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PER LA SINISTRA
AL GOVERNO
PROGRAMMA CHIARO
LUCIANO LAMA
Raccogliendo l'invito a discutere piú dei propri difetti ne di quelli altrui, vorrei cercare di farlo essenzialmente dal punto di vista di una forza sociale della sinistra, il sindacato, anche perché penso che per quanto riguarda le forze politiche della sinistra in cui io pure milito. altre voci più autorevoli della mia ci saranno. Parlo dunque come forza sociale che sta nella sinistra e che vuole contribuire alla sua unità e all'efficacia della sua azione politica.
Si è detto questa mattina, nelle relazioni e in qualche intervento, che dobbiamo distruggere anche miti e tabù che albergano nelle nostre case. lo credo che ci siano davvero dei ami e dei tabù da distruggere, anche nella casa del sindacato. Uno di questi. se è un mito. quando diventa un mito, è quello a cui si riferiva Querci. La concezione, cioè, dì una classe operaia che come era allora non è più oggi. che ha una specie di virtù salvifica in se, che per una ragione storica si può realizzare soltanto come classe generale, che per il fatto di essere, assolve ad una funzione progressista e di cambiamento della società Questo io considera, il miro della funzione della classe operaia come classe generale Ma se questo mito è mai esistilo in questi termini, e lo è, era sbagliato anche quando è nato, non solo oggi quando noi dobbiamo misurare 1, frammentazioni, le divisioni che esistono all'interno della società e anche del mondo del lavoro e della classe operaia.
Guardiamoci un po' attorno: paesi con classe operaia forte, combatti. va, unii, ce ne sono stati anche alto, diversi dall'Italia. però non sempre, la classe operaia nel corso della sua storia, anche la, ha assolto ad una funzione progressista, non e vero. (:i sono stati tempi. periodi nei quali essa è diventata forza conservatrice. Sc volessimo fare la storia del movimento operaio e sindacale italiano, probabilmente ritroveremmo anche in Italia, a guardar le cose ad occhi aperti, senza ,liti e tabù, esempi del genere. Questo significa che la funzione non e salvifica per definizione, per compito storico che ci è stato sovrapposto come un fallo imminente su di noi, ma come il risultato di una scelta: può essere appunto soltanto il risultato di una scelta, e può essere quello o anche un altro. Nessuno in sostanza ci ha liberato dal peccato originale, neanche l'essere nati operai, figli di operai, vissuti da operai nelle fabbriche, magari alle catene di montaggio.
E' però fatale - questa è la domanda sulla quale richiamava la nostra attenzione Mattina - che liberatici del mito e, nello stesso tempo, essendo in presenza di una situazione di diversificazioni, di differenze crescenti che sono il prodotto di una società che non è più quella di 50-100 anni fa; è possibile che noi perdiamo la nozione dell'unità nell'impegno per cambiare questa società'? È possibile che noi dobbiamo rinunciare - perché sarebbe un compito al di sopra della forza di qualsiasi organizzazione di uomini (per quanto bene indirizzata e orientata) - alla riunificazione di tutte le forze del lavoro?
È stata questa la parola d'ordine dell'ultimo congresso della Cgil. Non ci siamo certamente riusciti, ma l'intuizione di questa esigenza non nasce oggi e non è che sia sbagliata per il semplice fatto che sono tre, quattro, cinque anni che ci lavoriamo e non siamo riusciti a realizzare questo obiettivo. Si tratta di sapere se lungo la strada abbiamo commesso degli errori - e sicuramente li abbiamo commessi - che tradivano l'essenziale di questa indicazione; si tratta di sapere se questo è un lavoro di lunga lena, che richiede pervicacia, testardaggine, fermezza, capacità di continuare, di non piegarsi di fronte alle prime difficoltà, ai primi ostacoli e anche ai primi insuccessi.
Non possiamo dimissionare da questa idea, né possiamo rinchiuderci in una concezione corporativa dei lavoratori come di una grande corporazione. Questa è un'altra questione che abbiamo sul tappeto. In altri paesi il problema si è risolto e si risolve così; i lavoratori organizzati non hanno neanche l'ambizione di realizzare cambiamenti profondi nella società di cui sono parte; riescono invece, e spesso anche con efficacia, uniti, a difendere bene i loro specifici interessi, senza sforzarsi di collocare se stessi come forza sociale e come forza di cambiamento, con un programma capace non solo di difendere bene loro come parte della società, ma anche di affrontare problemi che riguardano l'insieme di questa società per mutarla.
