Riportiamo l’Editoriale di Tommaso Nannicini pubblicato sul numero di “Mondoperaio “del mese di gennaio ,la “Storica Rivista” “diretta da Luigi Covatta” ,a vent’anni dalla scomparsa di Bettino Craxi

Nostra intezione diivulgare uno alla volta aricoli ed editoriali raccolti nel numero 1 di gennaio 2020 di “Mondoperaio”che ha riportato in questa occasione le testimonianze e i ricordi di tante personalità della politica di oggi e dell’epoca. sula opera e la figura di Craxi .

Iniziamo come da cronologioa della “Rivista” con l’Editoriale di Nannicini.

Bettino Craxi

       

>>>> editoriale
Disgelo
>>>> Tommaso Nannicini

Ci sono voluti vent’anni per discutere di Bettino Craxi con
un minimo di equilibrio. Anche se, intendiamoci, si tratta
di un equilibrio ancora in dosi omeopatiche. In Italia qualsiasi
discussione politica sulla storia più o meno recente finisce
sempre per essere risucchiata nel gorgo delle valutazioni strumentali.
Oggi ci sono meno esasperazioni di ieri, certo: ma
c’è ancora molto opportunismo. La domanda che si legge dietro
a ogni commento politico è quasi sempre la stessa: mi si
nota di più se lo rivaluto o se lo demonizzo? Mi conviene
chiamarlo statista o latitante? La domanda è di rado quella
che invece dovremmo porci: un paese che sa fare i conti con
la propria memoria come dovrebbe ricordare un politico che
è stato leader di un partito di massa come quello socialista per
sedici anni e capo del governo italiano per quattro anni?
Il dibattito che riemerge ciclicamente sull’opportunità di
dedicare una via di qualche città a Craxi è l’emblema di questo
atteggiamento: è giusto; è sbagliato;: parliamone, ma non
è il momento. Ognuna di queste posizioni trasuda spesso tatticismo,
settarismo o moralismo, a seconda dei casi. E sempre
con una strana premessa: che il compito della politica sia
quello di dividere i morti in santi e peccatori. Compito che
forse dovremmo lasciare a qualcun altro. Se fosse quello il
ruolo della toponomastica stradale, sarebbe meglio usare i
numeri per nominare le vie, come a Manhattan. La premessa
invece dovrebbe essere un’altra: che in politica, come nella
vita, i santi non esistono. Esistono le persone, con le loro
grandezze e le loro debolezze. E le vie dovrebbero ricordare
chi ha lasciato un segno nella nostra traiettoria collettiva
attraverso entrambe, come non potrebbe essere altrimenti.
Mondoperaio inizia con questo numero una discussione tutta
politica sulla stagione di Bettino Craxi: con la speranza che questa
discussione raggiunga anche generazioni che quella stagione
non sanno che cosa sia, o che la conoscono per aver letto Marco
Travaglio e Vittorio Feltri piuttosto che Luciano Cafagna e Zeffiro
Ciuffoletti. Qui mi limito a mettere in fila alcuni elementi
che ancora oggi vengono colpevolmente trascurati a livello politico.
Lo faccio da una prospettiva “di parte”: quella di una persona
che ama la politica e, votando per la prima volta nel 1992,
ha scelto di diventare socialista in piena Tangentopoli: quando
farlo significava un po’ diventare colpevoli per scelta. E lo ha
fatto per ragioni ideali, legate ai valori di una sinistra liberale e
riformista: ma anche per difendere la dignità della politica di
fronte a un rito collettivo del capro espiatorio che ha poi fatalmente
finito per buttare via il bambino con l’acqua sporca.
Ancora oggi si fatica ad ammettere che la demonizzazione del
nuovo corso socialista di Bettino Craxi, allievo di Pietro
Nenni e convinto assertore della centralità della politica, non
nacque con la questione morale, ma intorno a temi squisitamente
politici, a partire dagli anni che seguirono la sua elezione
a segretario del Psi nel 1976: grande riforma istituzionale;
strategia euro-atlantica; scala mobile; responsabilità
civile dei magistrati; offensiva culturale in nome di un anticomunismo
di sinistra col muro di Berlino ancora in piedi. Su
quei temi, come oggi riconoscono in molti, Craxi e i socialisti
avevano ragione. E i frutti di quella ragione sono ancora fra
noi. Con Tangentopoli si tentò di giustificare ex post, su presunte
basi morali, una demonizzazione che era tutta politica.
Si badi bene: aver ragione nel merito e veder scomparire il
proprio partito (con alle spalle un secolo di storia) non è
un’attenuante, ma un’aggravante. Non ci fu un semplice complotto.
Certo, gli avversari gettarono benzina sul fuoco. Ma
come aspettarsi altrimenti? La colpa di noi socialisti fu quella
di permettere che ciò avvenisse per colpa dei nostri errori.
Perché perdemmo il contatto col paese dopo il 1989, e
finimmo per apparire il baluardo di un sistema di potere alla
cui ombra si erano ramificate corruttele. A un certo punto a
via del Corso si aggiravano troppi faccendieri, che difficilmente
la sera, prima di andare a letto, leggevano Mondoperaio,
Luciano Pellicani o Norberto Bobbio. Questo c’è stato
(le ombre di quella stagione, la solitudine del suo leader e i
suoi errori politici): ma non cancella certo le luci e le battaglie
ideali che Craxi, quel gruppo dirigente e milioni di militanti
ed elettori hanno sostenuto nell’interesse dell’Italia.
E così veniamo a Tangentopoli. Come ha riconosciuto
Gerardo D’Ambrosio, le accuse rivolte a Craxi non riguardavano
casi di arricchimento personale, ma di finanziamento

