Rilanciamo volentieri un” Articolo” apparso ,sotto forma di intervista, su On line INGENIO Magazine 81 di Aprile 2020, di Francesco Karrer dal titolo -Pianificare la città dopo il Coronavirus: quali prospettive.

 

Francesco Karrer

“Nato nel 1942, architetto, docente ordinario di Urbanistica, già presidente del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, Commissario Straordinario al Porto di Napoli, ha svolto studi e ricerche nella pianificazione, programmazione, progettazione, architettura, ambientale e territoriale-urbanistica. È redattore di numerosi strumenti di pianificazione di area vasta, di grandi, medie e piccole città. Ha sviluppato e approfondito la conoscenza di molti settori funzionali (ambiente/urbanistica, urbanistica per le attività produttive, trasporti e infrastrutture, ecc.). Ha partecipato in più occasioni alla produzione legislativa nazionale e regionale: fra l’altro, ha presieduto la Commissione ministeriale che ha predisposto lo schema del DPCM 116/1977 sull’offerta economicamente più vantaggiosa applicata agli appalti di servizi”

“Alcune articolate considerazioni su una Riforma Urbanistica di cui necessita il Nostro Paese

Se dovessimo ripensare l’assetto istituzionale ed operativo della pianificazione urbanistica non potremmo non interrogarci su alcune questioni di fondo.Il ripensamento dovrebbe riguardare le maggiori emergenze delle città, rappresentate quasi sempre dalle periferie e comunque dalle zone dove il patrimonio immobiliare è divenuto obsoleto, insicuro, energivoro ed anche insalubre. Spesso è anche la struttura urbana che ospita questo patrimonio ad essere obsoleta e disfunzionale sotto diversi profili, non ultimo quello dell’igiene urbana.

Lo scontro con lo status quo – la grande tirannia secondo Milton Friedman -, sarà duro da vincere. La città esistente, di fatto, ha vinto già la battaglia contro il telefono, il fax e tutte le possibilità della telematica. La sua resistenza, da non confondere con la resilienza, è fortissima almeno quanto i comportamenti sociali e gli stili di vita. Mentre le tecnologie di questo tipo sono adattive, come tali si piegano facilmente. Non hanno la forza di modificare gli assetti urbani e territoriali. Cosa necessaria se si volessero migliorare sotto il profilo igienico-sanitario le città. Non solo con programmi di ri-ambientazione con il “verde urbano”, ma anche, probabilmente, con una spinta de-densificazione.

Esattamente l’opposto di quanto si sta facendo, nell’ossequioso rispetto del “must” rappresentato dal principio del “consumo zero” di suolo.Comunque, ecco un primo elenco di interrogativi e un primo abbozzo di risposte a questioni nuove e vecchie, ma ancora irrisolte.

Il presupposto giuridico del piano urbanistico in quanto “atto unitario a contenuto diseguale” che legittima il potere pubblico di decidere l’uso del suolo e di allocare i diritti di costruire può ritenersi rispettato anche se il piano urbanistico disciplina solo una porzione del territorio comunale, quale quella della città esistente o costruita che dir si voglia?

Tanto più che sappiamo bene che la perequazione urbanistica realmente praticabile è quella di ambito ed ex post, che non ha la capacità di fare vera “giustizia fondiaria”, anche se riduce un pò la distorsione prodotta dalla “lotteria fondiaria” insita nella pianificazione urbanistica.Senza considerare che la perequazione urbanistica “alla italiana” in realtà è solo una modalità di attuazione del piano urbanistico, alternativa alla espropriazione per pubblica utilità, dati i costi molto elevati delle espropriazioni.

Queste seconde da considerarsi nella fisiologia della città, non solo sotto il profilo funzionale, ma anche quello economico: l’espansione, le tasse e le tariffe notoriamente hanno finanziato la città! Tanto più che l’obiettivo del “consumo di suolo zero” sembra essere oramai unanimemente condiviso anche se non tutte le conseguenze sono comprese e valutate.

Ancora comunque basato su un livello generale ed uno puntuale. Nel caso della legislazione regionale generalmente il primo livello è definito strutturale e il secondo operativo. La geografia delle leggi urbanistiche regionali in realtà è molto più articolata e di conseguenza lo sono anche le definizioni dei livelli di piano. Il primo livello, secondo questa impostazione, non avrebbe (o meglio, dovrebbe) avere “ valenza fondiaria”; già questo lo rende difficilmente compatibile con il trattamento fiscale della proprietà delle aree edificabili, competenza dello Stato, che la esercita sulla base della legge Bersani-Visco, più volte sottoposta al giudizio della Cassazione con il risultato di una sua piena legittimazione.

Si deve ricordare che l’imposizione fiscale “scatta” al momento della sola adozione dello strumento di pianificazione.Domandarsi se e quando questo acquista valenza fondiaria non è quindi secondario. Anche perché non tutte le leggi urbanistiche regionali prevedono i due livelli in modo esplicito. Nel modello teorico di riferimento – parte strutturale, parte operativa -, si potrebbe sostenere che l’edificabilità, quindi la tassazione delle aree edificabili, si ha con l’adozione della parte operativa del piano, cioè il cosiddetto secondo livello.