Noi soffriamo di alcune sclerosi (ritorno ai miti e ai tabù), ma io non credo che siano insuperabili, soprattutto se non ci mettiamo a rìmpiangere il passato che ci sembra bello: effettivamente era pieno di promesse, ma bello non era. Sylos Labini richiamava alla nostra memoria quella conferenza nazionale economica organizzata dalla Cgil nel febbraio del 1950 sul piano del lavoro. Ed egli cercava di descrivere le condizioni nelle quali tenemmo allora quella conferenza, che materialmente erano molto più difficili di quelle di oggi per i disoccupati. La condizione sociale dei disoccupati allora era assai più penosa di quella di oggi; la condizione morale, cioè il dato soggettivo della sofferenza umana per il disoccupato e per la sua famiglia, è oggi assai più grave e penoso e i pericoli sono anche più grandi di quelli nei quali incorreva allora un disoccupato. Allora si faceva la fame, e adesso non si fa: questa è una differenza, perché tutte le altre cose sono gravi ma vengono dopo non prima di questa.
Ci sono anche altre differenze: allora era aperta la valvola dell'emigrazione, che ora non è aperta; e questa valvola dell'emigrazione trasformava i disoccupati in atto o potenziali, in operai che andavano fuori d'Italia a lavorare (a milioni in quel periodo); oggi no. Inoltre allora era già cominciata la fase di uno sviluppo impetuoso dell'economia del nostro paese che poi ha determinato anche fortissimi spostamenti interni nella dislocazione stessa della popolazione e dei lavoratori, oltre alla straordinaria migrazione dalla campagna alla città. Anche quella era un'epoca di grandissimi cambiamenti sociali che però ha coinciso con una fase nella quale c'era una espansione economica rilevante.
Oggi ci troviamo in una situazione che è ancora fondamentalmente di stagnazione e per giunta, anche laddove non lo è, non esiste più quel rapporto che allora si costituiva come una relazione pressochè automatica come "investimenti uguale aumento dell'occupazione", o quasi. Non esiste più questo dato perché ci sono quei fenomeni di innovazione tecnologica, di risparmi di lavoro attraverso le nuove macchine e i nuovi processi produttivi che si adottano nell'industria, nei servizi ecc, che hanno spostato profondamente questa specie di eguaglianza che allora non era illegittimo né arbitrario costruire.
lo sono molto d'accordo che quello dell'occupazione è uno dei campi fondamentali per l'elaborazione di un programma della sinistra italiana, per misurarne le intenzioni reali e per far diventare questa sinistra una forza trainante non solo dei lavoratori dipendenti in quanto tali, ma anche di altri ceti sociali, interessati ad una politica di risanamento dell'economia e di ripresa dell'occupazione e dello sviluppo. Io sono d'accordo con quei compagni che hanno sostenuto che non si tratta tanto di scegliere tra una soluzione e un'altra. Sono stati indicati parecchi modi di affrontare questo problema, nessuno dei quali basta a risolverlo, ma tutti insieme devono costituire una politica, e quindi avere una incidenza reale nella riduzione di questo fenomeno la cui gravità è chiara a tutti.
Si è parlato di riduzione di orario, di corsi di formazione-lavoro, di part-time, di lavoro socialmente utile: tutto questo va bene e anche altre forme di lavoro cosiddetto precario debbono essere utilizzate. lo però non vorrei che si sottovalutasse del tutto una strategia di sviluppo economico, di ripresa economica fondata su politiche industriali vere e proprie. So bene che quando si pronunciano queste parole si rivà subito alle leggi del passato, alla "675". Si dice che quella legge in sostanza non ha funzionato e allora tutto ciò che possa essere concepito come una normativa tendente a sviluppare l'occupazione, anche attraverso una politica di investimenti selettivi nel settore industriale, diventa una specie di fatica inutile.
lo non credo che sia così e non credo che sia giusto dispensare sostegni ai singoli settori o alle singole unità produttive. Noi dobbiamo introdurre nelle nostre scelte criteri che finora hanno fatto difetto: quello della flessibilità e quello della mobilità. Sono cose diverse dal lasciare fare agli altri, flessibilità mobilità, ricerca del nuovo anche da parte nostra, delle forze sindacali, delle forze della sinistra, devono consentirci di esercitare una funzione di controllo reale.
Penso che questo è anche un modo serio per combattere l'inflazione attraverso una politica dell'occupazione, giacché io non sono daccordo con tutti quei compagni che insistono nel dire che l'occupazione è un nemico da combattere. Una politica di lotta contro l'inflazione, appunto, che abbia come capisaldi pressoché unici, nel suo modo di determinarsi e di manifestarsi un costo apparente o reale. Questa è una politica che la gente non è disposta a fare. Altra cosa è se alle scelte di politica economica che si debbono compiere nel Paese, sì dà il crisma della giustizia, dell'equità. Su quella base si possono chiedere alla gente di fare anche dei sacrifici.