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illegale della politica. All’ombra di quel sistema illegale,
certo, si annidavano corruzione e distorsioni della concorrenza.
Ma quel sistema – con l’aggiunta dei flussi di denaro
provenienti dall’estero – riguardava tutta la prima Repubblica,
in tempi in cui le spese erano molto alte per ragioni
nobili e meno nobili (come le guerre intestine tra correnti).
Questo tema la politica non volle affrontarlo (e gli stessi
socialisti lo sollevarono fuori tempo massimo): i danni di
quella scelta sono ancora fra noi. Ci si affidò alla ghigliottina
dei processi, che colpivano con la precisione di una roulette
russa anche perché il reato di finanziamento illecito ai partiti
era stato depenalizzato per alcuni anni ma non per tutti.
A ripensarci è stupefacente come la campagna d’odio verso la
classe politica fu alimentata da quanti ne venivano risparmiati:
politici che si erano incrociati per una vita con i reprobi additati
al pubblico disprezzo, da alleati o da avversari, ma sempre alternando
le private familiarità con i pubblici duelli. E condividendo
la medesima passione per la politica. Rimane inspiegabile,
per chi sia stato anche solo sfiorato da quella passione,
come i politici rimasti fuori dal ciclone non abbiano sentito
l’impulso di arginare l’odio, di rimpiazzare la voglia di punire
con la voglia di spiegare che cosa erano la politica e il suo finanziamento
nella prima Repubblica. Di spiegare che non c’era da
vergognarsi se per un periodo la politica aveva riempito alcuni
vuoti anche finanziariamente, stipendiando gli amministratori
locali (per permettere ad alcuni ceti sociali di emanciparsi e far
parte della classe dirigente), e aiutando i dissidenti delle dittature
di destra o di sinistra (o quelli di entrambe nel caso dei
socialisti). Ciò non giustifica il sistema illegale con cui la politica
si finanziava, o le distorsioni che imponeva sull’attività economica.
Ma lo si sarebbe dovuto spiegare ugualmente.
Detto tutto questo, intitolare una via al leader socialista non è ciò
che conta. Si mandi pure via Craxi dalla toponomastica stradale.
Non è questo il punto. Il punto è politico. E ci parla di come gli
italiani dovrebbero fare i conti in maniera matura con la propria
storia. Ci parla di quale spazio dare alle pagine importanti scritte
da Craxi e dal Psi in quella storia, ad alcune battaglie ideali che
hanno fatto germogliare idee che ancora fortificano la nostra
vita collettiva. La questione non riguarda solo gli ex Psi, ma tutti
noi. Di questo dovremmo parlare. Non di cartine stradali, ma di
politica: delle sue bassezze e della sua bellezza.
Come disse una volta lo stesso Craxi, che era un politico di un
altro tempo: finché avrò carta e penna, continuerò a fare politica.
I socialisti italiani, attivi o meno che siano nei partiti esistenti,
finché avranno un computer, un accesso a internet e –
perché no – anche una rivista dalla diffusione corta ma dai
pensieri lunghi come Mondoperaio, si impegnino per fare lo
stesso. Riflettendo, per esempio, su come ridare dignità alla
politica. Spiegando che la democrazia è più debole se la politica
possono farla solo i ricchi, o se si taglia orizzontalmente
la rappresentanza politica con una riduzione dei parlamentari
che priverebbe interi territori e visioni politiche di una voce e
lascerebbe la scelta dei politici ai capetti di partito piuttosto
che agli elettori. E riflettendo su che cosa voglia dire oggi –
nel XXI secolo, non nel Novecento – “portare avanti chi è
nato indietro”. C’è bisogno di un riformismo al passo coi
tempi e la lezione di Craxi – anche se non da sola – può aiutarci
a riannodare fili spezzati da troppo tempo.
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Luigi Covatta