devono diventare organi puramente consultivi e le decisioni all’interno di essi vanno prese in base al principio della unanimità, in sostanza devono essere liquidati. Intervenendo subito dopo L. insiste con rabbia sulla <<funzione democratica in atto>> dei CNL: <<essi sono figli della necessità>> e possono sventare i pericoli che il paese sta correndo dopo le grandi speranze e le facili illusioni della Liberazione: <<C’è un pericolo obiettivo di frattura tra Nord e Sud…C’è anche un certo pericolo di frattura sociale tra le diverse classi produttive del paese>>. Solo i CNL potranno assumersi l’impegno concreto di realizzare alcune aspirazioni popolari come una Riforma agraria <<fondamentale per la ricostruzione democratica dall’Italia>>.

IL riferimento di L. alla Riforma agraria non è casuale dal momento che le sinistre speravano che questo fosse uno dei primi obiettivi del governo Parri. In realtà pare che Parri di fronte ad una esplicita richiesta di Palmiro Togliatti in tal senso abbia risposto picche, col dubbio pretesto che nel caso in cui il governo avesse dato inizio ad una vasta riforma agraria gli alleati sarebbero intervenuti con la forza[10]. Ma al centro dell’azione dei CLN bisogna porre la lotta contro la disoccupazione: <<Nessuno può essere lasciato senza lavoro>> nemmeno i fascisti e i curati[11].

Un testimone presente al dibattito congressuale commentò: <<esposte da L. queste sono prospettive da apocalisse; Egli  scuote l’uditorio e prima di tutti se stesso con una energia senza gesti, agitato dalla sola sua voce che gli disgrega le membra. Alla fine esce curvo e insaccato nella giacca come un profeta nella pelle di capra>>[12]. Il primo settembre Parri si pronunciò in  definitiva contro queste posizioni:<<E’ evidente che i CNL devono rispettare i limiti di responsabilità. La responsabilità di decisione è dello Stato e dei suoi organi e non può essere frazionata>> Liberali  e Democristiani potevano essere soddisfatti. In realtà il governo era fortemente indebolito anche dalle incertezze del partito di L. e del Presidente del Consiglio che a partire dal 1945 appare chiaramente diviso in due tronconi, uno settentrionale e l’altro centro-meridionale. Uno screzio tra Ugo La Malfa, ormai nettamente schierato per una politica economica di centro (vedesi la sua proposta formulata proprio nell’estate, imperniata sull’articolazione in <<due tempi >> della politica economica), ed Emilio Lussu rende completamente inutile la discussione tenutasi a Milano il 15 luglio tra i due tronconi dell’esecutivo: una mozione finale preparata da L., Leo Valiani e Tristano Codignola non viene posta neanche in votazione. Nella riunione dell’esecutivo Nazionale del 18-19 agosto ’45 la proposta di far procedere le elezioni politiche a quelle amministrative viene approvata a larghissima maggioranza (19 voti a 6) nonostante la forte opposizione di La Malfa. Ma in settembre la presa di posizione per conto della DC del ministro degli esteri Alcide De Gasperi, e soprattutto, il <<consiglio>> degli alleati inducono lo stesso Parri, che ha sostenuto la posizione del suo partito, a cambiare intendimento.

Appare evidente che il governo Parri ha i giorni contati. Le destre fanno di tutto perché il vento del nord cessi mentre le sinistre abbandonano il silenzio il partigiano Maurizio che già pensano di liquidare quanto prima[13]. A dire il vero sia Nenni che Togliatti fin dall’agosto avevano espresso in varie occasioni un giudizio sostanzialmente negativo sull’attività di governo.

Nello stesso tempo gli alleati appaiono in questi mesi seriamente preoccupati per la situazione politica italiana. Si pone per la prima volta il problema dell’appoggio alle forze moderate, anche clandestino, pur di arginare il dilagare della <<capacità persuasiva>> della ideologia comunista[14].

Intorno alla metà di settembre , come ricorda con estrema precisione Foa, giungono a Roma Alterio, Spinelli, Moranti e Sereni preoccupati del logoramento del governo Parri. Essi propongono la nomina di L. alla carica di ministro dell’interno per preparare con lui la successione a Parri. L. rifiuta per motivi di ordine personale (la moglie Hena non vuole trasferirsi nella capitale) ma forse anche per motivi politici L. non vuole lasciare la carica di prefetto perché teme che il suo successore non venga nominato dal CLN e cerca garanzie in questo senso[15]. Probabilmente per lo stesso motivo ai primi di luglio aveva rifiutato la nomina da parte dello stesso Parri alla Direzione generale delle PS. Una scelta, secondo De Luna, operata <<nell’interesse del Partito d’Azione>> che avrebbe indebolito l’azione del governo in un settore cruciale.

L. , tuttavia, appare fin dall’autunno cosciente della definitiva sconfitta della resistenza nel norditalia. Un documento d’importanza fondamentale è la lettera scritta all’amico Giovanni Speranzini da Milano il 7 novembre, in cui per la prima volta, L. parla di rivoluzione mancata. La delusione scrive L.  occorre che non si traduca in una mentalità rinunciataria e passiva. Non vi sono prospettive per l’esperienza rivoluzionaria, ma all’azione rivoluzionaria deve seguire <<l’azione riformatrice>> non <<riformista>> in modo da pervenire il più rapidamente possibile alla riforma delle strutture dello Stato. È in quel momento che, come commenta la Colarizi <<il riformismo rivoluzionario diventa un’idea forza su cui innestare attraverso una elaborazione via via modificatesi in armonia alle diverse fasi della vita politica italiana lo sforzo continuo per la definizione, la conquista e la costruzione della società socialista>>. Da quel momento, venuta meno, date le condizioni politiche e militari le possibilità per lo sviluppo dell’esperienza rivoluzionaria, l’obiettivo fondamentale dell’attività politica del L. diventa quello della riforma di struttura,  che in questa fase avrebbero portato alla nascita di una società realmente democratica. In questo momento per L. (siamo a pochi mesi dalla fine della guerra) questa strategia può essere attuata facendo ricorso ai CLN uno strumento adatto ad una mobilitazione permanente di massa.

Il problema principale è la nascita di una vera democrazia in Italia per la quale è necessaria che <<il più gran numero possibile di lavoratori di tutti i ceti sia interessato politicamente ed economicamente ad uno stato democratico, al punto che tutti si sentano minacciati quando la democrazia è in pericolo…>>.

