“Quattro proposte contro il declino” di Guido Viale

Nel dibattito in corso sul declino le indicazioni per contrastare l´arretramento dell´Italia nelle graduatorie mondiali della competitività si sono concentrate sia sul tema del costo che su quello della produttività del lavoro.

Rientra in questo secondo approccio la richiesta di assegnare maggiori risorse, sia pubbliche che private, alla ricerca, in modo da contrastare con la qualità del know-how i fattori di competitività che i nuovi paesi emergenti ricavano dal basso costo del lavoro. Ma quale ricerca? La ricetta è giusta ma parziale e insufficiente, perché alcuni paesi emergenti sono ormai in grado di mettere in campo competenze individuali, know-how d´impresa e livelli di ricerca & sviluppo, per molti versi superiori a quelli disponibili o attivabili nel breve periodo in Italia e forse in Europa.
È un errore concentrare l´attenzione esclusivamente sulla produttività del lavoro. Questo fattore – vero e proprio motore di tutta la crescita economica dell´occidente, dalla rivoluzione industriale in poi – ha ormai realizzato progressi tali da renderne difficilmente misurabili gli sviluppi incrementali; e tali da indurre diversi economisti a individuare proprio in questi progressi la causa della disoccupazione endemica che ormai colpisce larga parte dell´economia-mondo. I confronti intertemporali della produttività sono difficili: non si può confrontare, in termini di ore di lavoro incorporate, prodotti che pure svolgevano funzioni analoghe, come un piroscafo del primo Ottocento e un Jumbo-jet della fine del Novecento; ma una camicia, o un chilo di pane, o un chilometro di binario ferroviario restano pur sempre prodotti confrontabili nel tempo. Così è stato calcolato che negli ultimi 150 anni la produttività del lavoro sarebbe aumentata di un fattore 50 (non il 50 per cento, ma 50 volte tanto!).
Ben diversa è la storia delle risorse naturali: qui, la convinzione, egemone fino a pochi decenni fa, d´una disponibilità illimitata – pur in un regime economico dominato dal paradigma della scarsità, che permette di attribuire valore aggiuntivo a ogni quantità incrementale utilizzata – ha indotto gli economisti a una sostanziale sottovalutazione della produttività delle risorse: il rapporto tra valore aggiunto e quantità fisica (in peso e/o volume) delle materie prime utilizzate per produrlo. Tuttavia, con l´allarme lanciato dallo studio I limiti dello sviluppo, pubblicato nel 1972 dal Club di Roma, l´attenzione sulla produttività delle risorse – in particolare di quelle energetiche, portata in primo piano dalla crisi petrolifera del 1973 – ha cominciato ad attirare l´attenzione d´un numero crescente di economisti; e alla formulazione dei paradigmi denominati Fattore 10 e Fattore 4 (fattori di riduzione dell´uso delle risorse naturali: il primo valido nei paesi sviluppati, che dovranno “fare spazio” agli altri; il secondo valido a livello mondiale, per aprire ai paesi in via di sviluppo uno “spazio ambientale”, cioè un accesso alle risorse naturali, adeguato); questi paradigmi sono stati ormai adottati dai programmi di sviluppo a lungo termine di diversi paesi europei.
Non si tratta di “malthusianesimo economico”, o di una scelta pauperista; bensì di promuovere – con la ricerca scientifica e la tecnologia – un aumento di efficienza nell´uso delle risorse naturali, cioè uno sviluppo accelerato della loro produttività. “More well-being from less nature” (più benessere con meno risorse) è il programma di riconversione ecologica, che ha già il supporto di numerose applicazioni pratiche, che rappresentano altrettanti casi di studio a livello mondiale. Se in 150 anni la produttività del lavoro è aumentata di un fattore 50, aumentare la produttività delle risorse naturali di 10 volte nei prossimi cinquant´anni non dovrebbe essere un´impresa impossibile. Il disaccoppiamento tra crescita del Pil e l´utilizzo di materie prime è forse l´aspetto più noto della cosiddetta “dematerializzazione” delle economie avanzate ed è stato statisticamente rilevato già da diversi decenni. Alla base di questa rilevazione troviamo però un insieme di fenomeni non tutti riconducibili a incrementi effettivi della produttività delle risorse. Il disaccoppiamento rilevato dalle statistiche è infatti riconducibile a quattro diversi fenomeni:
1. La delocalizzazione – verso paesi di nuova industrializzazione, o in via di sviluppo, o in regresso economico – delle produzioni di base più inquinanti, energivore, produttrici di quantità maggiori di rifiuti (il cosiddetto “fardello ecologico”, cioè la quantità di residui delle fasi iniziali dei processi produttivi: soprattutto estrazione e prime lavorazioni di materie prime) che non figurano nelle statistiche sui flussi di materiali nei paesi in cui le statistiche registrarono un disaccoppiamento significativo;
2. Lo sviluppo tecnologico, che ha permesso invece di ridurre effettivamente peso e/o volume dei materiali utilizzati nella produzione di determinati articoli. In questo processo un posto di rilievo spetta al risparmio energetico, alla ricerca di base e applicata nel campo dei nuovi materiali e, soprattutto, alle nanotecnologie e alle biotecnologie, capaci di ricondurre a dimensioni microscopiche funzioni precedentemente svolte da materie prime a grandezza “naturale”;
3. Sono riconducibili allo sviluppo tecnologico anche il recupero e il riciclaggio dei prodotti dimessi, precedentemente restituiti all´ambiente senza alcuna valorizzazione e, spesso, con un´elevata carica inquinante. Recupero e riciclaggio sono attività vecchie come il mondo, ma solo recentemente si è cominciato a impegnare in questo campo risorse scientifiche e tecniche paragonabili a quelle impiegate nelle fasi iniziali dei cicli produttivi;
4. Il progressivo passaggio da una economia fondata sulla produzione di beni – di cui la produzione di massa fordista rappresenta l´apice – a una economia dei servizi (da un´economia del possesso a una dell´accesso, direbbe Jeremy Rifkin). Questo paradigma prevale mano a mano che la produzione di massa cede il passo a una produzione mirata e personalizzata, in cui il contenuto di informazione e di servizio è crescente, fino al punto di sostituire l´utilità che l´utente/consumatore “autoproduce” acquistando un particolare bene con un servizio erogato in conto terzi. Questo processo riguarda sia il mondo delle imprese e della Pubblica amministrazione, attraverso l´esternalizzazione delle funzioni che non rientrano nel core-business dell´organizzazione, sia il consumo finale, attraverso la cessione a un soggetto terzo delle operazioni connesse all´acquisto, alla gestione e alla manutenzione del bene utilizzato (un esempio è rappresentato dal cosiddetto car-sharing, o auto condivisa). In entrambi i casi si ha un uso più intenso del bene; diminuiscono gli immobilizzi fisici (le auto private restano parcheggiate in media 22 ore al giorno); si riducono in misura corrispondente le risorse fisiche e lo spazio coinvolti nella produzione e nel consumo.
Non esiste una strada privilegiata verso la dematerializzazione: le quattro opzioni indicate sono spesso complementari; ma la quarta chiama in causa competenze organizzative, gestionali e negoziali che sono il prodotto tipico di un contesto sociale e culturale maturo; e non riducibile a mere competenze professionali individuali acquisite in processi educativi, né alla consistenza degli investimenti in ricerca. Si tratta anzi spesso di trasformazioni a costo zero; oppure dai costi rapidamente riassorbibili dopo una fase di avviamento; consentono la messa a punto di servizi esportabili in tutto il mondo; richiedono la mobilitazione di risorse intangibili (soprattutto “capitale umano”) inutilizzate o insufficientemente valorizzate, ma già presenti in contesti sociali complessi. La competitività che si affida a un incremento della produttività delle risorse, in altre parole, è indissolubilmente legato alla valorizzazione di un contesto culturale e sociale maturo come quello italiano ed europeo.

Fonte: La Repubblica, giovedì 14 aprile 2005

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