Ma come noto, nella realtà della pianificazione non si realizza questa netta separazione. Le previsioni della parte strutturale incidono sulla edificabilità dei suoli, quindi sulla loro tassabilita’.

Rinviando ad altra occasione la discussione su questo problema (2), qualora il piano urbanistico avesse come oggetto la sola città esistente, di fatto equivarrebbe ad un piano attuativo molto simile al piano di ricostruzione previsto dal Decreto legislativo luogotenenziale, 1 marzo 1945, n.154, con il quale sono state ricostruite le città distrutte dai bombardamenti della seconda guerra mondiale. In alcune città – a nostra memoria Civitavecchia, Villa San Giovanni -, i piani di ricostruzione sono rimasti in vigore molto a lungo.

Tale piano dovrebbe articolarsi nelle tre azioni classiche dell’“urban renewal”: la conservazione, la ristrutturazione urbanistica e l’abbattimento e ricostruzione di porzioni di città (“redevelopment”).Molto importante in questa nuova impostazione diviene, ancora più di quanto già non è, integrare meglio la legislazioni urbanistica e quella degli interventi edilizi sugli edifici esistenti (aumenti di volume, cambi di destinazioni d’uso totali o parziali, sicurezza statica, efficientemente energetico, disinquinamento indoor). Così come, in modo realmente operazionabile, è essenziale l’incorporazione della disciplina ambientale nell’urbanistica operativa, in termini di sostenibilità ambientale, economica, sociale ed organizzativa.

 Il rinnovo urbano non può essere un “job” solo dell’urbanistica, così come non lo sono le periferie dolenti di molte città. La loro rigenerazione deve essere innanzitutto sociale.Se il rinnovo urbano fosse considerato solo come un problema urbanistico si rischierebbe una diffusa “ gentrification”, con effetti in termini di aumento della densità edilizia, la scomparsa di attività artigianali e del commercio di prossimità, l’aumento complessivo dei costi della vita per singoli e famiglie a rischio di espulsione.Occorrerebbero pertanto politiche pubbliche e nuovi strumenti di azione, che la pianificazione urbanistica può “accompagnare”, svolgendo una funzione comunque molto importante, anche se a qualcuno potrebbe sembrare esclusivamente ancillare.

Emerge, ancora una volta, la necessità di costruire esplicite politiche pubbliche per la città in generale e per le singole città esplicitamente.È evidente che senza queste – welfare, lotta alle emarginazioni, incentivi alle attività produttive minori, artigianato e commercio di prossimità, ad esempio -, difficilmente si può fare rigenerazione urbana al riparo dal rischio della “gentrification”.

Tra queste politiche mirate, spazio significativo devono avere anche il sostegno alle categorie sociali deboli in tema di affitto delle abitazioni, il contenimento dei costi di costruzione a partire da quello dei suoli, considerando anche i costi amministrativi: le tasse di costruzione ed i contributi agli oneri di urbanizzazione sono divenuti molto alti, soprattutto allorché si devono versare extra oneri perché si opera in determinate parti di città o si deve fare un cambio di destinazione d’uso.

Il “format” del piano urbanistico conseguente a questa nuova impostazione istituzionale ed organizzativa sembrerebbe somigliare molto a quella che è stata definita l’“urbanistica per progetti” o “ tout court” del “progetto urbano”(.Ma non In realtà) . Le due definizioni precedenti, che richiamano l’esperienza accademica e professionale dell’architetto Ludovico Quaroni (3), non interpretano bene la nuova impostazione.

Forse meglio definibile con la definizione di “urbanistica per operazioni” che ovviamente richiedono un progetto, integrato e completo, che non si esaurisca nella dimensione fisica dell’operazione, contribuendo così a dare un senso concreto alla affascinante quanto inafferrabile definizione di “città, bene comune”. Oggi di grande successo.

  1. Con riferimento soprattutto alle legislazioni regionali si dovrebbe preliminarmente costruire una geografia comparata, da confrontare con la legislazione statale rappresentata non solo dalla Legge fondamentale del 1942 e tutto l’apparato di implementazione, ma anche dal Testo unico dell’edilizia, fino al Codice dei contratti pubblici.

  2. Se si dovesse ricostruire un filo conduttore unico, per molti versi auspicabile, non si potrebbe non mettere al centro proprio la questione della imposizione fiscale della proprietà immobiliare, edificata e da edificare. Il piano urbanistico dovrebbe avere a disposizione strumenti quale la “land tabulation”, ad esempio.

3) Già negli anni 1960 la discussione sulla contrapposizione tra “town design” e “civic design” era culturalmente e metodologicamente molto forte. Come oggi tra “ project urbain” e “project de ville”.

Cioè tra la dimensione fisica e quelle sociali ed economiche delle operazioni urbanistiche..2