Nel volontarismo di questo documento  traspare tutta l’anima azionista di L. anche se i capisaldi della politica qui indicati (e cioè le riforme) rivelano già un’impostazione radical-socialista: risoluzione del divario Nord-Sud in nome dell’unità di classe; riforma agraria e riforma profonda dell’apparato burocratico-statale; controllo pubblico dell’apparato industriale e finanziario; lotta alle intromissioni clericali nella vita sociale e politica[16]. Nonostante i buoni propositi L. non appare fiducioso sull’attuazione di queste riforme: rammenta a Speranzini che <<della vecchia struttura italiana prefascista e responsabile del fascismo fanno parte anche i partiti tradizionali>> e che <<anche nei partiti più estremisti esistono elementi reazionari. La <<sordida  preoccupazione di salvare il salvabile>> da parte  della destra, le preoccupazioni massimalistiche del PSIUP, le <<malintese preoccupazioni unitarie del PCI>> sono un sintomo evidente della necessità di superare il vecchio sistema per potere, da un lato consolidare le istituzioni democratiche, dall’altro introdurre una serie di riforme profonde.

In  questo intervento c’è una presa di coscienza del <<raffreddamento della lava incandescente>>, cioè della fine delle capacità propulsive della stagione rivoluzionaria del Nord Italia. Del resto, in quei giorni, si consolida il fronte moderato e si conclude definitivamente l’esperienze di un’azionista alla guida del governo del paese.

Il 24 novembre, infatti, Parri dà le dimissioni: l’iniziativa del PLI avallata dalla DC avrebbe garantito la continuità delle strutture amministrative che nei mesi precedenti avevano bloccato ogni attività riformatrice di Parri, ora descritto da Carlo Levi come un <<crisantemo sopra un letamaio>>.

Tuttavia la nomina a Presidente del Consiglio di Alcide De Gasperi in una prospettiva tutto sommato ancora favorevole alla sinistra non appare, in questa fase, come una svolta fondamentale nella storia d’Italia. Nenni e Togliatti si rallegrarono per il controllo che sono riusciti ad ottenere del ministero dell’interno, attraverso un socialista, in vista delle elezioni e per la definitiva affermazione dei partiti antifascisti di massa (per la prima volta Presidente del Consiglio è il leader di uno di essi) ma non percepiscono affatto che il monopolio DC è destinato a durare per gli anni a venire[17]. Gli azionisti partecipano mal volentieri al nuovo governo: esso appare al Partito d’Azione come <<una combinazione social-cattolica, con i comunisti in posizione immediatamente seguente e con direzione cattolica, qualcosa di  mezzo, quindi, fra l’accordo dei tre partiti di massa, vagheggiato dai comunisti, e il blocco cattolico-socialista operante in Francia e in Austria, una coalizione <<punitiva>> per l’azionismo …>>. L. è designato dal partito per il ministero dei trasporti e si dichiara immediatamente contrario alla partecipazione[18].

 Attaccato da Lussu non molto tempo dopo durante un congresso del partito, per essere entrato nel governo, L. ricorderà di essersi rifiutato di accettare la carica e di essere entrato nel Governo <<sono per una questione di disciplina[19]>>. Superate le resistenze dei familiari si trasferisce nella capitale in via definitiva il 15 dicembre, diventando così un politico attivo a livello nazionale: nello stesso tempo riesce a sventare la manovra della DC che in ossequi al vecchio motto <<promoveatur ut amoveatur>>intende rimuoverlo dalla carica prefettizia nella capitale del nord, dove ha ormai assunto, in quanto espresso dalle forze di sinistra del CLNAI un preciso peso politico. Riuscirà ad ottenere l’esaudimento della richiesta avanzata dal CLN il 14 dicembre, cioè che il nuovo prefetto fosse espressione delle forze democratiche locali [20].

Come prefetto Riccardo L. aveva dimostrato di non voler indulgere a quel <<massimalismo d’impronta demagogica assai diffuso nel clima dell’epoca>>[21], ma di riuscire a dare risposte concrete e pragmatiche a bisogni concreti: seppe mettere a frutto questa esperienza per elaborare nuove proposte di riforma. <<La mia esperienza>> scrive il 28 agosto ’45 sul Corriere Lombardo <<mai conferma che l’istituto prefettizio è da sopprimere. Questo del resto è  uno dei postulati del mio partito. E una istituzione napoleonica, antidemocratica. […] noi vogliamo piuttosto una organizzazione regionale incaricata di garantire il rispetto della legge nazionale ed eletta in loco. È questa la condizione essenziale per la democratizzazione del paese e per la riduzione dell’apparato burocratico>>. Inutile dire che queste parole non avranno alcun seguito . Ettore Trailo, ultimo prefetto milanese espressione della Resistenza e del CLN sarà destituito con lo scoppio della <<guerra fredda e l’estromissione delle sinistre del Governo; l’istituto prefettizio sarà uno strumento valido ed efficiente nella mani del ministro Scelba per condizionare fortemente dal centro la vita democratica a livello locale.

L. reggerà il dicastero dei trasporti per pochissimo tempo; appena sei mesi, non basteranno per rimettere in sesto le maggiori linee, per ordinare nuove vetture e carri, per far tornare il sistema ferroviario alla quasi normalità[22] . Al centro  del suo progetto di ricostruzione porrà le grandi trasversali, cercando di mitigare i fermenti localistici che premevano soprattutto allo scopo di riattivare linee minori[23].

In sede collegiale il ministro si occuperà, però, con determinazione di politica economica-finanziaria: durante la seduta del consiglio dei ministri dell’11 gennaio ’46 si batterà strenuamente per il cambio della moneta proposto dal ministro comunista delle finanze Mauoro Scoccimarro.  In  effetti la proposta risaliva al governo Parri ed era approvata dal vecchio liberale Marcello Soleri, allora ministro del tesoro. In seguito alla morte di Soleri il nuovo ministro Ricci e il rappresentante della Confindustria nella Consulta nazionale Epicarmo  Corbino si erano opposti al cambio.

Indubbiamente la nomina a ministro del tesoro del governo De Gasperi dello stesso Corbino rappresentò un elemento di debolezza per il piano Scoccimarro. In sostanza il progetto fu accantonato nell’<<indifferenza>> di De Gasperi e le sinistre accettarono il ricatto velato <<o cambio della moneta a rinvio delle elezioni>>[24]. In seguito L. rievocando quella riunione accuserà di <<opportunismo per motivi elettorali>>i comunisti; racconterà a Gambino che sostanzialmente i comunisti accettarono le critiche della destra al progetto, in base alle quali il cambio delle monete avrebbe colpito i piccoli e medi imprenditori [25]. Ma questa convinzione risaliva già a quell’epoca, tanto è vero che nel giugno del 1947,in un discorso alla Costituente L. lamenterà che <<l’On. Scoccimarro ha fatto una sua politica ed essa è stata sabotata, ma non per questo il suo partito ha messo in crisi il governo>>[26].