È impossibile, infatti, rivolgere questa richiesta soltanto ad una parte, e per giunta a quella parte che certamente dispone di minori possibilità. Anche la lotta contro l'inflazione con questo metodo non ha fiato lungo. Questo per me è un grande problema di scelta politica, se consideriamo davvero che anche la lotta contro l'inflazione per molti aspetti è una premessa, o è una condizione che va di pari passo, senza la quale il resto diventa più difficile da ottenere e arche precario. Questo spiega anche il peso che noi dobbiamo dare, e stiamo dando, per un fisco equo.
Forse anche qualche nostro errore ha finito per dare impegno del movimento sindacale per una diversa politica fiscale un carattere troppo unilaterale e sbagliato. Come se in guerra, in questo Paese - a parte le forze politiche e i personaggi politici che sono impegnati in questa vicenda - ci fossero due forze: i commercianti e i lavoratori dipendenti. Questo modo di schierare, o di consentire che si rappresentino gli schieramenti sociali in questa partita, è pericoloso e non produce risultati, produce soltanto rotture gravi che impediscono a tutti quelli che vogliono davvero l'equità fiscale, di mettersi insieme e stare insieme, anche se ciò che si deve fare tocca ovviamente interessi reali di alcuni.
La nostra piattaforma sul problema della riforma fiscale riguarda l'Irpef, da alleggerire nel drenaggio fiscale e nella curva delle aliquote, sottoporre a tassazione le rendite finanziarie e predisporre gli strumenti per istituire anche in Italia una imposta sui patrimoni. Il presidente del Consiglio francese, Fabius, da alcuni è applaudito e da altri è vituperato, però proprio in questi giorni ha deciso di aumentare il carico fiscale sui patrimoni. Questo vuol dire che in Francia una imposta sui patrimoni già esisteva e non è successo niente di sconvolgente in quel paese. Oltre a questo, laddove ci sono ceti sociali che evadono di più, naturalmente l'intervento fiscale deve essere più efficace e garantito. È evidente che l'interlocutore di una politica siffatta è il potere pubblico, il governo, il Parlamento, se volete; sono i cittadini che debbono pagare il fisco. I cittadini sono i destinatari di determinate norme che secondo noi debbono essere modificate.
Sono d'accordo con una frase che ha detto recentemente il ministro, compagno De Michelis: le riforme non si possono fare d'accordo con tutti. È evidente, perchè le riforme si fanno con quelli che sono d'accordo di cambiare. Quelli che sono d'accordo che le cose vadano bene così, non sono d'accordo con le riforme. Ma è anche chiaro che le riforme non si fanno neppure con una piccola avanguardia radicale che non è capace di tirarsi dietro le forze fondamentali che sono anch'esse interessate al cambiamento, a conquistarle ad una politica di questo tipo.
La sinistra, a mio giudizio, ha delle prospettive grandi di assumere la direzione di questo paese, ma queste prospettive dipendono fondamentalmente da due cose: intanto l'elaborazione di un programma che parli chiaro ai cittadini e che dica a tutti con chiarezza che cosa vogliamo e che cosa non vogliamo, in modo da non suscitare inutili paure, ma speranze, impegno politico, volontà, soggetti: questi sì che sono elementi indispensabili per qualsiasi politica di cambiamento di una società. L'altra condizione, altrettanto necessaria, ma che discende da questa, é appunto una capacità di questa parte del mondo politico italiano di aggregare il massimo possibile di forze sociali, di cittadini che non sono sordi alle esigenze di cambiamento che oggi si fanno sentire per mille e una ragione in tante case di italiani, anche spesso indipendentemente dalle condizioni sociali a cui questi italiani appartengono.
Per una politica di questo genere, noi come sindacato, in ogni caso noi come Cgil, pensiamo di poter essere una forza partecipe, senza galloni, senza gradi, senza pretese prioritarie né egemoniche, ma una forza che può dare un contributo di forza reale e anche di elaborazione. Sono convinto, che se tutti noi, ciascuno a suo modo, anche con la durezza, l'energia, la forza polemica, l'autonomia, con tutte le cose che volete e che naturalmente devono esistere per ciascuno, non ci impegnamo in questa partita, in questa vicenda, non riusciremo a liberarci neanche dei nostri difetti dei miti, dei tabù, degli errori del passato. Diventa troppo facile, una specie di stato di necessità quello di chi, non avendo una prospettiva davanti a sé, finisce per considerare la migliore delle cose possibili salvaguardare almeno quel patrimonio e quella casa su cui è abituato a vivere, soprattutto quando quel patrimonio e quella casa non sono poi del tutto disprezzabili.
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