Bisogna, però, ricordare che il neanche il Partito d’ Azione si pose il problema di spaccare la compagine governativa e un documento di politica economico finanziaria ed elaborato il 9 febbraio dal CC del partito abbandonava in via definitiva e si limitava a sostenere ancora l’imposta progressiva sul patrimonio.

Lo stesso L. in un articolo su <<Italia libera>> il 5 giugno avrebbe scritto che <<ormai è troppo tardi per il cambio della moneta, troppo tardi per iniziare una finanza straordinaria>>. Tuttavia continua a non essere d’accordo con questa decisione, come rivelano gli accesi interventi del periodo successivo alla Costituente [27]. Di recente è emersa su tutta la questione un’interpretazione più convincente : la posizione delle sinistre fu indebolita prima di tutto da una concezione economica assai diffusa secondo la quale <<il cambio>> e le <<imposte>> avrebbero bloccato la ripresa della produzione, mentre l’inflazione non avrebbe subito una brusca riduzione; questa concezione era ben impersonata da Corbino, <<economista di tendenze liberali>> e godeva di fortissimi sostegni in Italia ed all’estero. Ma soprattutto il progetto fallì perché << ogni forza politica temeva o sperava che eventuali cambiali sul futuro sarebbero state protestate di lì a poco nelle elezioni politiche>>e prevaleva la concezione tradizionale del nostro paese della fiscalità,  secondo la quale le tasse non sono una forza di investimento in funzione di spese che interessano tutta la collettività ma piuttosto un male necessario, sottratto furtivamente a masse recalcitranti, mentre ogni proposta di imposta straordinaria è sempre punitiva nei confronti di determinati strati sociali e prelude inevitabilmente a rotture di alleanze, alienazioni del sistema politico>>[28].

Con il trascorrere degli anni apparirà sempre più chiaro a L. che la rinuncia al cambio della moneta è stata una scelta fondamentale da parte della classe dirigente, in grado di condizionare fortemente il processo di ricostruzione economica in senso democratico del paese [29].

Nei primi mesi del 1946 L. non abbandona affatto l’intensissima attività politica. A Roma dal 4 all’8 febbraio si tiene il primo congresso del Partito d’ Azione, che determina il superamento definitivo della esperienza azionista con una vera e propria esplosione del partito dilaniato dai contrasti interni; i germi della disintegrazione si erano posti da tempo[30].

Durante il congresso il ruolo e la figura di L. emergono con forza. Già dal novembre precedente l’energico prefetto era divenuto uno dei maggiori dirigenti del partito che fa capo principalmente al Foa. Foa  Parri e L. sono i maggiori artefici del progetto della <<sforbiciata alle ali>> tesa a formare una maggioranza all’interno del partito, senza l’estrema destra di Salvatorelli e l’estrema sinistra di Lussu, più disponibile sul piano dei contenuti verso La Malfa ma, comunque, decisa ad escluderlo dal nuovo organigramma del partito. Si delinea una segreteria per F. Parri e un esecutivo di cui fanno parte oltre a L. Cannetta, Valiani , Garosci, Foa. Per realizzare 2questo progetto L. si colloca al <<centro>>; il suo, come sottolinea De Luna, <<fu un discorso da segretario del partito>> un colpo alla botte… attacca Lussu in quanto la sua formula del partito unico dei lavoratori la si capisce in Inghilterra dove la differenziazione sociale non è così larga come in Italia mentre <<l’esistenza di una mentalità antartica fa si che il nazionalismo è ancora oggi una minaccia e una minaccia seria>>. Nello stesso tempo attacca anche il leader della destra liberalsocialdemocratica U. La Malfa perché

<<egli pensa che la classe politica sia formata dal personale del governo, di personale dello stato; e questo non è vero perchè la classe dirigente è formata dagli elementi attivi e direttivi di tutti gli strati della direzione dello stato che non sono soltanto nel governo ma che sono i sindacati, i partiti, i CLN. È lì che dobbiamo trasformare la classe dirigente>>.

La situazione parziale di arretramento del movimento riformatore richiede che il partito si dia un apparato e una linea politica di difesa.

<<dobbiamo salvare le condizioni per permettere alla marcia progressiva della democrazia di riprendersi grida L., e <<il partito deve porre delle condizioni molto precise per la sua partecipazione al governo>>

 L. riafferma che il Partito d’Azione non può non essere il partito della <<riforma strutturale dello stato>> e può incalzare De Gasperi e la DC per una politica più avanzata, sulla base, ad esempio di una riforma agraria, ma soltanto ponendo condizioni precise al sostegno dato al governo.

Da un lato il Nostro condannava le trattative che avevano portato alla formazione del governo, così come erano state impostate da La Malfa <<senza discutere la liquidazione dei prefetti politici>> dall’altro l’impostazione classista  di Lussu che avrebbe alienato le simpatie dei ceti medi al Partito d’Azione[31]. Scendendo dalla scaletta del microfono al termine del discorso, L. mormora a Cadignola: <<la segreteria del partito è nelle mie mani>>. Tuttavia, il congresso si conclude con un vero e proprio colpo di scena: il ritiro di Parri e La Malfa, preludio alla secessione è alla fondazione del Movimento Democratico Repubblicano, con il quale portano via l’intera ala <<liberale>> del partito condannano, privandola del loro appoggio la mozione di L. alla sconfitta: la sinistra di Cadignola e Lussu ottiene 120.000 voti contro i 70.000 di L. . Quella di Lussu è una vittoria di Pirro: <<i vincitori del congresso erano consapevoli>> secondo De Luna <<del duro prezzo pagato per la loro vittoria, tanto da sentirsi psicologicamente vinti>>. Il Partito d’Azione era diventato scriveva Cannetta, un partito con una minoranza di centro senza che vi siano le destre e una direzione di sinistra la politica del centro>> un partito senza futuro. Il 24 giugno L. avrebbe assunto la segreteria del partito, diventandone, come fu osservato, l’<<osservatore testamentario>>.

Subito dopo il congresso il dibattito politico si incentra sul problema della costituente. Molti anni dopo L. ricorderà che il fatto che la costituente <<ebbe solo poteri non legislativi ma appunto costituenti, cioè dava la costituzione rimandando le riforme a dopo fatta la scelta costituzionale, lasciò per 22 mesi a raffreddarsi la lava incandescente del movimento di liberazione nel vigore e nel calore del quale ben altre cose sarebbero state possibile, dove la costituente avesse avuto il potere di legiferare>>[32].

Il Partito d’Azione imposta la sua campagna elettorale  per il 2 giugno proprio sulla necessità di <<ricostruire la normale dialettica parlamentare nella costituente>>.

Nel maggio-giugno 1946 L. dirigerà il <<Giornale di Mezzogiorno>> impegnandosi a fondo per la repubblica e le riforme. Dalle colonne del quotidiano chiederà che il nuovo governo abbia una politica: fuori dalla paralizzante e mortifera forma dell’unanimità>> e sostiene la formazione di un governo delle sinistre, un governo democratico che affronti le questioni più urgenti e introduca riformi, impossibili ad attuarsi nel quadro di una collaborazione con le forze moderate[33].

Nell’editoriale del 31 maggio intitolato <<Responsabilità>>, criticava le <<mistica della costituente>> e osservava che <<la legge che indice la costituzione è stata lasciata deliberatamente vaga nei limiti e incerta nei poteri>>. L’assemblea doveva essere <<lenta e veloce insieme>> ossia lenta e ponderata nel fare la nuova costituzione e veloce nell’affrontare i problemi del paese. Soprattutto a sinistra alle coraggiose proposte di L. si rispose negativamente: sull’UNITA’  commentando gli esiti congressuali Togliatti con tono professorale aveva scritto che <<la politica è una cosa seria e non bisogna lasciarla fare alle <<creature>> come a Napoli chiamano i ragazzi>>. In realtà la linea generale della politica del PCI e del PSIUP era ancora  saldamente ancorata alla formula tripartitica.

Le elezioni del 2 giugno ’46 ratificarono sul piano elettorale la catastrofe azionista: sette deputati eletti, tra cui Foa e L. , cui bisogna aggiungere Lussu e Mastino per il partito Sardo d’Azione,  un risultato che <<rafforzava le tendenze centrifughe e gli scoraggiamenti tendenze alle quali la dirigenza del partito rispondeva con una radicalizzazione delle posizioni politiche[34].

Gli azionisti, sottolineando il carattere <<compromissorio>> della formula politica del secondo governo De Gasperi, si astenevano sul voto di fiducia[35]perché convinti della impossibilità di risolvere i problemi più scottanti dell’economia e della ricostruzione sulla base di un mero accordo di vertice, tra forze politiche eterogenee dai disegni politici nettamente contrastanti.

Del resto la vittoria elettorale democristiana, sostenuto dall’intervento massiccio della chiesa e dalle inframmettenze degli alleati, in un clima di acceso anticomunismo (Churchill aveva pronunziato il discorso sulla <<cortina di ferro>> a Fulton il 5 marzo) rendeva meno incisiva la presenza al governo delle sinistre già egemonizzate dal PCI e indebolite dalla paralisi del PSIUP.

Insomma il secondo governo De Gasperi appariva al segretario nazionista come l’ennesimo  tassello del capolavoro moderato democristiano. Tuttavia al di là di una proposta generica per una repubblica presidenziale che limitasse le prevaricazioni dei grandi partiti sulla volontà del parlamento, delle critiche all’<<opposizione indiretta>> del PCI, della polemica con Togliatti e De Nicola non si elaborava un progetto alternativo chiaro alla formula del <<tripartito>> e si imitava La Malfa, che si proponeva di <<ridurre dall’esterno, le tendenze  contrarie e dispersive presenti nel governo>>. La critica feroce al progetto di amnistia di Togliatti inizia nelle ultime sedute di governo, dal 18 al 24 giugno quando L. Cianca e Bracci (gli altri due azionisti al governo) chiedono invano di eliminare espressioni come <<elevata responsabilità>> e <<sevizie particolarmente efferate>> . Termini poi utilizzati dalla magistratura per amnistiare molti criminali fascisti. Foa ricorderà che l’amnistia sembrò a molti antifascisti <<non un segnale di forza, di sicurezza del sistema politico, ma un compromesso discutibile con un passato ancora minaccioso>>[36]. Ancora una volta la polemica contro la scandalosa applicazione della legge Togliatti rivela che di fronte agli elementi di continuità tra il regime fascista e quello democratico-repubblicano non tutti, e L. fra questi, rimasero in silenzio.

L. interviene per la prima volta alla costituente il 19 luglio con un discorso critico nei confronti del programma di governo ma <<tutto tenerezza per le sinistre>> come sottolinea ironicamente Nenni[37]. Pur augurandosi che il governon no fallisca, afferma che il problema centrale è quello della disoccupazione e della lotta all’inflazione. Tuttavia coerente con le scelte rigorose di matrice keynesiana che caratterizzano in questo momento il suo pensiero economico condanna aspramente l’erogazione di un <<premio della Repubblica>> a tutti i lavoratori dipendenti. Analogamente si era opposto al premio della liberazione del maggio ’45. Ritiene  preferibile un prelievo fiscale <<una vera e propria imposta sulla occupazione della manodopera>> di uguale importo che lo Stato avrebbe potuto reinvestire in opere pubbliche o in <<servizi sociali organizzati>>[38].

Analoghe posizioni e prospettive L. aveva espresso in un articolo su <<Italia libera>> il 5 luglio in cui invitava a fare <<una politica finanziaria  che incoraggi i capitali imboscati a rifluire nel ciclo produttivo>>. Per far questo sappiamo di dover ingoiare molti rospi; ingoiamoli cioè limitiamo alla misura tecnicamente possibile le imposte straordinarie e personali (…).

Si tratta per L. di fare ciò che Lenin fece con la NEP per salvare la rivoluzione. LO Stato ha in mano l’IRI… aggiunge che deve finalmente decdersi a fare una sua politica economica e divenire lo strumento dello Stato per la pianificazione del settore industriale e creditizio. L’intervento dello Stato non può non riguardare il settore dei lavori pubblici: come Keynes insegna, occorre creare un <<esercizio volontario del lavoro>> per le attività edilizie ma contemporaneamente si può rinunciare al blocco dei fitti e al blocco dei licenziamenti. Questa è la ricetta per la ripresa[39].

Le esigenze della ricostruzione richiedono quindi per il segretario azionista una soluzione di tipo keynesiana, ma in questo momento a capo di un troncone socialisteggiante sopravvissuto alla scissione azionista, riconosce la esigenza di una certa pianificazione conseguibile attraverso le attività che già fanno capo allo Stato.

Avrebbe avuto modo di ribadire le proprie posizioni in occasione della cosiddetta <<Crisi Corbino>> iniziata quando il Ministro del Tesoro il 2 settembre si dimette con un conseguente rimpasto del governo. Il ministro liberale era stato nei mesi precedenti il principale obiettivo della protesta popolare a causa della sua politica liberista e a causa dell’inflazione che era bruscamente salita al 35%[40].

Nel discorso del 18 settembre alla costituente L. criticò la politica del ministro dimissionario, fondata  sul debito fluttuante che aveva finito col creare una dura concorrenza <<tra tesoro e industria per l’uso del risparmio>>. In sostanza la ricostruzione stava avvenendo a spese della povera gente, L. intuisce  che le speranze della destra economica si fondono su di un prestito estero che consenta di trovare i mezzi necessari ad aumentare la spesa pubblica. In realtà occorre affrontare la impellenti necessità dell’erario e dare spazio con decisione al riformismo, tornando alle proposte delle sinistre, ovvero al cambio della moneta e dell’imposta sul patrimonio. La proposta deve avere un carattere <<fiscale>> più che <<statistico>>; il cambio va abbinato a un grande prestito a ridottissimo tasso di interesse, in modo da offrire ai detentori di carta moneta l’opzione fra il prestito dello Stato a queste condizioni e la decurtazione. La proposta Lombardiana ha una valenza politica ben precisa: <<non dobbiamo rassicurare solamente i ricchi>> aggiunge <<dobbiamo rassicurare anche i poveri. Non c’è edificio politico che regga senza una vasta base di consenso popolare …sacrifici si ma per tutti>>[41].

Frattanto i socialisti offrono a L. come <<tecnico>>il dicastero lasciato da Corbino. L. subordina l’accettazione ad almeno tre condizioni specifiche: unificazione del ministero delle finanze e del tesoro per potere centralizzare la gestione dei mezzi fiscali; l’istituzione di un <<comitato di piano (che includa i ministri del tesoro dell’industria e della agricoltura) >>;  <<un adeguamento salariale>>. La richiesta di L. ha chiara valenza politica e punta, come chiarirà in seguito, a porre fine <<alla dittatura economica attribuita al ministero del tesoro>> e a superare la paralisi della direzione economica del governo dovuta in gran parte alla spartizione dei ministeri economici tra i vari partiti della coalizione, spartizione che corrisponde ad una logica di <<sfere d’influenza>>. L. rifiuta la <<proposta>> dopo che il governo attraverso Rodolfo Moranti, si è limitato ad impegnarsi per <<un’applicazione dilazionata delle sue indicazioni e questo rifiuto si traduce sul piano politico parlamentare nel voto contrario, espresso da Alberto Cianca il 26 settembre del Partito d’Azione al rimpasto governativo. Più in là L. avrebbe giustificato questa presa di posizione anche con la necessità di non esporre al <<trasformismo>> il suo partito; <<e trasformismo, nell’etica P. d’A. significava il peccato che non si può perdonare>>[42].

Nell’autunno del ’46 troverà ancora l’occasione per rivendicare a un certo riformismo estraneo a un impostazione radicalmarxista e nello stesso tempo all’opzione liberista pura nel processo di ricostruzione, un certo spazio, attraverso una lettera aperta alla CGL, allora sindacato unitario in cui il Partito d’Azione  ha il 3-4 % dei voti[43]. Nella lettera L. denuncia i pericoli del tripartismo e la necessità  di un impegno forte del sindacato, al di fuori delle logiche di partito per la risoluzione del problema centrale che è quello della disoccupazione: per questo critica certe rigidità sindacali come il voler mantenere ad ogni costo il blocco dei licenziamenti nelle industrie depresse <<blocco che si traduce in un aumento del rendimento del lavoro, in un aumento del costo di produzione e inevitabilmente conduce ad un aumento del rendimento del lavoro, in un aumento della disoccupazione nello stesso settore considerato, in quanto provoca necessariamente il fallimento o, ciò che fa lo stesso, l’accollamento del passivo allo Stato, e in tutti gli altri settori delle produzioni perché aumenta i prezzi dei materiali forniti a tutte le altre industrie e attività>>. Le masse povere e disoccupate del Mezzogiorno sarebbero chiamate a pagare con un aumento nel prezzo dei generi alimentari la protezione assicurata a una ristretta cerca di operai (<<povero privilegio ma sempre privilegio>>).

L. critica anche la politica annonaria e degli alloggi: il calmiere dei prezzi, per essere efficaci doveva essere inquadrato in <<ben altro sistema di provvedimenti economici, ad esempio la riduzione dell’eccessivo potere di acquisto che provoca il rialzo dei prezzi, mediante imposte. Il blocco degli affitti indiscriminato riduce la mano d’opera nell’edilizia:

<<oggi la realtà impone non già soltanto un’azione, ma una vera e propria politica sindacale e fa della confederazione, se essa si rende conto dei suoi compiti storici, il massimo organismo politico del paese…>>.

Il problema essenziale è quello del controllo pubblico delle aziende economiche realizzate non attraverso  i consigli di gestione, organismi compromissori o di collaborazione di classe, ma sotto l’<<iniziativa>> e <<il patrocinio>> del sindacato stesso. Il controllo pubblico consentirà ai lavoratori di impedire la dilapidazione del profitto, per garantirsi che esso sia <<profitto risparmio>> indirizzato nella situazione attuale ad arginare la disoccupazione e non ad aumentare i consumi di lusso dei ceti abbienti, queste proposte si inquadrano nel tentativo di realizzare l’idea di un controllo sociale degli investimenti, proprio perché L. avvertiva che la ricostruzione postbellica stava avvenendo secondo i meccanismi soliti, orientati al massimo profitto dei privati. Nella fase di immobilismo politico, c’è la consapevolezza che le proposte possano essere attuate soltanto grazie al sostegno delle masse, e quindi del sindacato. Per questo di fronte alla sterilità della politica dei partiti L. rivendica al sindacato un <<ruolo politico>> su scala nazionale che dia un peso alla proposta di un partitino ormai inesistente. In questa fase si affaccia anche l’idea di una programmazione economica attuabile prima che con l’incremento della spesa pubblica, attraverso il controllo degli investimenti privati.

Frattanto si rafforzavano all’interno del P. d’A. le tendenze fusioniste, tutte rivolte al PSIUP, soprattutto dopo l’8 settembre, quando Parri e La Malfa decisero di entrare nel PRI. Il CC nel mese di settembre auspicava una politica unitaria delle forze di sinistra, <<indispensabile>> per l’azione di <<emergenza>> e di <<ricostruzione>>.

L. commentando i risultati del CC scriveva su <<Italia Libera>>  che <<postulato>> politico del partito rimaneva la << formazione di quel grande partito di sinistra scevro dalla tabe parlamentistica, riformistica e trasformistica, libero da arcaiche pregiudiziali dottrinarie>>. La prospettiva di un socialismo moderno e democratico non allettava certo il PSIUP, che il 25 ottobre aveva ratificato il patto di unità d’azione col PCI e che ormai nell’imminenza del congresso, era dilaniato da contrasti interni. Tuttavia L. riconoscendo valide entrambe le tesi che si sarebbero confrontate durante il Congresso, quella saragattiana di evitare lo scivolamento verso destra dei ceti medi e quella nenniana di evitare l’isolamento della classe operaia, auspica verso la fine dell’anno, che queste due <<tendenze>> possano chiarirsi e sommarsi, trovando una unità sul problema del governo[44].

Gli azionisti tentano di fare tutto ciò che è possibile per evitare la scissione saragattiana che si consuma a Palazzo Barberini e il 9 gennaio considerandola <<una catastrofe per tutto lo schieramento democratico>>[45]. I tentativi di Lussu e di L. di sanare la contrapposizione tra le due anime  del socialismo italiano si spiegano con l’intento di creare un nuovo spazio politico per l’eresia socialisteggiante dell’azionismo residuo.

L. punta alla costruzione di un nuovo partito socialista riformatore che si ponga alla guida del governo sia in alternativa alle forze moderate sia al PCI[46].Ma come ha osservato Tartaglia >>tutto il discorso azionista si ridusse in breve tempo ad una proclamata opera di unificazione del socialismo italiano senza che questo discorso fosse accompagnato da un progetto politico con possibilità di successo>>. All’indomani della scissione L. manifesta, intervistato dal <<Giornale d’ Italia>> preoccupazioni per l’anticomunismo <<inconcludente quanto virulenti>>del nuovo partito <<la cui persistenza liquiderebbe come partito legato alle masse lavoratrici>>. Ma in particolare la riedizione degasperiana del tripartito, dopo il rientro del Presidente del Consiglio dal suo viaggio negli USA, spinge gli azionisti ad una apertura di credito verso il PSI nel momento in cui tutti e due i partiti vanno all’opposizione.

Il documento approvato il 27 gennaio dal CC invita il partito di Saragat <<a mettersi con il Partito d’Azione medesimo alla testa della dura ma necessaria lotta volta a dare alla Repubblica e all’Europa un forte partito socialista per la costruzione della democrazia>>. Silvio Negro scrive al proposito sul Corriere della Sera del 29 gennaio:

<<Questa notte gli uomini del Partito d’ Azione hanno deciso in sostanza di sopprimere la loro ditta sociale per entrare, non si sa se in corpo o alla spicciolata nel partito dei socialisti autonomisti>>.[47]

In realtà le cose non erano così semplici: in seno al partito si erano manifestate due tendenze contrapposte, una favorevole alla fusione col PSLI, rappresentata da Valiani e Codignola e l’altra da L. e Foa, assai guardinga verso il nuovo partito e più attenta alla evoluzione del PSI. Ecco perché L. sente il bisogno di ridimensionare l’esito del CC in una <<lettera ai compagni (30 gennaio 1947)>> invita il PSLI <<a chiarire la propria politica in vista di un eventuale accordo>> accordo condizionato da quello che il PSLI farà per caratterizzarsi o per convincersi che insieme ad esso si potrà creare un forte e moderno partito di socialismo democratico animato da autentico spirito rivoluzionario e non dei classici partiti moderati anche se truccati da fraseologie estremiste>>. L. insisteva sulle potenzialità future del partito:

<<si è puntato>> scriveva >>verso una formazione designata come quella più capace di divenire, anche a nostro mezzo, quello che attualmente non sono né l’uno né l’altro tronco del partito socialista (…) un partito, cioè, moderno, democratico, autonomo, che si batta per una rivoluzione democratica da operare nella struttura dello stato e nella classe politica dirigente>>.

Nell’uno o nell’altro caso l’apporto della componente ex azionista sarebbe stato indispensabile[48].

Le trattative avviate con Saragat a partire da gennaio furono però un fallimento completo: l’impostazione politica e programmatica del Partito d’ Azione non fu nemmeno presa in considerazione. Iniziava il processo di avvicinamento della socialdemocrazia alla DC e alle altre forze moderate in crescendo di tensioni all’interno e sul piano internazionale. Al II° congresso del partito che si tenne al Teatro Valle di Roma dal 31 marzo al 2 aprile 1947 L., nel suo intervento, risponde negativamente alla domanda se il PSLI è il Partito Socialista: per la prima volta si orienta con decisione verso il PSI, la cui capacità di autonomia è stata provata <<dal recentissimo voto sull’articolo 7>> mentre afferma che molte forze socialiste autonome restano fuori dal PSLI, il quale ancora <<non rappresenta tutta l’area socialista>>.

L’ordine del giorno finale del congresso ribadisce il principio del dialogo con tutte le forze interessate ad un progetto di <<unificazione socialista>> e definisce i punti programmatici su cui trattare con tutti (autonomia rispetto al PCI; <<unità d’azione>> con i comunisti, solo in presenza di nuovi rapporti di forza favorevoli ai socialisti; rifiuto della diarchia DC-PC e progetto di <<un governo di sinistra a direzione socialista >>[49].Tutti i principali esponenti del partito votano la mozione congressuale ma l’equidistanza tra PSLI e PSI (sono presenti al congresso sia Saragat sia Lelio Basso) e soltanto formale: nel successivo CC del 29 giugno L. si dimette da segretario sostituito da Cianca. Contribuisce alla decisione la constatazione che <<finire in un partito completamente parlamentarizzato, e privo di radici autentiche nel movimento operale voleva dire da un lato la negazione di tutto il patrimonio politico azionista, dall’altro la reviviscenza di un modello di <<partito di elitès >> la cui esperienza era stata drammaticamente e sfortunatamente vissuta proprio dal Partito d’Azione>>[50]. Frattanto si conclude il processo di logoramento della alleanza tra le maggiori forze politiche in concomitanza con l’esplodere delle tensioni internazionali.

Alla costituente L. continua a sostenere la sua battaglia per le riforme: l’11 febbraio criticando l’esito della crisi del secondo governo De Gasperi afferma che <<nessuna discussione programmatica si è affrontata>> e delinea quelli che sono gli spazi di intervento del governo, perché dimostri di <<essere effettivamente un governo di sinistra o almeno di centro sinistra, a questo proposito difende l’IRI che <<nato male, nel corso della sua vita è diventato una bella donna, uno strumento utile>> per guidare uno sforzo di razionalizzazione e di riconversione delle industrie che necessariamente richiederebbe un intervento dello Stato in alcuni settori. Dopo aver invocato per l’ennesima volta che si proceda al cambio della moneta propone la nazionalizzazione dell’industria elettrica. Da quel momento in poi, questa proposta sarà un <<chiodo fisso>> di L. [51]. Grazie alla determinazione, oltre che di L., anche di La Malfa e Giolitti , il 2 gennaio veniva promulgato un decreto che costituiva l’ente per la elettrificazione in Sicilia (ESE) attraverso il quale, in una regione arretrata, si sperimentava il modello rooselvettiano della Tennessee Valley Authority . Sotto la presidenza di R. L. l’ente cercò di spezzare il monopolio privato della SGES (Società Generale Elettrica), essendo concessionario de iure di tutte le acque pubbliche, realizzò otto centrali e sei grandi dighe e ottenne un abbassamento dei prezzi sul mercato dell’energia della regione.

Dopo la svolta moderata del ’47 e grazie all’impegno del governo regionale Restivo la SGES riuscirà a riconquistare le posizioni perdute, interrompendo il dinamismo del nuovo ente ma qualcosa di quel tentativo riformista  e anticipatore rimase : un progetto per la trasformazione irrigua della piana di Catania, che negli anni a venire avrebbe favorito in senso positivo l’evoluzione del paesaggio agrario [52].

Nello stesso tempo L.  inizia una dura polemica con il PCI, in particolare dopo il voto sull’art. 7 della Costituzione. <<La politica del PCI>> scrive in quei giorni, <<è impegnata a coprirsi verso destra, essa non si preoccupa perché non teme di scoprirsi a sinistra>>. Compito storico delle sinistre è di costruire una società diversa ed alternativa. <<Il PCI è democratico, onesto, c’è da fidarsi di esso, solo che non si può delegarvi per comodità  o fiacchezza, le finalità che invece sono specifiche delle sinistre>>[53]. Da quel momento l. inizierà un lavoro, volto a promuovere attraverso la <<piccola intesa>> dei partiti democratici ( P. d’A, PSDI, PRI) un governo alternativo, che includa anche PCI e PSI ma garantisca nell’ambito della sinistra una chiara egemonia delle forze socialiste e democratiche. Di qui l’asprezza della polemica con il governo tripartito, accusato di oscillare <<senza  bussola tra due politiche diverse, sterilizzandole entrambi>>[54]. Di  qui anche la richiesta a Nitti, presidente incaricato dopo le dimissioni di De Gasperi, di una politica economica riformatrice, garantita dalla presenza di uomini della <<piccola intesa alla guida dei ministeri economici. Il tentativo di Nitti fu affossato da Saragat, ma Nitti comprendeva bene che dietro le sue resistenze vi erano  quelle della DC. Il governo di unione nazionale patrocinato da Nitti (che avrebbe dovuto includere anche PCI e PLI) era ormai impossibile a realizzarsi: si apriva la strada all’egemonia moderata nella vita politica italiana. L., però attacca Nitti alla Costituente il 20 giugno perché comprende che il suo tentativo avrebbe salvato la forma ma non la sostanza:

<<Quando noi domandavamo a Nitti precisazioni sulla politica economica finanziaria Nitti taceva sorridendo, e questo ci mise in grave sospetto…>>

Insomma, L. ritiene che soltanto una scelta programmatica ben precisa a favore delle riforme avrebbe rappresentato un’alternativa chiara del tripartito. Nel suo discorso ritorna sull’importanza dell’IRI, che si stava rivelando sempre più come <<l’unico strumento per la politica sociale che abbia il governo>>[55].

In realtà l’affossamento del tentativo di Nitti non porterà, come riteneva L. in quei giorni ad una riedizione del tripartito ma ad una svolta moderata di lungo periodo senza più l’avallo di Togliatti e di Nenni.

Nel settembre questo esito della crisi sarà più chiaro e le sinistre  inizieranno un processo di ricomposizione tra loro. A metà mese PCI, PSI, e P d’A aderiranno ad una comune mozione di sfiducia contro il <<cancelliere>> De Gasperi e il suo governo di centro destra. L’opposizione di sinistra, scrive L. il 13 settembre, deve darsi un piano di lotta, beninteso nel quadro degli istituti democratici non vanamente e stoltamente agitatorio e irresponsabile, in sostanza un programma di governo da attuare il giorno in cui ottenesse la maggioranza[56]. Da quel momento L. si oppone alla logica dei blocchi militari, una logica d’oppressione che finisce con l’appiattire la vita politica interna, mero riflesso della situazione internazionale.

Sull’Italia socialista rifiuta questa logica e invita a non percorrere le vie greca o polacca

<<non è lecito escludere il partito numeroso e dotato di notevole presa sull’elettorato dal terreno democratico… tanto varrebbe ricacciarlo nella illegalità>>[57].

Nello stesso tempo ribadisce la propria contrarietà alla egemonia del PCI su tutta la sinistra e propone un accordo tra tutte le forze all’opposizione del quarto ministero De Gasperi. Non è possibile la dialettica democratica cristallizzando la divisione del paese in due fronti perché

<<Lo Stato non si conquista ne coi sistemi di violenza ne coi sistemi dei blocchi; lo Stato si amministra e si organizza e sul modo di organizzarlo e di amministrarlo che vertono le divergenze legittime in questa assemblea e sono lecite le discussioni>>[58].

La posizione Lombardiana e il suo progetto di una terza forza laica e socialista con la <<piccola intesa>> era destinata al fallimento. La logica dei blocchi manderà le due principali forze della sinistra all’opposizione a tempo indeterminato mentre PSLI e PRI entreranno nell’area di governo L. ne prendeva atto e il 20 ottobre decideva di confluire nel PSI dopo aver posto fine all’esistenza giuridica del P d’A. Nella <<dichiarazione di confluenza>> Lombardi sottolineava che <<esistono due partiti e due politici PCI e PSI, che possono o no coincidere e infatti non coincidono come nel caso del cominform>>. Ribadendo i valori dell’autonomia L.  continuerà la lotta nel partito di Nenni per un socialismo autonomo che nel solco dell’azionismo realizzasse il suo sogno, quello di una nuova democrazia[59].



[1] Cfr. V. FOA: <<IL Cavallo e la torre>>, Torino, 1991, pp.149-150

[2] Cfr. C. ZIVIANI PANCIAMORE: <<Il CNL della L. a >>, in La resistenza in L. a a cura di Loris Rizzi, Firenze, 1981.

[3] R. L. , I problemi del potere nella Milano liberata in La Resistenza in L. a, Milano, 1965, passim

[4] Cfr. GINSBORG, op. cit. pag. 89.

[5] Cfr. TORTORETO,Le condizioni economiche di Milano nel 1945 e la politica del CLNAL in<< Rivista storica del socialismo>>, luglio- settembre 1958.

[6] Cfr. L intervista, cit. ac Stajano.

[7] Cfr. M. BACCALIN PUNZO,Il CNLdella città di Milano e sobborghi in la Resistenza in Lombardiana. cit.

[8] BANFI, op. cit., pag. 365.

[9] Cfr. TORTORETO, op. cit., pag. 23-24.

[10] Cfr. GINSBORG, op. cit., pag. 118.

[11] Ivi, pag. 116.

[12] Cit. in TORTORERO, op. cit. pag. 26.

[13] Cfr. LEPRE, op. cit., pag. 64-70; DE LUNA, op. cit., pag. 340-345.

[14] Cfr. F. BARBAGALLO, <<Classe Nazione e Democrazia: la sinistra in Italia  dal 1944 al 1956>>, in Studi storici, n° 2/3, 1992. Alla fine di agosto il segretario di Stato James Byrnes comunica a Parri che il governo degli USA desidera che in Italia si tengano le elezioni amministrative.

[15] Cfr. V. FOA: <<Il cavallo e la torre>>, cit. , pp. 186-187.

[16] Confr. Scritti politici di R.L. a cura di S. COLARIZI, Venezia, 1978, pag. 8-13.

[17] Cfr. BARBGALLO, <<La formazione dell’Italia democratica>> in  Storia dell’Italia repubblicana: la costruzione della democrazia, Torino, 1994, pag. 65.

[18] Cfr. DE LUNA, op. cit., pag. 345.

[19] Cfr. G. TARTAGLIA: I congressi del partito d’azione, Roma, 1984, pag. 342.

[20] Cfr. M. BACCALINI PUNZO, op. cit. , pag. 128. Nel settembre ’45, va ricordato L.  era entrato nella consulta nazionale, prendendo parte ai lavori ma senza intervenire nei dibattiti.

[21] Cfr. COLARIZI: L. , op. cit., pag. 340.

[22] Cfr. BANFI , disc. cit, pag. 365.

[23] Cfr. il suo discorso sul bilancio del ministero dei trasporti del 18 aprile 1956 che si trova in atti della C. d. D. Il legislatura, pag. 25229 e seg., in cui L. ricordò che in quei mesi << delegazioni delle diverse regioni venivano a patrocinare cose assurde meschine e stravaganti. Per noi allora era più facile resistere di quanto non sia stato in seguito. C’era di fronte a noi la necessità impellente di ricostruire  prima di tutto le grandi longitudinali e le grandi trasversali: e ciò bastò a tenere indietro i postulanti…>>.

[24] Cfr. GINSBORG:Storia d’Italia,op. cit., pag. 123-125.

[25] A. GAMBINO:Storia del dopoguerra, dalla liberazione al potere Dc,Bari, 1975, pag.118-119.In queste dichiarazioni L. rileva anche <<lo scarso peso politico dimostrato in questa circostanza dal P. d’. A.

[26] Cfr. GINSBORG:Storia d’ Italia, op. cit. , pag. 123-125.

[27] Cfr. AURELI, disc. cit., pag.340.

[28] MARIUCCIA SALVATI:<<Amministrazione pubblica e partiti>>in Storia dell’Italia Repubblicana, cit., pp. 456-457.Anche gli azionisti dunque come i comunisti non difesero il progetto per questo motivo.

[29] Tredici anni dopo nella relazione introduttiva di un convegno dell’ industria pubblica L. affermava: <<in quel momento la classe dirigente italiana rinunciò a servirsi in modo coerente sia della politica globalista sia della politica intervezionista diretta (…) e fece trovare la struttura italiana di fronte ad una situazione che forse in forma non eccessivamente paradossale, definirsi di alternativa tra un capitalismo povero di capitali e un dirigismo povero di poteri. Se c’era un paese nel quale proprio la insufficienza e la povertà dei capitali esigeva una politica dirigista provvista di reali poteri questo era l’Italia, appunto per la carenza di capitale.

[30] Cfr. Sulla cronaca dettagliata di questo congresso DE LUNA, op. cit., pag. 347-359.

[31] Cfr. interv. Di R. L. al I° congresso del P. d. A. in TARTAGLIA , op. cit., pag. 29-30.

[32] Cfr. R. L. : riforme erivoluzione dopo la seconda guerra mondiale in Quazza: <<Riforme e Rivoluzione nella storia contemporanea, Torino, 1977, pag. 312.

[33] Cfr. TORTORETO: op. cit., pag. 29-30.

[34] Cfr. DE LUNA, op. cit., pag. 354. Il successivo Consiglio Nazionale evidenziava la ripresa  delle correnti autonomistiche all’interno del partito ed eleggeva alla unanimità R. L. segretario quasi a testimoniare una ritrovata continuità con tutta la vicenda precongressuale.

[35] TARTAGLIA, op. cit., pag. 400.

[36] Cfr. FOA: Il cavallo…op. cit., pag. 56.

[37] Cfr P. NENNI: Diari 1943-1956, Milano, 1981, pag. 246.

[38] Cfr. MAFAI, op. cit. pag. 28.

[39] Ivi pag. 35.

[40] Cfr. LEPRE, op. cit. , pag. 76.

[41] R. L. , <<Rassicurare i poveri>>, in atti della costituente, pag. 489 –00.

[42] Cfr. TORTORETO: La politica, cit. , pag. 35.

[43] Cfr. R. L. ,Lettera aperta alla CGL in <<Italia Libera>>. 25 ottobre 1946.

[44] <<I socialisti, scrive L. su Italia Liberia, il 20 dicembre>>, devono porsi il problema della effettiva direzione del governo e avere il coraggio di porsela non in termini di palingenesi sociale ma di reale, sana e ordinaria amministrazione diretta a salvare il paese dal marasma e dalla dissoluzione>>.

[45] DE LUNA, op. cit., pag. 359.

[46] Sull’Italia Libera il 9 gennaio 1947 propone ai socialisti l’ipotesi di porsi come partito di governo su un programma chiaramente riformatore.

[47] Cit. in TORTORETO, pag. 37.

[48] Cit. in TORTORETO,pag.37.

[49] Cfr. per il discorso di L., TARTAGLIA, op. cit., pp. 442-457.

[50] Cfr., DE LUNA, op. cit., pag. 364. Infatti la scissione si era rivelata un mero fatto parlamentare dal momento che 52 su 115 parlamentari alla costituente avevano lasciato il PSI, mentre al  congresso della CGl la corrente socialdemocratica aveva ottenuto 38 mila voti rispetto ai 2 milioni del PCI e al milione del PSI.

[51] AURELI, cit. pp. 336-338; SALVATI, cit., pag.449.

[52] G. BARONI: Stato e Mezzogiorno(1943-60) in Storia dell’Italia Repubblicana, Torino, 1994, pp. 404-405.

[53] Cfr. R. L. <<dopo il voto sul concordato>> in <<L’Italia Libera>>, 28 marzo 1947.

[54] Governo d’unione sacra? In <<L’Italia Libera>>, 8 maggio 1947.

[55] Cfr. disc.  di L. alla costituente del 20 giugno 1947.

[56] R. L. <<Opposizione e governo>> sull’Italia Socialista.

[57] Cfr. <<Ne vie greche ne vie polacche>> in L’Italia socialista, 25 settembre 1947. In Polonia e in Grecia la <<logica>> dei blocchi era prevalsa e aveva portato alla fine della democrazia.

[58] Cfr. Intervista pubblicata dall’Italia socialista dell’11 ottobre ’47.

[59] Per il documento finale firmato da L. , cfr. TORTORETO, op. cit. pag. 49.

 

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